L’invenzione di Hedy Lamarr



Bellissima attrice e brillante inventrice: il doppio volto di Hedy Lamarr ci pone davanti alla nostra difficoltà di immaginare dei ruoli femminili al di là degli stereotipi.


In copertina: una foto di hedy lamarr

Questo testo è estratto da Le tessitrici di Loreta Minutilli. Ringraziamo l’autrice ed effequ per la gentile concessione.


di Loreta Minutilli

Il 18 febbraio 1933 debutta nelle sale cinematografiche un film destinato a subire censure, stroncature e critiche, e in sostanza a sconvolgere il modo di fare e guardare cinema per i decenni successivi. La causa scatenante del dibattito potrebbe essere la regia visionaria dell’autore, e invece è il corpo di una donna, che in quel corpo sarà cristallizzata per tutta la sua carriera e attraverso quel corpo sarà raccontata per sempre. La donna in questione è Hedy Lamarr: sarà ricordata come una delle dive più seducenti di Hollywood, ma alcune narrazioni della sua vita ci tengono a sottolineare come sia stata ‘molto di più’ – un approccio che sembrerebbe sottintendere che l’essere un’attrice di fama mondiale non sia un fatto di cui vantarsi, anzi, quasi una circostanza sminuente. È vero però che Hedy Lamarr non è stata solo un’attrice, e qui cercheremo di raccontarla tutta per intero, senza dividerla in pezzi e senza classificarli.

Quando gira Estasi, Hedy Lamarr non è ancora Hedy Lamarr: il suo nome è Hedwig Kiesler, ha diciannove anni e vive a Vienna. I suoi genitori hanno origini ebree, sono benestanti e hanno le idee abbastanza chiare su quel che desiderano per il futuro della figlia: una tranquilla vita borghese, un buon matrimonio, un opportuno numero di figli. Hedwig, però, è ancora più determinata e sa che vuole qualcosa di diverso. Soprattutto, sa come ottenerlo: è una bambina bellissima ed è consapevole di essere lei e soltanto lei a possedere il proprio corpo, quindi non ha paura di usarlo. A dodici anni partecipa al suo primo concorso di bellezza, e per eludere la sorveglianza della madre Gertrude, approfitta del momento di lutto che segue la morte di sua nonna. Vince il primo premio: per la prima volta si rende che il suo corpo può portarla dovunque. Adesso deve solo capire dov’è che vuole andare. L’anno dopo, il 1927, debutta in sala uno dei capolavori della storia del cinema, Metropolis di Fritz Lang. È il primo film a cui Hedwig assiste e la sua decisione, a quel punto, è inevitabile: vuole arrivare lì, su uno schermo gigantesco, e troneggiare su chi la guarda nel buio di una sala troppo stretta per contenerla.

Filomela, al contrario di Hedy, sa perfettamente e fin da piccola che del suo corpo non è padrona e non spetta a lei decidere cosa farne. Suo padre è Pandione, re di Atene, e solo lui ha il potere di scegliere un marito adeguato per lei e per sua sorella Procne. La scelta è politica: c’è un giovane re barbaro, Tereo, che governa la Tracia. Con le sue truppe è accorso in aiuto di Pandione per difenderlo da una minaccia straniera, e ora il sovrano della più potente tra le città greche vorrebbe ricompensarlo. La sua merce sono due figlie: Pandione, per Tereo, sceglie Procne, la maggiore.

Ovidio, nel sesto libro delle Metamorfosi, ci mette subito in guardia sull’esito infelice di questa unione: “Le Eumenidi reggono fiaccole rubate a un funerale, e fanno il letto le Eumenidi1”, scrive Ovidio. E con le Eumenidi non c’è da scherzare: sono divinità colleriche e terribili, personificazioni della vendetta e della distruzione. Ma, all’inizio, tutto va bene.

Filomela continua a crescere e il suo corpo rimane intatto: suo padre non ha ancora deciso a chi concederlo. Procne diventa la regina di Tracia e partorisce un figlio, Iti. Va tutto bene, certo. C’è solo un problema: si sente sola, donna e straniera, in una reggia che non le appartiene, avverte sulle spalle il fardello della maternità da affrontare senza il conforto di una donna greca che possa comprenderla. E allora chiede di poter vedere la sorella: domanda a Tereo di condurla da lei, di permetterle di ricongiungersi a Filomela per un breve periodo: “Se tu me la fai rivedere, mi fai un enorme regalo”, dice.

Cosa si aspettava esattamente Hedwig dal mondo del cinema, qual è la vita che desiderava per sé? Inseguiva solo la ricchezza e la fama, o il desiderio di sentirsi parte di qualcosa di immenso e mutevole com’era l’industria dello spettacolo negli anni Trenta? E questi desideri, poi, si escludono a vicenda, sono in qualche modo diversi? Forse più di tutto la attraeva la possibilità di essere indipendente, di avere il potere decisionale sul suo futuro e sull’immagine che gli altri avrebbero avuto di lei. I genitori furono costretti ad assecondarla: davanti alle proibizioni e ai rifiuti, Hedwig sgattaiolava e agiva di nascosto, e allora meglio tenerla sotto la luce, dove era più facile da controllare.

Così, a quindici anni, comincia la sua carriera di attrice.

La prima parte significativa arriva nel film La signora dei fiori: Hedwig interpreta il ruolo di una segretaria, il suo tempo sullo schermo è breve e fugace, ma sufficiente perché un critico la noti – o meglio, noti i suoi occhi, “graziosi come un dipinto”. La carriera è cominciata. Cosa ci voleva, negli anni Trenta, per diventare una star del cinema? A credere a L’estasi e io, l’autobiografia di Hedwig che avrebbe creato scandalo e scalpore nel 1966, l’ingrediente fondamentale per sfondare è una bella faccia tosta: e Hedwig sostiene di averla avuta, di essersi imposta davanti ai giganti del cinema del suo tempo, di averli costretti a guardarla e ad ammettere che sì, esisteva anche lei.

Tereo va ad Atene per chiedere a Pandione il permesso di condurre Filomela alla sua reggia, per far compagnia a Procne. Fin qui tutto bene: i problemi cominciano quando compare lei, Filomela, “sfarzosa di abiti e gioie, ma più sfarzosa di sé”. È diventata una donna, impossibile che un uomo la guardi senza sentirsi preda inerme del desiderio: e infatti, appena la vede, Tereo s’infiamma e perde la ragione. Ma, Ovidio ci rassicura, non è colpa della ragazza: per quando seducente, non è una sua responsabilità aver provocato in suo cognato una passione indomabile.

Dobbiamo ricordare che Tereo è un re barbaro straniero, il suo popolo riunisce tutti gli attributi bestiali che riusciamo a immaginare, inclusa la lussuria irrefrenabile. Lo scrittore latino caratterizza con insistenza il desiderio del re trace: Tereo “la guarda e con gli occhi la tocca, la palpa”; quando non è più con lei, ripensa al suo corpo e immagina ciò che ancora non ha visto. È un desiderio eccessivo e brutale, per cui è impossibile provare empatia: fin dall’inizio Tereo è altro, non perché è uomo – Ovidio pare quasi volerci rassicurare che non tutti gli uomini sono così – ma perché è straniero. Così trepidiamo insieme a Filomela mentre, ignara e allegra, ottenuto il permesso di Pandione, parte insieme a suo cognato per raggiungere la sorella.

C’è un luccichio negli occhi della ragazza: è la sua prima volta lontana dalla reggia di suo padre, la prima avventura che vive in un posto sconosciuto. Raramente una fanciulla greca aveva la possibilità di allontanarsi dalla protezione paterna senza scivolare sotto quella di un marito. Una principessa nubile che fa un viaggio è una notizia davvero originale!

Durante la traversata in nave, Filomela è convinta che il mondo sia suo, e che questa sia l’occasione della sua vita per andare a prenderlo. Deve avere un’idea piuttosto vaga di quel che la aspetta – non ha mai visto nulla che non sia Atene, non ha mai guardato un posto da sola con i suoi occhi. Eppure possiamo immaginarla circondata da una nuvola di eccitazione; possiamo credere che l’orizzonte del mare che si stende tra lei e la destinazione le faccia scintillare gli occhi di gioia e di appena un pizzico di paura.

Hedwig – che ha già cominciato a farsi chiamare Hedy, ma di cognome fa ancora Kiesler – a diciassette anni ha una carriera ormai avviata: ha cominciato a lavorare a teatro con Max Reinhardt, il regista teatrale più in voga nella Vienna dell’epoca, passaggio obbligato per chi voleva davvero sfondare nel mondo dello spettacolo. La leggenda narra che sia stato proprio lui a definire Hedy Kiesler “la ragazza più bella del mondo”. E infatti, come la lussuria che pervade Tereo quando vede Filomela, l’ammirazione dei recensori per la giovane attrice fatica a contenersi in espressioni appropriate: si scrive di lei che è ‘così carina che te la saresti mangiata’. I commenti sulle sue abilità di attrice invece scarseggiano, ma a Hedy sta bene così: il suo corpo fresco e desiderabile le porta successo, lavoro e prestigio; lei si trasferisce a Berlino e continua a lavorare nel cinema con registi sempre più prestigiosi.

Nel 1931 attira l’attenzione di Gustav Machatý, il regista ceco che nel 1929 aveva firmato lo scandaloso film Erotikon, Seduzione. Hedy viene scelta come protagonista del suo nuovo progetto: è arrivato il momento di Ekstase. Il film è girato in Boemia in tre lingue: francese, tedesco e ceco; Hedy ha poche settimane per imparare il ceco. È il grande progetto di Machatý, il più ambizioso della sua carriera, e, per Hedy, il primo ruolo da protagonista. Interpreta il ruolo di Eva, una giovane moglie insoddisfatta del vecchio marito Emile, che non dimostra attrazione per lei e rifiuta di consumare le nozze. Un giorno, mentre fa il bagno in uno stagno, Eva incontra Adam, un ingegnere ferroviario al lavoro nei paraggi, e comincia con lui una storia d’amore clandestina che culmina finalmente in un momento di passione. Seguono drammi, suicidi, divorzi e decisioni esistenziali piene di sofferenza. La trama del film, insomma, non era esattamente il racconto di una gita di collegiali, e questo Hedy doveva saperlo bene quando ha accettato la parte. La parte più interessante e rivoluzionaria dello sguardo di Machatý in Ekstase è la totale assenza di giudizio nei confronti di Eva: la scoperta della sessualità della protagonista è un momento positivo di riscatto e consapevolezza di sé, e le sue scelte avvengono sempre in assoluta libertà, come se non esistesse una morale a cui dar conto. Era chiaro che il film fosse destinato a dare scandalo nella Germania degli anni Trenta.

Quello di cui Hedy ha più volte dichiarato di essere stata ignara, però, era la necessità di girare una scena di nudo integrale: il bagno nello stagno che precede l’incontro tra Eva e Adam. Il dibattito ha superato la fama del film, tra smentite da parte del regista e della troupe – secondo la loro versione l’attrice sarebbe stata perfettamente informata e consapevole dell’uso che sarebbe stato fatto della sua immagine – e le recriminazioni di Hedy, che affermerà di essere stata costretta a girare la scena e ingannata sul potere di ingrandimento dell’obiettivo.

In difesa della presunta incredulità di Hedy, bisogna dire che non era normale, per un’attrice dell’epoca, recitare scene di nudo: anzi, il corpo della giovane Kiesler è il primo ad apparire senza vestiti in un film non pornografico. Se anche Hedy avesse acconsentito spontaneamente a girare nuda, di sicuro non si aspettava di essere ripresa così da vicino: Machatý, sostiene l’attrice, le aveva assicurato che le inquadrature dell’iconica scena della sua corsa senza vestiti e del tuffo nello stagno sarebbero state fatte da lontano, in modo che il suo corpo restasse poco più che una sagoma e che nessuno della troupe potesse disturbarla con sguardi indiscreti. Alla prima di Ekstase, infatti, Hedy ci va con gli scettici genitori, ancora non del tutto rassegnati al destino d’attrice che ormai sembra avviato per la loro figlia. Quando vede sullo schermo il suo seno che affiora tanto nitidamente sull’acqua dello stagno, capisce che la sua vita è cambiata per sempre.

Ha ragione: Ekstase segna la storia del cinema e il destino di Hedy Kiesler. Il film arriva nelle sale austriache e ceche nel 1933 e suscita un clamore che non si fermerà nel tempo: censurato, bandito e rimaneggiato in vari paesi, scomposto e reincollato nel tentativo di renderlo socialmente accettabile, sarà definita dall’«Osservatore Romano» una pellicola pornografica, definizione che contribuirà a garantirgli fama imperitura.

Se riguardiamo Ekstase oggi, però – e la Cineteca di Bologna ci ha dato questa opportunità, regalandoci un restauro incredibile del film tramite il laboratorio L’Immagine Ritrovata – a turbarci non saranno di certo le forme di Hedy, vaghe e sfuggenti sullo schermo. Saremo stupiti piuttosto dal modo in cui, durante la prima esperienza sessuale tra Eva e Adam, la telecamera indugia sul viso di Hedy e ne rapisce le espressioni. Non ci sono inquadrature esplicite o scene di nudo, qui: la narrazione del sesso è affidata tutta alle espressioni facciali di Hedy, seguiamo il susseguirsi delle sue emozioni e siamo incollatә al suo punto di vista. La sua bocca si schiude, la sua mano accarezza il tappeto, le braccia le coprono il viso e noi ci accorgiamo che stiamo guardando il primo orgasmo su schermo della storia del cinema. Non è stata una scena facile da girare: chi sa se per pudore o perché non capiva cosa le veniva chiesto, Hedy non riusciva ad assumere l’espressione perfettamente estatica che il copione richiedeva. E allora, ci spiega lei stessa nell’autobiografia L’estasi e io, ci ha pensato Machatý, prendendo uno spillo e pungendola sulle cosce: finalmente il suo viso fa la cosa giusta.

Il primo orgasmo femminile della storia del cinema è, in realtà, una smorfia di dolore.

Quando la nave arriva in Tracia, Tereo può finalmente soddisfare il suo desiderio. Porta Filomela in un casolare desolato “nel fondo d’un bosco antico” – siamo in un incubo oscuro e Tereo è ufficialmente diventato l’orco delle fiabe – e la violenta. Non c’è nessun tentativo di seduzione, questo verbo non viene mai usato: come se la barbarie di Tereo lo ponesse automaticamente al di fuori di ogni possibilità di essere amato o, almeno, desiderato.

Filomela è una preda: “trema come l’agnella” scampata alle fauci di un lupo, come una colomba con le ali intrise di sangue. All’inizio c’è solo paura, poi soggiunge la vergogna.

Per terza arriva la rabbia.

Il primo insulto che Filomela rivolge a Tereo è, chiaramente, barbaro. Invoca suo padre, sua sorella, le leggi degli uomini e degli dèi. Si chiede perché il cognato non l’abbia uccisa prima di stuprarla – almeno, in quel caso la sua ombra sarebbe rimasta intatta. Ma ormai, se il suo onore è perduto per sempre, la ragazza è ben determinata a “gettarlo al vento” pur di non lasciare il suo aguzzino impunito.

Filomela vuole denunciare.

Denunciare cosa? Lo stupro, nella Grecia antica e mitologica, era una pratica estremamente comune: gli dèi erano stupratori, Zeus e le sue avventure teriomorfe sopra tutti; di conseguenza, gli uomini erano stupratori. Eppure, Filomela chiama testimoni della sua sciagura proprio gli dèi. Non perché vendichino in qualche modo la sua volontà sopraffatta, ma come giudici dei crimini contro la società commessi da Tereo: la bigamia, quel renderla rivale di sua sorella rendendo “tutte le cose confuse” e, ovviamente, l’oltraggio al suocero Pandione, vero proprietario del corpo di Filomela.

L’onore macchiato di Filomela ci ricorda la virtù di un’eroina romana, Lucrezia, che Ovidio conosceva bene: a lei dedica un passaggio del secondo libro dei Fasti, l’opera che ripercorre le tradizioni, i riti e le ricorrenze dell’uomo romano. Come Filomela, il corpo di Lucrezia appartiene a un uomo: suo marito, il nobile Collatino. E, come Filomela, Lucrezia viene stuprata da un uomo indesiderabile, il cattivo della storia: in questo caso, è Sesto Tarquinio, figlio dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo. La monarchia è ormai in declino e l’affronto subito da Lucrezia sarà tra i pretesti che porteranno all’istituzione della Repubblica11. Come Tereo, anche Sesto Tarquinio lascia indugiare la fantasia sul corpo di Lucrezia e alimenta così il suo desiderio. E, come Tereo, anche lui viene accolto dalla giovane senza diffidenza: è una persona fidata e ben nota. Anche Lucrezia, come Filomela, viene descritta da Ovidio come una preda. Tra le due, però, c’è una differenza importante: Lucrezia, dopo aver raccontato la violenza subita a suo padre e suo marito, si uccide schiacciata dal senso di colpa. Sta attenta, anche nell’ultimo istante, a non morire scomposta.

Filomela, invece, vuole vivere.

Terrorizzato dalla determinazione della ragazza, inerme davanti al corpo che ha tanto desiderato e che ora è vuoto di grazia e di vita, Tereo afferra la spada e le taglia la lingua che continua a “sfogare indignazione e disprezzo”. Ovidio usa dettagli morbosamente macabri per descrivere la scena: la lingua recisa di Filomela guizza come una cosa viva, si dibatte nel sangue cercando traccia della sua padrona. Non c’è niente di ordinato e onorevole in questa scena, come nel resto della storia di Filomela: solo una rabbia incontenibile che prende le forme più strane.

La punizione non è sufficiente: da quel momento, per un anno intero, Filomela è prigioniera nel casolare. Le guardie di Tereo le impediscono la fuga e lei è costretta lì, muta e reclusa, ad aspettare le visite del suo stupratore.

Dopo Ekstase, anche Hedy Kiesler diventa una prigioniera.

Il suo carceriere è Fritz Mandl, il ricco fabbricante d’armi che ha sposato nel 1933. In cerca di una moglie-trofeo che abbellisca il suo salotto durante le cene d’affari, Mandl si mette in contatto con Hedy al termine di una sua esibizione a teatro nei panni della Principessa Sissi. Il corteggiamento somiglia a un colloquio di lavoro. Ovviamente, la condizione di Mandl per il matrimonio è che Hedy lasci il cinema e il palcoscenico per sempre: lei accetta.

Ai giornalisti dichiara di essere così felice per il suo fidanzamento che la prospettiva di abbandonare la recitazione, il sogno della sua vita, non le sembra così terribile.

Mi sono chiesta il motivo di questa scelta così stridente con l’immagine di Hedy Kiesler che avevo lentamente costruito nella mia testa. Di certo i corteggiatori non le mancavano: aveva fatto scalpore, solo qualche tempo prima, la notizia di un suo ex fidanzato apparentemente suicidatosi dopo il rifiuto della sua proposta di matrimonio. E possiamo escludere che fosse l’amore a legarla a Mandl: Hedy era molto più furba di una ragazzina innamorata qualsiasi, e Mandl non aveva esattamente messo in campo le sue risorse per sedurla – anzi, si era impegnato per lo più a convincere i suoi genitori. Perché, allora, rinunciare a un sogno ormai così concreto?

La risposta che mi persuade di più è che ormai, a Hedy, la voglia di recitare fosse già passata da un po’. Forse, nonostante la sua sicurezza ostentata, non era stato facile gestire le pressioni che avevano seguito Ekstase – tra tutte, la delusione della sua famiglia. Il matrimonio con un uomo ricco e pronto a occuparsi di lei doveva esserle sembrato una comoda via di fuga, almeno all’inizio.

Ma il desiderio di Mandl di controllare la vita di sua moglie non si ferma al lavoro: Hedy deve vedere meno gente possibile, mantenersi discreta e poco appariscente, è preferibile che dipenda da lui per ogni esigenza. Una delle strategie che il marito usa per sottrarle autonomia è la privazione di denaro liquido – non le dà soldi, ma le concede la possibilità di comprare a credito nei negozi quanto vuole. Allora Hedy si scatena: tra pellicce, gioielli e vestiti, le sue spese fanno vacillare anche le finanze di uomo ricchissimo come il suo sposo. Il risultato è quello sperato: Mandl blocca il suo credito e le concede una somma di denaro che può spendere come preferisce, ma che dovrà bastarle.

Il compito più importante di Hedy, in quel periodo, è presenziare, e nel salotto di suo marito si trova alla presenza di personaggi di ogni tipo, da Sigmund Freud a Franz Werfel, passando per Benito Mussolini, uno tra i clienti più affezionati di Mandl. La situazione politica dell’Austria era legata a doppio filo a quella della Germania, ma Mandl è vicino a un politico autoritario dalle idee filonaziste diverso da Adolf Hitler: il Conte von Starhemberg, sostenitore del nazionalismo austriaco, da lui stesso finanziato e sostenuto. In tutti questi ritrovi sociali, Hedy fa quello che dovrebbe fare un animale da compagnia: ascolta e si mantiene graziosa. La vita da moglie trofeo, però, la stanca presto – e forse percepisce anche il pericolo della prossima salita al potere di Hitler, per lei che ha origini ebree. Tenta la fuga più volte, ci riesce nel 1937 mettendo in atto un piano elaborato: assume una cameriera che le assomiglia, la narcotizza, ruba i suoi vestiti e fugge alla stazione. Ha con sé solo una borsa di vestiti e i suoi gioielli. È stata prigioniera per quattro anni.

Filomela ha meno risorse di Hedy e per lei scappare è più complicato: oltre che rinchiusa, è anche muta, e a lei non interessa fuggire per il gusto di essere libera: vuole scappare per svelare il crimine di cui è stata vittima. Ma come fare? Per fortuna, ci ricorda Ovidio, “grande è l’astuzia del dolore, e l’estrema disgrazia è di per sé una risorsa”. Nel momento di massima disperazione, Filomela si ricorda di quella che è probabilmente l’unica cosa utile che nella sua infanzia privilegiata di principessa le è stata insegnata: l’arte della tessitura. Tesserà la vergogna che ha subito su una tela e la farà recapitare a sua sorella Procne, che la aiuterà a ottenere giustizia. Il piano è ingegnoso, ma c’è un problema pratico: Filomela non ha un telaio. E qui compare il primo buco di trama nella storia che ci racconta Ovidio: la giovane prigioniera fa qualcosa che, è lecito supporre, nessuno le ha insegnato nel corso della sua regale istruzione. Se ne costruisce uno.

Il nostro narratore sorvola abilmente sullo svolgimento della faccenda, ci dice solo che Filomela usa un accorgimento. È il tipo di dettaglio su cui non sono capace di soprassedere: e allora eccomi a cercare il materiale necessario per costruire un telaio, a immaginarmi Filomela chiusa nella sua stanza che soppesa gli oggetti intorno a lei per valutarne l’utilità, assembla e disfa, crede di avercela fatta ma la struttura non regge, le crolla tra le mani, e allora bisogna ricominciare tutto da capo. E poi, dopo, dov’è che ha preso il filo per la trama? Cosa ha scucito, cosa ha sacrificato?

Le sue lenzuola, i suoi vestiti?

Faccio una rapida ricerca su Google: Come costruire un telaio rudimentale. Finisco prima su una bacheca Pinterest molto colorata, poi su una serie di video per maestre di scuola primaria sull’insegnamento laboratoriale della storia. Mi fermo a fare il punto della situazione.

Cose che Filomela ha dovuto procurarsi:

Bastoni di legno opportunamente bucherellati per attaccarci l’ordito. Ha distrutto il proprio letto? Ha divelto una finestra? Ha raccolto dei rami durante una pietosa ora d’aria?

Fili per l’ordito. Grossi e resistenti: disfa una grossa coperta? Si strappa ciocche di lunghi capelli?

Pettine. Possiamo immaginare che Tereo le abbia concesso almeno questa frivolezza.

Spola. Ha usato un frammento di legno rimasto, o il piede del suo letto? O forse ne ha fatto a meno, non ha ravvolto ordinatamente il filo della trama, ha lasciato che restasse tutto aggrovigliato ai suoi piedi in un caos disperato?

Una che di costruzione di telai se ne intendeva era Maria Lai. Nata nel 1913 a Ulassai, in Sardegna, cominciò a fare del telaio una forma d’arte negli anni Sessanta. Come Filomela, costruisce telai per comunicare, e, come Filomela, li costruisce con materiali poveri e fortunosi: ferro, legno, cordame. Filomela, certo, è una ragazza mutilata e prigioniera, mentre invece Maria Lai è un’artista, ma entrambe individuano nella tessitura un modo per sfuggire all’oppressione.

Ne Il dio distratto, il racconto che Giuseppe Dessì scrisse nel 1990 ispirato dal lavoro di Lai, le donne sarde apprendono l’arte della tessitura dalle janas, le fate mitiche in origine api, che le convincono a sfuggire alla schiavitù cui erano sottoposte dagli uomini e lasciare a loro tutti i lavori più faticosi. Rigore e pazienza sono le virtù che le donne portano in questa nuova arte: e rigore e pazienza, secondo Dessì, sono gli elementi alla base della creatività.

Di rigore e di pazienza Filomela è provvista in abbondanza: cova vendetta e tesse la sua tela per un anno intero. In questo tempo non le è concesso di essere creativa e basta; lei tesse per essere libera, e la sua libertà sta nella capacità della trama di generare una narrazione. Il racconto non esiste per sé stesso, ma per servire uno scopo, per salvare la vita di chi lo intesse.

Sulla tela bianca, Filomela ricama a caratteri di fuoco l’accusa di stupro.

Dov’è finita Hedy, nel frattempo?

Prima di tutto, in un altro continente: si è trasferita negli Stati Uniti e ora lavora a Hollywood sotto l’ala protettiva di Louis B. Mayer, fondatore della più influente industria cinematografica dell’epoca, e forse di sempre. Anche lui non usa troppa delicatezza nel prendere decisioni sulla vita della nostra attrice: le cambia il cognome, uno così tedesco non va bene, in questi tempi burrascosi. Da ora in poi è Hedy Lamarr, che ha un suono dolce e seducente come una star del cinema dovrebbe essere. Poi le rende chiaro che lo scivolone di Ekstase non deve ripetersi: le donne di Hollywood devono essere attraenti, ma rassicuranti, una scappatoia dalla famiglia tradizionale che non sconfini nella sovversione dell’ordine costituito. Hedy ha in testa ancora due cose sole: avere successo ed essere libera. Così obbedisce, impara un inglese perfetto, si lascia plasmare per diventare un’icona di stile e femminilità.

Noi scivoliamo a lato della sua carriera – dei suoi film e dei suoi mariti si è già parlato abbondantemente – e ci fermiamo su un punto oscuro e problematico, cercando di riempire i buchi di trama: il momento in cui Hedy Lamarr ha un’idea, e quell’idea diventa qualcosa da costruire, e poi quel qualcosa diventa un’invenzione che si inserirà nel corso della Storia.

Ho anticipato che ci sono nei buchi di trama – nella vita vera sono più frequenti che nelle storie inventate – e infatti il racconto di questa storia è oscuro e scivoloso, a cominciare dall’inizio. Quand’è che l’idea comincia a frullare nella testa di Hedy? La porta con sé dall’Austria, forse origliata in un salotto in cui nessuno si curava di quel che avrebbe potuto ascoltare, o è tutta sua, e arriva all’improvviso, tra un ciak e una conferenza stampa?

Da qualche parte bisogna cominciare, e allora iniziamo nell’estate 1940: la Seconda guerra mondiale è nel pieno del suo svolgimento, Hedy ha già girato Un’americana alla casbah, è all’apice del successo e vuole rifarsi il seno. Fissa un appuntamento con un endocrinologo piuttosto in voga – non una banale visita in studio, ma una cena di gala. Lui, ovviamente, rimane abbagliato dalla bellezza di Hedy e dalla forma già perfetta dei suoi seni, ma le consiglia comunque una crema che avrebbe dovuto accrescerne le dimensioni. Hedy è interessata, gli scrive il suo numero con il rossetto sul cofano della macchina. O almeno, questo è quello che dice lui.

‘Lui’ si chiama George Antheil e non è solo un endocrinologo: si è autoproclamato ‘bad boy of music’ ed è un compositore che dagli anni Venti semina orrore e disgusto nella borghesia di tutto il mondo. Le sue opere avanguardiste sono state definite delle “cacofoniche celebrazioni alla meccanica”. Il capolavoro che gli ha garantito fama mondiale è la colonna sonora del Ballet mécanique, il film di Fernand Léger che nel 1924 ha portato scompiglio nei salotti di Parigi ed è poi passato alla storia come il più significativo esempio di cinema cubista. Gli effetti sonori dell’opera furono realizzati mettendo in campo un vero arsenale di strumenti – pianole automatiche, xilofoni, campanelli elettrici, trombe di automobili e persino il suono registrato di motori di aeroplano. Quando incontra Hedy, però, Antheil si è lasciato alle spalle la fase più provocatoria della sua carriera e vive tranquillo a Hollywood, dove compone colonne sonore per il cinema, scrive occasionalmente libri gialli e dispensa consigli di endocrinologia alle signore. Non solo: si interessa di politica e dei meccanismi della guerra; qualche anno prima ha scritto un libro che ne preannunciava l’imminente scoppio.

È questo interesse per la politica il vero motivo che ha spinto Lamarr a mettersi in contatto con lui? O l’idea le è venuta dopo, mentre discutevano delle forme del suo corpo?

Antheil trova casa di Hedy piena di disegni, schizzi e appunti: scopre che l’attrice più bella di Hollywood passa la maggior parte del suo tempo libero a lavorare sui suoi bozzetti e alle sue invenzioni. Capisce che si trova lì per un motivo diverso che giocare a fare il medico. E infatti Hedy comincia a spiegargli quanto si sente a disagio nel rimanere a Hollywood, fra cene di gala e eventi lussuosi, mentre a Washington, al Consiglio Nazionale degli Inventori che è appena stato istituito, potrebbero avere bisogno delle informazioni sulle munizioni tedesche che lei ha appreso tanto bene in casa di Mandl. Antheil le suggerisce che invece potrebbe essere più utile rimanendo a Hollywood, come fonte d’ispirazione per il popolo americano e testimonial della raccolta fondi per l’esercito, e allora Hedy esce allo scoperto: la verità è che ha un’idea, pensa che sia buona e le serve aiuto per realizzarla.

Il controllo radio da remoto dei sommergibili e delle armi in generale era un problema aperto fin dalla Prima guerra mondiale: come evitare che i mezzi bellici fossero intercettati dal nemico attraverso la frequenza della comunicazione?

Una strada per rendere questa comunicazione sicura e affidabile esiste: è la tecnica del salto di frequenza, il cambiamento continuo della frequenza di comunicazione, ma non è ancora stata progettata la tecnologia necessaria per usare questa strategia su grande scala. Hedy è informata sui dettagli del dibattito: tra le sue amicizie spicca Howard Hughes, un aviatore appassionato di tecnologia, e insieme discutono spesso delle più recenti invenzioni e di quel che ancora c’è da fare per renderle efficienti. Sa che l’elemento mancante per rendere affidabile il salto di frequenza è trovare una chiave cifrata che permetta di preservare perfettamente l’informazione: le frequenze di comunicazione devono cambiare seguendo un meccanismo che dall’esterno appaia casuale ma che è in realtà governato da un algoritmo deterministico.

In questo modo, il nemico che riesce a intercettare una singola frequenza riceve solo una parte irrilevante del messaggio e non ha modo di sapere qual è la frequenza su cui sarà trasmesso il resto.

Quando sceglie di rivolgersi ad Antheil, Hedy sa che il suo famoso Ballet mécanique comprendeva una parte di self-playing piano, un meccanismo automatizzato che permetteva al pianoforte di suonare da solo utilizzando una sequenza di tasti stabilita dall’utente. Il principio di funzionamento è lo stesso che regolava il telaio Jacquard e la Macchina Analitica di Ada Lovelace: l’utilizzo di schede perforate. In questo caso, in particolare, il sistema era stato adattato in lunghi rulli di carta in cui i fori erano collocati secondo uno schema funzionale alla musica da riprodurre.

Hedy e George cominciano a lavorare insieme: vogliono applicare il principio di funzionamento del self-playing piano al loro sistema di comunicazione, creando un algoritmo di salto in frequenza regolato dalle perforazioni nel rullo. Le frequenze utilizzate nel sistema sono ottantotto, proprio come i tasti di un pianoforte. L’informazione viene quindi criptata sotto forma di audio in diverse tonalità, a loro volta trasmessi e ricevuti usando frequenze in apparenza casuali.

I due inventori lavorano a lungo sulla sincronizzazione temporale dei segnali: se il ricevitore non è in grado di intercettare la frequenza nell’istante in cui vi viene trasmesso il messaggio, l’informazione viene persa. Per risolvere questo e altri problemi tecnici di implementazione, Lamarr e Antheil coinvolgono Samuel Makeown, ingegnere al California Institute of Technology.

Alla fine del 1940 comunicano la loro idea al Consiglio Nazionale degli Inventori, che li incoraggia a proseguire il lavoro. Nel 1941 trapelano sul «New York Times» le prime notizie su un’invenzione messa a punto dalla star del cinema Hedy Lamarr, “così vitale per la difesa nazionale che gli alti funzionari del governo non permetteranno che venga pubblicata nei dettagli”.

Infine, l’11 agosto 1942, a George Antheil e Hedwig Kiesler Markey (nel frattempo, infatti, Hedy non aveva perso l’abitudine di sposarsi e divorziare di tanto in tanto) viene concesso il brevetto numero 2.292.387 per l’invenzione del Secret Communication System.

Perché Hedy Lamarr, che di certo non aveva bisogno di soldi né di notorietà, si è gettata a capofitto in questo progetto immaginifico, sacrificando ore di sonno e tempo libero per quasi due anni di duro lavoro? La stampa e i biografi hanno prodotto una moltitudine di ipotesi: lo ha fatto perché voleva vendicarsi del suo ex marito, umiliandolo. O perché odiava i tedeschi per averla costretta a recitare nuda in Ekstase. E ancora, perché amava l’America, sua patria d’adozione che le aveva dato la possibilità di rifarsi una carriera dopo lo scandalo e la fuga.

Sembra molto difficile accettare che un’attrice di Hollywood possa semplicemente divertirsi e appassionarsi a un lavoro tecnologico. E che pensi di avere la capacità per portarlo a termine, e desideri il riconoscimento che ne consegue.

Il riconoscimento della comunità scientifica, in realtà, tarda ad arrivare: passeranno molti anni prima che l’invenzione di Lamarr e Antheil venga effettivamente impiegata in ambito bellico. Certo, il fatto che il brevetto fosse firmato da un’attrice e da un musicista non ne ha favorito l’autorevolezza. La Marina affermò che l’invenzione era inutilizzabile perché troppo ingombrante da inserire in un siluro. Questa obiezione fece infuriare Antheil: il meccanismo, infatti, era stato progettato appositamente in modo da poter essere realizzato in piccola scala, addirittura in modo da adattarsi a un orologio da polso. L’inventore si pente di aver inserito nel brevetto un’analogia musicale, nel tentativo di rendere più chiaro il funzionamento del sistema: “i venerandi e pluridecorati signori di Washington che hanno esaminato la nostra invenzione hanno smesso di leggere quando sono arrivati al termine ‘pianola meccanica’. Mi sembra di sentirli esclamare: Mio dio, non possiamo mettere una pianola in un siluro!” commenta amaramente Antheil.

L’appoggio e l’iniziale entusiasmo del Consiglio Nazionale degli Inventori sono rivolti al ruolo mediatico dell’invenzione più che al suo effettivo impiego: l’attrice più in vista di Hollywood è anche un’inventrice che lavora per la difesa nazionale, proprio una bella storia da raccontare.

Filomela è ancora seduta davanti al suo telaio rudimentale, la matassa di filo aggrovigliata dietro di lei. Quando incontra un nodo prova a tirare il filo più forte, non ha voglia di interrompere il lavoro: deve fare in fretta. Poi però ha paura che il filo si spezzi, a quel punto sarebbe un bel fastidio, e allora si ferma, si mette la matassa in grembo, sbroglia con pazienza e poi ricomincia.

Non credo che provi piacere mentre tesse; è tutta proiettata verso l’obiettivo finale, la tela non è che un mezzo di comunicazione. Eppure, non fa altro tutto il giorno: devono esserci almeno dei momenti in cui smette di pensare al suo corpo mutilato e la precisione che del disegno che comincia a formarsi le suscita una specie d’orgoglio, o la sensazione di significare qualcosa.

Così passa tutto l’anno.

Dopo il brevetto del Secret Communication System, Hedy Lamarr e George Antheil provano a lavorare insieme su nuove invenzioni, che però sembrano interessare ancora meno il Consiglio Nazionale degli Inventori. Hedy intanto sospetta che Antheil si prenda con gli scienziati tutto il merito delle loro idee in comune, e che guadagni segretamente tramite la loro invenzione. Tra i due cominciano le tensioni e i litigi: la carriera da inventrice di Hedy è già finita.

Continua a girare film e a cambiare mariti, diventa madre. Non so se ha il tempo di tenersi informata sui progressi nell’utilizzo dei sistemi di comunicazione segreta da parte della Marina americana: ci sono altri progetti che assorbono tutte le sue energie; per esempio, la Mars Productions Inc., la casa di produzione che ha appena fondato. I suoi film non smettono di suscitare indignazione: nel 1947 Disonorata, secondo film della Mars Production, viene disapprovato dalla PCA in quanto “racconto grossolano di sesso illecito, con insufficiente compensazione di valori morali”. Un paio di anni dopo, Hedy è la star del colossal Sansone e Dalila, che costringerà il regista a difendersi dall’accusa di blasfemia davanti alla Corte di Chicago.

Tuttavia è lecito immaginare che, tra un impegno e l’altro, nel luglio 1948 si sia fatta recapitare in camera una copia del «Bell System Technical Journal» e abbia cercato quell’articolo di cui stavano parlando proprio tutti i suoi amici ingegneri, A Mathematical theory of communication, firmato da Claude Shannon. Forse lo ha letto mentre faceva il bagno, con una maschera in posa sul viso, o forse mentre litigava distrattamente per telefono con qualche regista pedante. E avrà capito, mentre leggeva, che in quel momento cominciava a cambiare tutto: la trasmissione delle informazioni era diventata una scienza vera.

La tela di Filomela non è destinata a una fine gloriosa, di riscatto positivo: Ovidio sceglie per lei un finale di lugubre vendetta.

Dopo un anno di lavoro, il racconto intessuto da Filomela finisce tra le mani di Procne, che davanti all’enormità dell’accusa ammutolisce come se fosse stata tagliata la lingua anche a lei. Poi pianifica il salvataggio di Filomela: approfitta delle celebrazioni in onore di Bacco, in cui il controllo è allentato persino sulle donne. Irrompe nel casolare dove è reclusa sua sorella e la porta con sé a palazzo. Filomela piange: ora che della vendetta sembra pronto a occuparsi qualcun altro, è tornata la vergogna bruciante e il senso di colpa nei confronti di sua sorella. Ma Procne la rassicura, non dubita che Filomela sia stata vittima di violenza, è solo in cerca di uno strumento, un qualsiasi mezzo che possa infliggere a Tereo il male più grande possibile. È pronta a qualsiasi delitto.

E infatti, tra tutti i delitti, sceglie il peggiore: trascina in un bosco il figlioletto Iti, che somiglia così tanto al padre Tereo e, con l’aiuto di Filomela, lo uccide.

La scena che segue è gratuitamente brutale: Procne e Filomela fanno a pezzi il corpo di Iti e lo cucinano per Tereo. Quando, alla fine del pasto, il re di Tracia chiede che gli venga condotto il figlioletto, ecco sbucare Filomela con la testa di Iti in mano, pronta a scagliarla di fronte al padre. Tereo si dispera, insegue le due donne con la spada sguainata e Ovidio, deus ex machina, trasforma tutti e tre in uccelli.

Dopo aver trepidato con Filomela mentre raccoglie oggetti di fortuna per costruire il suo telaio e raccontare la sua storia, questo finale ci coglie sgradevolmente di sorpresa: come facciamo, adesso, a essere ancora dalla sua parte? Nel finale del mito di Ovidio le due donne vengono descritte come furie inumane: sporche di sangue e di terra, scarmigliate, urlanti e prive di alcuna pietà. È impossibile giustificare in alcun modo le loro azioni. Nel tentativo di trovare una soluzione più conciliante, provo a guardare più indietro di Ovidio: da dove ha tirato fuori questa storia, come l’ha modificata per adattarla alle sue Metamorfosi?

Le fonti più antiche non sono più clementi: anzi, l’unico elemento della storia che resta immutato di versione in versione è proprio l’infanticidio brutale di Iti, la freddezza delle donne, la loro violenza incontrollata e cieca.

Il primo a introdurre nella storia la spirale di violenza che inizia con lo stupro di Filomela è stato Sofocle, in una tragedia perduta che già dal titolo mette in chiaro chi è il personaggio su cui vuole concentrarsi: Tereo. I frammenti dell’opera che sono pervenuti fino a noi trasmettono, attraverso il coro, una condanna netta verso le due donne che, servendosi di “un rimedio peggiore della malattia”, hanno messo in atto una vendetta eccessiva rispetto alla violenza che l’ha generata. L’empatia quindi si sposta brutalmente da Filomela a Tereo: il meticoloso lavoro di comunicazione operato con la tela passa in secondo piano rispetto al feroce istinto omicida che si impossessa di lei al momento della vendetta. Non sembra che a Filomela sia data la facoltà di pensare e riflettere; le uniche cose di cui sembra capace sono il duro lavoro e l’assecondamento degli istinti.

La vita di Hedy Lamarr ha una conclusione meno violenta, ma altrettanto priva di gloria.

Negli anni Cinquanta la sua carriera di attrice è ormai in declino e decide di abbandonare le scene – una scelta che sembra ancora, sottilmente, suggerire il sospetto che mi tormenta mentre mi addentro nella sua storia: forse, tutto sommato, di recitare non le è mai importato più di tanto. Si dedica ad altre cose, a progetti imprenditoriali sempre fallimentari.

Nel 1966 torna sulle prime pagine dei giornali grazie alla già menzionata autobiografia scandalistica L’estasi e io. Nel libro, la narrazione della vita di Hedy insiste sui dettagli più scabrosi e sulla sessualità e dopo la pubblicazione l’attrice prende le distanze dal testo, accusa i due scrittori che hanno curato l’opera di aver inventato molti aneddoti, esagerando tutti gli aspetti più morbosi ed esasperando i suoi racconti.

Come facciamo a crederle? Di Hedy abbiamo capito che ama i riflettori, qualunque sia il motivo per cui sono puntati su di lei; ama il suo ingegno e ama sé stessa. È difficile rassegnarsi alla versione di lei come un’instabile diva in declino manipolata dallo sciacallaggio dei giornalisti. È più coerente immaginarla mentre manipola, intesse e disfa la trama della sua vita, la inventa e la infiocchetta in modo da guadagnarsi di nuovo un posto al centro della pubblica attenzione.

Le sue successive comparse sulla stampa nazionale saranno ancora meno lusinghiere: viene arrestata due volte per taccheggio, una nel 1966 e una nel 1991. I decenni fino al 2000 trascorrono tra interventi di chirurgia plastica e svariate querele qua e là, fino alla morte, che la coglie con una maschera per gli occhi in posa davanti alla televisione.

Il Secret Communication System di Hedy e George era stato segretamente rispolverato dalla Marina americana durante la Guerra Fredda: negli anni Cinquanta il sistema fu usato per coordinare la comunicazione tra gli aerei americani e i sonobuoys, congegni bellici sganciati con lo scopo di individuare i sottomarini nemici. Il brevetto non era ancora scaduto, ma Lamarr e Antheil non ebbero nessun riconoscimento, né economico né morale, per il suo utilizzo. Negli anni successivi l’uso di sistemi di comunicazione a variazione di frequenza divenne sempre più frequente: nel 1962, circa tre anni dopo la scadenza del brevetto, il sistema fu installato sulle navi mandate a effettuare il blocco a Cuba.

Nel 1985 il brevetto Kiesler-Antheil perde la qualifica di segreto militare. È un momento storico cruciale per i sistemi di comunicazione: sta nascendo l’industria della telefonia mobile e c’è un gran bisogno di metodi di trasmissione delle informazioni che siano in grado di mantenere la privacy degli utenti. Il sistema basato sul frequency hopping di Hedy e George torna utile per la messa a punto del Global System for Mobile, il protocollo che ancora oggi garantisce la segretezza delle informazioni trasmesse via telefono. E, ancora, proprio sul salto di frequenza si basa l’invenzione senza cui proprio non potremmo più vivere: il Wi-Fi.

Il nome di Hedy Lamarr torna sui giornali e si parla di lei come un talento ingegneristico, un’inventrice da ricordare, un esempio di donna straordinaria da celebrare oltre la bellezza. Ottiene diversi riconoscimenti tardivi per la sua invenzione e nel 1998 le viene assegnata la Medaglia Kaplan, la più alta onorificenza austriaca per un inventore. Non andrà mai a ritirarla: sebbene tornare in Austria sia il più grande desiderio dell’ormai anziana Hedy, non è in grado di affrontare un viaggio.

Sono due eroine, Hedy e Filomela?

Per Filomela ogni narrazione celebrativa e gloriosa sembrerebbe da escludere: la sua storia la fa oscillare freneticamente tra il ruolo di vittima e quello di carnefice, con poco spazio nel mezzo per essere semplicemente una persona. In quello stretto pertugio di affermazione personale, è una tessitrice.

L’espressione ‘la voce della spola’ riferita alla vicenda di Filomela compare per la prima volta nei frammenti del Tereo di Sofocle. Il tragediografo la usa per indicare la tela, cioè il mezzo tramite cui Filomela sceglie di comunicare, ma anche il gesto stesso di tessere, l’azione che rende la donna, per un pezzo del mito, una protagonista parlante. La tessitura è l’unica azione effettivamente compiuta da Filomela, l’unica scelta che la rende attrice e regista del suo destino.

Le riscritture del mito che fioccano nel corso dei secoli successivi, da Chaucer a Shakespeare, propendono per una versione moralizzante del personaggio, ma è nel Novecento che Filomela acquista una sua identità precisa e, insieme alla sua ‘voce della spola’, viene rivendicata dai femminismi.

Il primo manifesto che mette Filomela al centro di un dibattito femminista è The voice of the shuttle is ours, (‘La voce della spola è nostra’), un saggio del 1984 di Patricia K. Joplin. Quella di analizzare proprio il mito della figlia di Pandione non è una scelta spontanea della filosofa: l’analisi che Joplin costruisce attorno al mito di Filomela parte dalla polemica verso un altro contributo accademico, un saggio di Geoffrey Hartman intitolato The voice of the shuttle: Language from the Point of View of literature.Nella sua opera, Hartman prende in prestito la metafora di Sofocle per portarla in un contesto diverso: una riflessione sul potenziale di alcune immagini poetiche che, pur rimanendo legate al loro contesto, hanno ancora il potere di essere universali.

Joplin critica aspramente l’universalizzazione operata da Hartman, l’appiattimento in quel tutti di ogni connotazione di genere contenuta nella tessitura di Filomela. Hartman, scrive l’autrice, “celebra la letteratura e l’abilità del poeta maschio, non l’elevazione che la donna fa della sua abilità sicura, femminile, domestica – il tessere – a un’arte e a un nuovo modo di resistere”.

Anche Joplin individua una stonatura nel finale del mito: la vendetta è un espediente narrativo che silenzia Filomela in modo ancora più definitivo della mutilazione fisica. E questo accanimento nei suoi confronti è necessario e indispensabile perché la storia abbia valore morale: il fine ultimo del racconto non è punire le azioni dell’aggressore Tereo, ma mostrare le conseguenze disastrose della sovversione di Filomela, il disastro che deriva dal suo fermo proposito di ribaltare l’ordine patriarcale e raccontare lo stupro. L’ordine viene mantenuto fino alla fine: nonostante l’intervento divino, Tereo, sotto forma di uccello, non smetterà mai di inseguire le due sorelle, e loro non smetteranno mai di fuggire. I ruoli sono fissati e immutabili, per sempre. Scrive Joplin:

È il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole… ma è lo stesso mito a testimoniare contro sé stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema.

Riappropriarsi della voce della spola significa quindi, per l’autrice, rimettere al centro la Filomela tessitrice e artista, disfare la trama patriarcale del mito e prendere quel che di vivo e pulsante ne rimane per raccontare una storia nuova.

Per Hedy, le cose sembrano ancora più complicate.

Sebbene amasse essere celebrata e apprezzata, non ha mai provato a essere celebrata e apprezzata per il suo lavoro di inventrice: in L’estasi e io il brevetto e il lavoro con Antheil non vengono neanche citati di striscio. Le narrazioni più pop della sua vita sono state di rado in grado di trasmetterne gli aspetti più problematici e contraddittori: una rapida ricerca Google su Hedy Lamarr ci restituisce una sfilza di articoli dai titoli altisonanti in cui si celebra, in un modo o nell’altro, ‘la diva di Hollywood che inventò il Wi-Fi’.

La bellezza mozzafiato sembra un ingrediente che, necessariamente, dev’essere incluso nel cocktail: Hedy è diventata un’inventrice nonostante il suo aspetto fisico le suggerisse tutta un’altra carriera, è riuscita a fare qualcosa che esistesse al di là del suo corpo. Lo stereotipo che si delinea leggendo un titolo del genere è quello della studiosa bellissima che è riuscita a portare avanti due carriere in parallelo, magari con una laurea brillante alle spalle. La donna affascinante che resta però consapevole dell’importanza dell’istruzione e della cultura.

E invece sappiamo che per Hedy non è andata esattamente così: la sua istruzione è stata irregolare, le sue competenze tecniche sono state quasi sicuramente acquisite in autonomia, parlando con uomini che le hanno insegnato e spiegato ciò che sapevano. Non ha fatto del lavoro di inventrice una parte centrale della sua vita, piuttosto – per quel che ne sappiamo – lo ha relegato a una breve parentesi da tempi di guerra, che non ha poi rivendicato né riutilizzato. L’importanza del suo brevetto viene associata a un’invenzione con la cui importanza è facile entrare in contatto, e c’è bisogno quindi di invocare il WiFi per darle autorevolezza, anche se questo strumento ha smesso ormai da anni di basarsi sul sistema a salto di frequenza che è assimilabile al brevetto Kiesler-Antheil.

Hedy e George non erano stati i primi né gli unici, tra le altre cose, a brevettare un sistema di comunicazione segreto basato sul salto in frequenza: il loro meccanismo è stato fortunato e ingegnoso, ma non rivoluzionario come uno storytelling scarno e fuorviante potrebbe far credere. Cosa rimane, allora? Ha senso continuare a celebrare una diva di Hollywood dalla vita immaginifica e seduttiva, vittima ed eroina di mille avventure, che a un certo punto si è ritrovata sul cammino che avrebbe portato alla rivoluzione dei nostri sistemi di telecomunicazione?

Io penso che una narrazione equa e significativa di Hedy Lamarr possa partire proprio dagli elementi che la rendono controversa: raccontiamo la complessità del suo percorso senza appiattirla in facili estremi, esaltiamo i suoi aspetti meno convenzionali e più contraddittori per costruire l’idea di una scienza che può appartenere a tuttә.

Forse è vero che il brevetto di Lamarr e Antheil non è stato l’unico e probabilmente neanche il più efficiente a proporre un sistema di comunicazione segreto basato sul salto di frequenza. Eppure, così come commetteremmo un grave errore se parlassimo del mito di Filomela trascurandone le implicazioni di genere, sarebbe miope mettere sullo stesso piano le invenzioni di uomini che hanno studiato tutta la vita per avere le competenze adatte a realizzarle e l’intuizione di un’attrice e un musicista, senza un’istruzione accademica, che tuttavia hanno deciso di studiare e provarci. L’eredità straordinaria di Hedy Lamarr non è l’invenzione del Wi-Fi o della telefonia mobile: è il coraggio di aprire un varco, col corpo e con le idee, dove prima c’era una parete chiusa; è la determinazione strisciante che le ha concesso di accedere, alle sue condizioni, a un mondo da cui il genere e le circostanze della sua vita l’avrebbero automaticamente esclusa.

Riscriviamo le storie, ancora e ancora: non per trasformarle in proclami nuovi, ma solo per poterle complicare, accusare, disfare e cambiare una volta in più, tutte le volte che a cambiare siamo noi.


Loreta Minutilli vive a Bologna, dove ha studiato Astrofisica. È autrice di due romanzi, Elena di Sparta (Baldini+Castoldi) e Quello che chiamiamo amore (La Nave di Teseo) e racconti sparsi qua e là. Ha collaborato con varie riviste letterarie e si occupa della direzione editoriale de«Il Rifugio dell’Ircocervo».  Da sempre contesa tra scienza e letteratura, sta provando a ricucire lo strappo frequentando il Master in Comunicazione delle Scienze dell’Università di Padova.

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