L’interattività e la fine del libero arbitrio



Il realismo ha un limite: quanta libertà siamo disposti a sopportare prima che diventi noioso?


In copertina: un’immagine da Doki Doki Literature Club!

di Andrea Cassini

Osservando le vicende della nostra esistenza su scala microscopica potremmo stringere l’immagine fino a ottenere una serie di micro-eventi comandati da scelte binarie, o sliding doors: alzarsi in orario o fare tardi la mattina, salire sul treno o rimanere sul binario. L’idea è popolata da suggestioni proposte dalla fisica quantistica, come l’ipotesi che nell’universo esistano molti mondi – uno per ciascuna nostra scelta. Al mutare della prospettiva, anche il valore di tali scelte cambia profondamente di significato; dalla distinzione morale tra bene e male al mero atto meccanico con cui navighiamo tra le innumerevoli possibilità offerte da mondi infiniti, disegnando diagrammi di flusso come quelli familiari agli informatici. Differenti punti di vista sul valore della scelta influenzano infine la nostra opinione sull’agente della scelta stessa. Ci chiediamo chi muove veramente i fili, insomma, e se ci siano davvero dei fili da muovere. Per esplorare i contorni di questa domanda, le forme d’arte interattiva sono uno strumento impareggiabile.

Sul finire del 2018, con l’occasione delle festività natalizie, Netflix ha rilasciato Bandersnatch, il primo film interattivo della piattaforma, inteso come apripista per la nuova stagione della serie Black Mirror. In maniera analoga a quanto accadeva (e tuttora accade, se consideriamo la riscoperta dei Fighting Fantasy di Salani e della saga Lupo Solitario) nei librogame, gli spettatori erano chiamati a indirizzare le scelte del protagonista Stefan con un tasto del telecomando o del controller, contribuendo allo sviluppo della trama intorno ai suoi bivi chiave. La modalità di fruizione di Bandersnatch accennava anche al mondo dei videogiochi, sebbene in uno dei loro aspetti più rudimentali, e difatti la storia scritta da Charlie Brooker metteva in comunicazione le due istanze: il protagonista Stefan è un giovane game designer nella nascente industria videoludica degli anni ’80, alle prese col rifacimento in versione videogioco di un librogame, l’immaginario Bandersnatch che dà il titolo alla vicenda.

Il film sollevò un alto polverone di opinioni nei giorni che seguirono il lancio, in parte per la sempre capillare campagna promozionale di Netflix e in parte per l’effettiva novità del medium scelto. Opinioni che coinvolsero anche la critica di settore e che si spensero altrettanto rapidamente su una linea mediana: il film interattivo, pur ben scritto, non rivoluzionerà il mondo – almeno per il momento. Bandersnatch risultava un ibrido tra film, videogioco e librogame, carente di un’identità individuale.

Completando a freddo l’analisi della critica sarà opportuno considerare la visione d’insieme, vale a dire valutare il medium accanto al contenuto. Bandersnatch ha una forma ibrida perché la storia di Stefan lo richiede, e la limitatezza della scelte binarie offerte allo spettatore rispetta il progressivo deteriorarsi della salute del protagonista verso la paranoia che lo fa sentire, egli stesso, come personaggio di una storia “giocata” da altri. In questo senso, è cruciale che attraverso le parole del mentore Colin venga presentata una “teoria della coscienza” articolata intorno a Pac-Man:

“Lui crede di avere il libero arbitrio ma è incastrato in un labirinto, un sistema in cui può solo consumare, e anche se scappa uscendo da un lato del labirinto, torna subito dentro dall’altro lato. È un diagramma cosmico che detta dove puoi e dove non puoi andare”.

Diagramma e labirinto, dunque, due termini che convergono nella scelta del titolo, Bandersnatch: una creatura ideata da Lewis Carroll, che abita nel mondo al di là dello specchio. Anche in un universo governato da leggi fisiche (o dalla loro riproduzione speculare, come scopre Alice) è possibile smarrire la strada, perché la legge del labirinto è che mille strade sbagliate equivalgono a nessuna strada.

Si può tuttavia obiettare che un videogioco “classico” sarebbe stato più adatto a comunicare messaggio e trama di Bandersnatch rispetto al film interattivo, superando in un colpo solo i limiti strutturali (Netflix ha dovuto girare oltre centocinquanta minuti di materiale), narrativi e meta-narrativi: i momenti più brillanti di Bandersnatch sono forse quelli che scavalcano la quarta parete (in uno dei finali, l’inquadratura si sposta sul set del film e la paranoia del protagonista scivola sull’attore Fionn Whitehead, improvvisamente ritratto nei panni di se stesso), ma mostreremo più avanti come in questo particolare procedimento i videogiochi siano esecutori più maturi ed efficaci.

Una delle critiche più interessanti rivolte a Bandersnatch, anche a livello di reazione popolare, lamentava come il film fosse “poco interattivo”. Le storie “a bivi”, come quelle dei librogame o di un’avventura punta e clicca, possono essere rappresentate da un diagramma di flusso che illumina i percorsi aperti da ogni alternativa, e in effetti il popolo del web ha impiegato poche ore per esplorare gli snodi della trama di Bandersnatch fino a ottenere un quadro completo di ogni finale. È quello che succede anche con un videogioco, la cui longevità è legata anche al numero di route necessarie per sperimentare diversi sviluppi compiendo scelte differenti.

Ma questa “interattività” è un concetto arduo da misurare. È davvero il numero di scelte a disposizione, e quindi la complessità e la profondità del diagramma di flusso, a determinare la godibilità dell’esperienza di gioco (o di visione)? Cosa cerchiamo da un’esperienza virtuale, e che differenza corre tra un’esperienza ludica, reale e virtuale in termini di libero arbitrio?

Giocare di ruolo alla fine del mondo

 

“Sei una bravissima persona, signor Baggins, e io ti sono molto affezionato; ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto!”

“Grazie al cielo!” disse Bilbo ridendo, e  gli porse la borsa del tabacco.

Così, sulle parole di Gandalf e Bilbo Baggins, si conclude Lo Hobbit di J.R.R Tolkien, la maestosa avventura di un piccolo protagonista che, terminate le eroiche gesta, si rallegra del fatto che ben poco, in questo mondo, dipenda dalla propria volontà. Una presa di coscienza che si allinea alla moderna verità scientifica, secondo cui la locuzione “morte del libero arbitrio” è ormai un termine consolidato. Chiaramente, sarebbe più corretto considerare che il libero arbitrio non ci sia mai stato.

L’idea è che le reazioni interne al nostro cervello, comandate dall’attivarsi dei neuroni, ci “indirizzano” verso una certa azione prima che noi ne prendiamo coscienza. L’agente della decisione non sarebbe più il sé, ma un’entità diffusa – alcuni la paragonano a un campo magnetico – che concretizza i comandi scritti nel nostro codice genetico. È curioso come questa meccanica assomigli alla vicenda di Stefan in Bandersnatch, che obbedisce inconsapevolmente agli ordini del pubblico di Netflix, e non è un caso che Charlie Brooker abbia insistito sulla rottura del punto di vista del protagonista. Per una convincente prova scientifica basti considerare un recente studio pubblicato su Scientific Reports, dove alcuni ricercatori sono stati in grado di predire le scelte dei partecipanti con ben undici secondi d’anticipo osservandone l’attività cerebrale. A dispetto di una società occidentale che sul concetto di libero arbitrio fonda buona parte delle proprie fortune, dal piano religioso a quello sociale, la novità non è stata accolta come una rivoluzione copernicana ma sta piuttosto percolando nell’immaginario collettivo, a partire dal celebre articolo di Stephen Cave su The Atlantic che appunto titolava “There’s no such thing as free will”.

L’apprezzatissima coppia di saggi di Yuval Noah Harari, Sapiens e Homo Deus, insiste spesso sulla questione, e nella cultura popolare la seconda stagione della serie tv Westworld giunge a ribaltare la canonica relazione tra uomo e macchina: siamo noi ad assomigliare a loro, non viceversa, perché come robot agiamo obbedendo a impulsi che non abbiamo prodotto coscientemente – poco importa che il primo motore sia un mandante umano o un cieco frammento di informazione genetica, ed ecco che l’attivarsi dei nostri neuroni lavora in maniera non dissimile dall’algoritmo di un’intelligenza artificiale. Anche nella comunità filosofica c’è chi oppone resistenza, se non altro perché il nostro sistema di riferimento è imperniato sull’idea che i nostri pensieri, parole, opere e omissioni abbiano importanza sia per il loro effetto sull’ambiente, sia perché esprimono il nostro sé – un altro concetto che esce demistificato e frammentato dal terreno di battaglia della filosofia contemporanea.

Posto che la libertà come la intendevamo non esiste, abbiamo comunque bisogno di una sua rappresentazione? O preferiamo rinunciarvi, scendendo a compromessi più o meno consci con una sua illusione, privilegiando l’intrattenimento? In una certa misura, l’interattività può assumere questo ruolo e i videogiochi offrono un’ampia casistica.

Innanzitutto l’interattività è data dal semplice impugnare un controller e guidare i movimenti del nostro avatar digitale verso un obiettivo. Da qui l’elemento ludico in senso agonistico, la sfida, con se stessi e con gli altri per battere i record. Il percorso parte dai cabinati da sala giochi, dagli sparatutto primordiali come Space Invaders e dagli hack ‘n slash, compie un lungo giro e torna ai giorni nostri con l’esplosione di popolarità degli eSports (videogiochi intesi in senso competitivo, con ambizioni di dignità olimpica) e in generale delle modalità di gioco online dove l’obiettivo diventa superare avversari in carne e ossa. In mezzo una vasta serie di esperienze miste, rese possibili dallo sviluppo della tecnologia. Nella serie Dark Souls l’elemento del challenge ha una posizione importante, e il gioco punisce il giocatore inesperto privandolo di quelle comodità (salvataggi continui, combattimenti facilitati) a cui i mondi virtuali spesso ci abituano: tuttavia, uguale attenzione è posta alla narrazione e al design, con profondità degna di un gioco di ruolo.

Potremmo individuare invece una categoria di videogiochi plot driven, cioè dove l’elemento predominante è quello della trama, della narrazione. Ci si avvicina alla zona di competenza di romanzi e film, e l’aspetto interattivo si evolve per farci interpretare le scelte del protagonista – o a seconda del livello di immedesimazione raggiunto, a rendere noi stessi il protagonista. Agli albori troviamo avventure testuali, come quella basata sulla Guida Galattica per Autostoppisti che condivide l’ironia british dell’autore Douglas Adams. Qui il giocatore interagisce con l’ambiente tramite input sulla tastiera, senza appoggiarsi a un’interfaccia grafica; una situazione molto vicina all’entrare tra le pagine di un libro, ma più complessa delle scelte binarie proposte dai librogame.

Poi fu la volta delle avventure grafiche o punta e clicca, con gli intrecci picareschi della serie Monkey Island, firmata LucasArts, tra gli esempi più brillanti. La trama è fissa, non possiamo alterarla, si tratta solo di muoversi attraverso i suoi snodi eseguendo le azioni richieste nell’ordine corretto. Ma la storia è avvincente, l’investimento emotivo nei personaggi è alto, gli enigmi richiedono una certa arguzia per essere risolti. Quando infine capiamo come utilizzare quel bizzarro pollo di gomma con la carrucola in mezzo, siamo talmente soddisfatti che ci convinciamo di aver risolto noi il dilemma, e di aver fornito un aiuto indispensabile a Guybrush Threepwood, temibile pirata. Si capirà che queste dinamiche non potrebbero più sussistere nel 2019, con la tentazione di attingere da dettagliatissime guide online all’insorgere della prima difficoltà – anche per questo il già citato elemento challenge del videogioco si è spostato sulla competizione tra giocatori umani.

I giochi di ruolo segnano un altro punto sulla mappa, e l’aspetto radicale di quelli di tradizione giapponese (o JRPG) presenta caratteristiche significative. La serie Final Fantasy è forse l’unica a essere ascesa nel mainstream occidentale, ma i franchise Dragon Quest, Persona (Shin Megami Tensei) e Tales of sono ugualmente longevi. Qui la partecipazione del giocatore passa da un estremo all’altro. Da un lato siamo catapultati al centro di storie grandiose, fantastiche, epiche. Dall’altro, si ha l’impressione di assistere a un film – da una posizione privilegiata, e il film è molto bello, ma pur sempre di un film si tratta. Manovriamo i personaggi col controller, ne personalizziamo le abilità e ne studiamo le strategie in battaglia, possiamo esplorare il mondo – entro certi limiti – per scovare segreti e missioni secondarie, ma tutto ciò che è narrativo si svolge in un’area grigia fatta di dialoghi e cutscene fuori dal nostro controllo. Se un membro del party ci sta antipatico non potremo scacciarlo, e se proviamo compassione per l’antagonista di turno non potremo convincere il nostro eroe a risparmiarlo. Tutto questo rischia di creare una certa dissociazione emotiva verso gli aspetti realistici del gioco, come la faticosa sequela di combattimenti per accumulare punti esperienza o l’assolvimento di una quest che blocca la trama principale: a volte vorremmo solo sederci in poltrona e goderci la storia.

I videogiochi di ruolo occidentali hanno seguito una direzione differente, mutuata dai giochi di ruolo da tavolo e incentrata sull’interpretazione del personaggio. Si pensi a Baldur’s Gate, erede digitale di D&D. Tramite alcune scelte, che riguardano più che altro l’atteggiamento verso i personaggi non giocanti, il giocatore si colloca in una “scala morale” modellata sugli allineamenti standard del genere, da legale buono a caotico malvagio – ma anche in questo caso, la nostra libertà d’azione è più illusoria che fattuale, incassata in una trama e in un set di risposte predefinite. Il progresso di console e computer ha reso possibile lo sviluppo di mondi virtuali dal territorio immenso, da sfruttare in giochi di ruolo che mettono in primo piano l’esplorazione, i cosiddetti open world: il fantasy Skyrim, il post-apocalittico Fallout, il fantascientifico Mass Effect, il gangster GTA. Nel caso del western Red Dead Redemption alcuni hanno chiamato in causa uno dei temi portanti di Westworld: un mondo fittizio che è invitante non perché ti permette di impersonare nuovi personaggi, ma perché ti dà la possibilità di mostrare chi sei veramente. Slogan a parte, si tratta di sperimentare un’altra sfaccettatura nell’illusione della libertà. Persi a vagabondare da un punto all’altro della mappa sconfinata è facile perdere interesse per la trama principale, e una volta svanito l’entusiasmo ci rassegniamo al fatto che i mondi virtuali non sono (ancora?) tangibili come quelli reali, e ci interroghiamo sull’effettiva valenza dei comandi che stiamo impartendo al controller. Una libertà di scelta tra moltissime alternative insignificanti, può ancora definirsi tale?

Un caso recente ci viene in aiuto, per rispondere: No Man’s Sky, del 2016, che fu salutato in sede di presentazione come una novità epocale. Un’accurata simulazione di viaggi spaziali, dove i giocatori sarebbero stati liberi di esplorare un intero open universe generato proceduralmente composto da 18.446.744.073.709.551.616 pianeti, ciascuno con la propria flora e fauna. Il risultato fu che a pochi giorni dall’uscita No Man’s Sky era già un flop. Un po’ per le promesse disattese dagli sviluppatori su alcune funzioni, e un po’ perché, in definitiva, tutta quella libertà era tremendamente noiosa.

Sciogliere il nodo e rompere la quarta parete

 

Un certo genere di videogiochi sceglie la strada della massima immedesimazione del giocatore nel protagonista, offrendo una visualizzazione in prima persona e la focalizzazione sulle scelte; le visual novel, ad esempio. La serie Life is Strange e i numerosi titoli Telltale (come The Walking Dead) hanno avvicinato al genere anche il pubblico occidentale, ma rimane particolarmente popolare in Giappone anche grazie a un’ampia fetta di produzioni amatoriali: grafica essenziale in stile manga, declinazioni in senso erotico o dating simulator e una forte tendenza alla rottura della quarta parete, rivolgendosi direttamente alla persona oltre lo schermo. La libertà di scelta (o presunta tale) è portata ai massimi livelli di complessità concessi dal sistema ad alternative binarie, disegnando diagrammi di flusso sempre più simili a labirinti: basti pensare che la traduzione inglese di Fate/Stay night occupa un volume maggiore de Il Signore degli Anelli. Ma è l’espediente metatestuale che incrementa in maniera decisiva il fattore interattività, stimolando la nostra sensibilità nei confronti dello spazio che abbiamo intorno senza isolarci nell’ambiente virtuale. Non che sia una novità, né una strategia unica di questo genere. Già nel 1998 un titolo di straordinario successo come Metal Gear Solid invadeva lo spazio fisico dei giocatori invitandoli a recuperare un codice sulla confezione del gioco o spostare il controller dall’entrata 1 all’entrata 2. Numerosi videogiochi del passato (da Paper Mario ai già citati Monkey Island) contenevano scene in cui i personaggi guardavano “oltre la telecamera” – ma si trattava di segmenti ironici, accompagnati da strizzate d’occhio e battute a effetto. Per trovare rotture della quarta parete con funzione integrante nella trama serve arrivare fino a Vangers, dimenticato e forse dimenticabile titolo russo del 1998. Al termine dell’avventura lo Spector, un’entità soprannaturale che aiutava – o manipolava – il protagonista, si rivolge a te, al giocatore: profetizza che gli avvenimenti del videogioco si ripeteranno nel mondo reale, e quello che hai appena sperimentato è stato una sorta di addestramento.

Nelle visual novel lo schermo che separa il giocatore dal gioco è particolarmente sottile. In School Days, del 2005, quella “scala morale” tipica dei giochi di ruolo polarizzata tra bene e male, esplora invece un’ampia gamma di grigi. Il giocatore è anzi incoraggiato a intraprendere azioni ambigue, discutibili, ma in definitiva realistiche e umane, per svelare gli angoli nascosti del diagramma. Mystic Messenger è un dating simulator coreano, un prodotto apparentemente innocuo, pensato per i dispositivi mobili e per il pubblico femminile. Ma in realtà, mentre ci si destreggia maliziosamente tra email, app d’incontri immaginarie e chat room, il piano della finzione scricchiola: gli spasimanti e i personaggi di contorno lanciano sguardi al giocatore dietro il personaggio, e in momenti di consapevolezza che spaziano dall’inquietudine all’isteria prendono atto della loro esistenza virtuale, intrappolando il giocatore nella medesima messa in scena che costituisce la loro ragion d’essere.

Uno dei massimi compimenti di questo concetto si osserva nell’agghiacciante Doki Doki Literature Club, visual novel che si accoda allo stile giapponese, ma è in realtà prodotta in America e dotata di un originale taglio occidentale. Le premesse sono quelle dolci di un dating simulator, mentre scegliamo chi sedurre fra le quattro bellissime ragazze di un club di letteratura. Ma presto emergono elementi oscuri: la depressione, l’ossessione, gli abusi fisici e psicologici. Le ragazze, confessandoci i loro sentimenti tramite lettere, esprimono riflessioni di questo genere:

“C’è un piccolo diavolo dentro a ciascuno di noi. Dietro a questa percezione creata ad arte – a questa realtà artificiale – c’è un groviglio inestricabile di paura. Terrore. Giudizio. Elitismo. Autocommiserazione. Tutte che smaniano per sfuggire dalla debole presa dell’organismo che le ospita, che s’insinuano in qualsiasi fessura incontrino. Contagiano la volontà, privandolo di ogni motivazione e desiderio. Strisciano nello stomaco, obbligandoli ad affogare il senso di colpa nel cibo. O sgusciano dentro una ferita aperta di fresco sulla pelle, coperta solo dalla manica di una maglietta carina. Questa massa attorcigliata, spregevole, abita già dentro ciascuno di noi. È per questo che ho deciso di non incolpare me stessa, per le azioni che dipendevano da essa. L’unica cosa che ho fatto, è stata sciogliere il nodo”.

Messi di fronte al suicidio il gioco si riavvia e tira in ballo l’elemento metatestuale (intrusioni del codice del gioco sullo schermo, artefatti grafici, interferenze costruite ad arte) per convincerci della nostra stessa insanità mentale, fino a scoprirci vittime del gioco stesso. Per evadere della trappola, dovremo manipolare i file della cartella d’installazione. Viene in mente quello che succedeva in NieR: Automata, che per essere completato chiedeva, paradossalmente, di sacrificare il proprio file di salvataggio condividendolo con gli altri giocatori online.

Stanley attraversò la porta rossa

 

The Stanley Parable nasce nel 2011 come mod di Half-Life 2 ed evolve due anni dopo in un gioco autonomo, che a breve sarà riproposto in versione ampliata e rimasterizzata per Playstation 4. La sua analisi ci riporta alla premessa e a Bandersnatch. Come il film di Black Mirror, The Stanley Parable è un’avventura interattiva alla maniera dei librogame, basata su scelte binarie: persino i due diagrammi di flusso, se affiancati, appaiono simili per profondità e intreccio. Ed esattamente come Bandersnatch, The Stanley Parable è un’opera interattiva che riflette sull’interattività e sui suoi inganni: forse ci riesce meglio, perché il medium videogioco si rivela più adatto.

L’intera vicenda corre in bilico sulla quarta parete, mantenendosi in formidabile equilibrio. Impersoniamo Stanley, anonimo impiegato presso un’altrettanto anonima ditta, il cui unico compito è premere un tasto sul computer. Un giorno l’edificio in cui lavora diviene improvvisamente deserto, e cominciamo l’esplorazione. La voce del narratore, un bravissimo Kevan Brighting, ci accompagna raccontando in terza persona e al tempo passato, come fosse un romanzo, le nostre mosse successive: noi, tuttavia, possiamo scegliere di fare diversamente. “Stanley attraversò la porta rossa” dice il narratore, e noi possiamo obbedire o varcare quella blu. L’incrocio delle linee narrative genera conseguenze ironiche e surreali. Il narratore si trasforma in nemico e in alleato. Si spazientisce se non lo ascoltiamo, ci trascina in altre dimensioni e in luoghi dove l’edificio si disgrega in loop escheriani, ci lancia un’esca nascondendo vie d’uscita che sembrano condurre fuori dalla quarta parete per poi chiuderci nuovamente in trappola. Proprio quando crediamo di aver intuito la linearità del diagramma, e ci muoviamo sicuri per esplorare ogni finale, ecco che è l’edificio stesso a trasformarsi in labirinto.

Ridurre a parole un’esperienza di gioco così complessa e bizzarra, nonché dotata di un’ironia acutissima, è estremamente difficile. Altro segno della potenza del medium videogioco quando si tratta di esprimersi in tali situazioni di equilibrismo concettuale. Espen Aarseth, critico norvegese,  diventato figura cardine dei Game Studies, definisce letteratura ergodica tutte quelle esperienze narrative dove al fruitore è richiesto un impegno non-triviale per attraversare il testo, vale a dire maggiore dell’atto meccanico del girare le pagine – o, aggiungiamo noi, di premere tasti su un controller. Mettendo in relazione il concetto con ipertesti e cybertesti, Aarseth individua esempi che spaziano dalle iscrizioni murarie egizie e dall’I-Ching fino a espedienti metanarrativi come Fuoco Pallido di Vladimir Nabokov (una storia “mascherata” tra i versi e i commenti di un fittizio poeta e di un altrettanto fittizio studioso) o il labirinto multicursale che è Casa di Foglie, bestseller di Mark Z. Danielewski.

The Stanley Parable sembra realizzare a pieno l’idea di Aarseth in merito alla narrativa ergodica, creando una frattura insanabile tra storia, agente e narratore in cui il fruitore è chiamato a un’attività continua, proprio come un equilibrista che si mantiene dritto sul filo (in questo caso, sul perimetro della credibilità e della quarta parete) grazie a minuscoli spostamenti di peso.

The Stanley Parable mostra anche una delle sfaccettature più intriganti dei dispositivi metanarrativi, particolarmente attuali ora che esercizi come Bandersnatch accennano a possibili interferenze anche tra media differenti. La metatestualità, richiamandoci al dubbio e alla riflessione sull’opera di cui stiamo fruendo, non indebolisce il nostro rapporto con l’opera stessa: ci equipaggia con una dose di libertà, suggerisce la vicenda di Stanley, ma è piuttosto un’illusione della stessa. Al contrario, la metatestualità aumenta la profondità dell’esperienza, unica modalità espressiva capace di mettere in scena certe allegorie come quella su cui sono saldati i diagrammi di flusso di The Stanley Parable. Se la voce del narratore è quella nella nostra testa (o pensando ai neuroni, forse è la voce della nostra testa), possiamo illuderci di scegliere la direzione, ma finiremo sempre per essere un personaggio non giocante nel racconto di qualcun altro. Così come Stanley preme un tasto sul computer ogni giorno, tutti i giorni, senza sapere in che modo ciò porti vantaggio alla sua ditta.

Immaginare di camminare

 

Visual novel, giochi di ruolo e avventure grafiche condividono un tratto che a un primo sguardo sembra intimamente connesso alla dimensione narrativa, attraverso qualsiasi mezzo essa avvenga, ma dal quale in realtà – e il caso degli open world lo dimostra – ci stiamo in parte dissociando. È l’idea di finalità, il bisogno di chiudere un cerchio, l’individuare tra gli aspetti che definiscono una narrazione, e in particolar modo quella espressa da un’esperienza videoludica, la tendenza a una fine e a uno scopo. Come abbiamo visto in The Stanley Parable (e parzialmente anche in Bandersnatch), se la riflessione sul tema stesso della narrazione è sufficientemente profonda, la finalità si ripiega su se stessa in un dedalo di corridoi e stanze. Non è un caso che più i videogiochi si accostano al concetto di “simulazione della vita” più accettano la formula ricorsiva al posto di una linea retta.

Pensiamo a The Sims o Second Life, dove si mettono in scena intere vite alternative, talvolta più con pretese di divertimento che di realismo. O a giochi strategici come Age of Empires e Civilization dove gestiamo lo sviluppo di una civiltà nei secoli, e il senso di finalità è diluito dalle pratiche politiche e belliche quotidiane. Esistono soluzioni di gameplay emergente, cioè dove gli sviluppatori prevedono l’emergere di meccaniche complesse dall’interazione creativa dei giocatori con l’ambiente di gioco (per esempio, piazzare delle mine su una parete e usarle come scala prima che esplodano, fino ad approfittare dei glitch per ottenere vantaggi e scorciatoie).

In genere, il limite al realismo è costituito dall’intrattenimento e torna in auge una domanda che abbiamo già affrontato: quanta libertà siamo disposti a sopportare prima che diventi noiosa?

Spore, del 2008, rappresenta in piccolo un caso simile a No Man’s Sky. Accolto con entusiasmo, prometteva una grandiosa simulazione della vita, controllando un organismo dalla sua fase monocellulare fino all’espansione verso lo spazio, con una gamma di personalizzazioni pressoché infinita: il seguito di pubblico si ridusse man mano che ci si accorgeva che, in sostanza, Spore riciclava strutture da giochi strategici già esistenti, e di nuovo, di tutta quella libertà non sapevamo che farcene. Spostandoci sul terreno degli esperimenti, si affronta il problema con un piglio ancora più aggressivo. Façade, del 2005, è in parte videogioco, in parte opera d’arte e in parte esercizio scientifico. Si presenta come un gioco interattivo gestito da intelligenze artificiali. Siamo invitati a una festa e possiamo parlare, con piena libertà, agli altri astanti che ci risponderanno grazie a un linguaggio naturale generato proceduralmente; come dialogare con un robot, ma come s’intuirà, la componente ludica è pressoché nulla.

Storia, sfida, simulazione, gameplay nel senso di interazione del giocatore con l’esperienza. Questi gli elementi che caratterizzano un videogioco, e come se fossero i piatti di una bilancia, è difficile – e spesso poco redditizio – tenerli tutti in equilibrio. Si è visto come i giochi improntati sulla trama, come le visual novel o i JRPG, rinuncino quasi del tutto alla componente sfida e/o mettano a nudo l’aspetto interattivo in una serie di scelte binarie. I walking simulator (Gone Home, Dear Esther, Everybody’s gone to the rapture, Firewatch, What remains of Edith Finch, Journey) scelgono soluzioni ancora più radicali. Da prima meri esperimenti, poi realtà di successo indipendenti, propongono al giocatore di camminare nell’ambiente mentre la storia, spesso sotto forma di monologhi introspettivi, si dipana intorno a lui. Non c’è sfida, non c’è interazione: eppure, se trama e ambientazione sono penetranti, ci si sente pienamente coinvolti nella vicenda e il dispositivo dell’immedesimazione funziona a pieno regime. Come nelle avventure testuali dei primordi, e come negli esperimenti di Façade, la parola è in primo piano: di fronte al suo valore demiurgico, non abbiamo bisogno di libertà.

L’illusione della libertà

 

Nell’ultimo romanzo dell’autore di fantascienza Neal Stephenson, Fall (or, Dodge in Hell), il protagonista Dodge è un multimilionario della Silicon Valley. Dopo una precoce e sfortunata morte il suo cervello viene copiato da uno scanner e caricato online, in cloud, in attesa che qualche decade di sviluppo tecnologico permetta di riavviarlo all’interno di una simulazione convincente. Quando ciò avviene, Dodge diventa il primo uomo di un mondo virtuale, un’entità priva di memoria e corpo: un videogiocatore in un universo sandbox. Passa eoni a contemplare il nulla, poi comincia a creare se stesso e a dare forma al mondo. Pur senza conservare ricordi, sceglie per il suo corpo una forma umanoide, eccettuate le ali, e modella i territori con fiumi, coste, montagne e infine città e palazzi, come fosse la mappa di un Civilization. Quando altre coscienze caricate in cloud lo raggiungeranno, Dodge interpreterà Dio e insieme metteranno in scena, inconsapevoli, le leggende archetipiche della cultura umana: dalla rivolta dei Titani alla Torre di Babele, dal furto del fuoco alla cacciata dal Paradiso. Armati della libertà assoluta, ci suggerisce Stephenson, finiremo comunque per obbedire ai ciechi ordini del DNA – che ci donano un’identità ma al tempo stesso ci condannano a ripetere gli stessi trionfi e gli stessi errori anche in un mondo virtuale e potenzialmente infinito. Non si tratta di un’idea peregrina: numerose speculazioni sul futuro dell’umanità immaginano una migrazione di massa verso universi digitali, mentre il mondo fisico mantiene i suoi affari in maniera automatizzata. Viene da pensare all’idea di destino, alla sicurezza con cui può affrancare chi ha fede e allo sgomento che può incutere in chi lo teme.

Nella società contemporanea, concetti come quello che Mark Fisher – sulla scorta dello psicologo David Smail – chiamava volontarismo magico, veicolato ad esempio dal sogno americano, ci convincono che la nostra vita possieda una finalità, e che questa finalità sia avere successo. Per ottenerlo, gli strumenti e le prospettive sono illimitati, siamo anzi invitati a girare attorno alle regole del gioco e pensare fuori dalla scatola. Se cadiamo nell’insicurezza, e nella depressione come malattia sociale secondo Fisher, è perché non siamo cablati per questo. Non siamo programmati per comprendere che milioni di scelte ininfluenti, come i pianeti generati proceduralmente da No Man’s Sky, equivalgono a nessuna scelta. Nei videogiochi l’ambiente chiuso offre un comfort familiare, e accettiamo mondi privi di finalità perché l’elemento interattivo facilita la sospensione dell’incredulità. Nei MMORPG come World of Warcraft, giochi di ruolo cooperativi online, c’è una trama narrativa da espletare, c’è libertà d’esplorazione e talvolta anche estrema libertà d’azione, fino a uccidere gli avatar altrui (player killing) senza ricevere sanzioni.

Ma il succo dell’esperienza sta nella comunione d’intenti con altri giocatori: riuniti in gilde, si comunica via chat e ci si immedesima nel personaggio, portando a termine ricerche potenzialmente infinite, e agli appassionati poco importa che siano ripetitive. Fintanto che ci sarà qualcuno con cui condividerli, i contorni di quel mondo digitale non saranno differenti da quello reale, e non a caso le comunità dei MMORPG spesso si disgregano solo quando gli amari fatti della vita fisica – come l’età adulta – intervengono con questioni più pressanti. Come dice ancora Neal Stephenson, “noi siamo programmati per l’intersoggettività. La nostra percezione della realtà è tanto sociale quanto individuale”.

Il confine tra reale e virtuale, in definitiva, scricchiola quando persino l’interattività raggiunge quella fase postmoderna in cui riflette e dubita di se stessa. Il disgregarsi e il combinarsi di media diversi è un segnale in questo senso, così come lo sviluppo di supporti tecnologici sempre più pervasivi – dallo schermo di un televisore a quello di uno smartphone il passo è breve, e così da quest’ultimo a visori integrati e altri dispositivi biomeccanici.

Se ribaltando la prospettiva siamo noi ad assomigliare ai robot e non viceversa, possiamo ugualmente dire che è il mondo ad assomigliare a un videogioco. Un’altra barriera che si sbriciola e un’altra rivoluzione copernicana, come la fine del libero arbitrio, un cambiamento di paradigma che forse a posteriori verrà giudicato epocale, ma che al momento si maschera dietro una transizione poco evidente al grande pubblico. Nel modo in cui operiamo scelte credendoci liberi e nell’investimento emotivo in personaggi fittizi, il virtuale non è meno reale del reale.


Andrea Cassini, classe 1988, filologo medievale di formazione, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FIBA, L’Ultimo Uomo, Play.it USA e altre testate. Ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie “Prisma Vol. 1” (Moscabianca Edizioni) e “Forme d’Autore – Cinque racconti di arte contemporanea” (L’Eco del Nulla – Associazione Essere)

1 comment on “L’interattività e la fine del libero arbitrio

  1. Veramente interessante!

    Maria

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