Nonostante bambine e bambini crescano nello stesso ambiente, le loro scelte educative subiscono l’influenza degli stereotipi di genere e divergono con l’età, portando a una segregazione formativa.
in copertina: Stefano di Stasio, Senza titolo (1995) – Olio su tela – Asta Pananti in corso
Questo testo è estratto da “Si è sempre fatto così: spunti di pedagogia di genere”, di Alessia Dulbecco. Ringraziamo l’autrice ed Edizioni Tlon.
Le “gabbie di genere” nei testi scolastici
Dai tre ai quattordici anni bambine e bambini si muovono nello stesso ambiente. Nonostante trascorrano gran parte del loro tempo gomito a gomito, ascoltando le medesime lezioni, frequentando la stessa rete di amicizie e gli stessi spazi sociali, i loro percorsi sono destinati ad assumere presto rotte differenti. Al termine del primo ciclo di istruzione, infatti, le ragazze si indirizzano prevalentemente verso studi umanistici e i ragazzi verso quelli scientifici e tecnologici. Questo fenomeno prende il nome di segregazione formativa. Non si tratta ovviamente di una novità: da quando le donne hanno avuto accesso all’istruzione superiore sono sempre state orientate verso precisi percorsi, di studio o di lavoro, considerati più adatti alle loro predisposizioni, e lo stesso è accaduto agli uomini. A partire dagli anni Settanta, però, abbiamo smesso di considerare tutto ciò come un dato di fatto o di giustificarlo alla luce delle “inclinazioni naturali” di maschi e femmine per tentare di analizzarlo da un’angolazione diversa, capace di tener conto non solo delle aspirazioni personali ma anche e soprattutto dei condizionamenti di genere.
Se guardiamo al fenomeno attraverso lenti sensibili a questa variabile scopriamo che quell’orizzonte di possibilità che, almeno teoricamente, si apre davanti a ogni alunno o alunna al termine della scuola obbligatoria è, per entrambi (ma in modi differenti), ben più limitato di quanto immaginiamo. Come ricorda la ricercatrice Silvia Leonelli, le opportunità sono strettamente correlate alla loro «pensabilità», ovvero a quanto le rappresentazioni e le attuali narrazioni permettano ai soggetti coinvolti di immaginarsi all’interno di certi scenari o in determinati ruoli. Se, come abbiamo sostenuto nella sezione precedente, bambine e bambini non ricevono gli stessi messaggi dai media, dobbiamo riconoscere che qualcosa di analogo avviene anche a livello scolastico. I libri che leggono, le storie che ascoltano, le lezioni che studiano, infatti, tendono a rimuovere la presenza femminile o a considerarla in maniera parziale e accessoria, riducendo così quella “pensabilità” a cui si riferiva la studiosa. I maschi, al contrario, sembrano apparentemente favoriti da una narrazione che dilata le loro possibilità di immaginarsi in ruoli diversi, tuttavia come proveremo a sottolineare, anche loro non sono immuni ad alcune limitazioni.
Nel suo volume Educazione sessista, la pedagogista Irene Biemmi ha preso in esame i sussidiari e i libri di lettura adottati dalle scuole primarie al fine di analizzare gli stereotipi di genere, più o meno impliciti, contenuti nelle loro pagine. Pubblicata nel 2010, la sua indagine ha contribuito a riannodare i fili di un discorso avviato grazie alle ricerche di Elena Gianini Belotti e Rossana Pace che, verso la fine degli anni Settanta, hanno denunciato per prime gli stereotipi di genere all’interno dell’editoria scolastica. Nonostante siano passati anni, lo studio di Biemmi si pone in continuità con i lavori precedenti giungendo a risultati analoghi. La ricercatrice procede prendendo in esame alcune variabili presenti all’interno dei testi destinati ai bambini/e della primaria. Sia nelle parole che nelle immagini utilizzate, il genere del/la protagonista, l’età, il suo ruolo, gli attributi che lo/la caratterizzano, le ambientazioni in cui si muove e le altre figure che incontra descrivono una realtà piuttosto precisa.
Se è vero che non si riscontrano molte differenze rispetto ai personaggi principali (che sono rappresentati come bambine o bambini più o meno in egual misura) ciò che cambia è il loro ruolo all’interno delle storie. I maschi sono attivi, amano lo sport e compiono azioni eroiche; le femmine al contrario si muovono in ambientazioni domestiche e sono descritte attraverso aggettivi che rimandano alla loro bellezza e al loro carattere mansueto e gentile. Altrettanto stereotipati sono i personaggi secondari: a quelli maschili sono attribuiti più di ottanta professioni, mentre per i femminili non più di una ventina, con una netta ricorrenza dell’insegnante o della strega.
Attraverso la sua indagine Biemmi ci aiuta a inquadrare il ruolo che i testi scolastici hanno nel mantenimento degli stereotipi di genere. I prodotti editoriali finiscono per fossilizzare un immaginario che, fuori dalle pagine dei libri, è in realtà molto più complesso e variegato. Bambini e bambine si trovano così in una impasse derivante dall’essere circondati/e da figure maschili e femminili “multitasking” (che studiano, lavorano dentro e fuori casa, si prendono cura della prole o degli anziani, partecipano alla vita familiare, ecc.) ma che i libri su cui si formano non hanno ancora incluso nella narrazione, risultando fortemente stereotipata, binaria e, in alcuni casi, sessista.
Chi ha segnalato gli stereotipi di genere e le frasi sessiste incontrate dai loro figli e figlie nei libri di scuola non ha sempre ricevuto appoggio. Molte persone hanno sminuito le loro denunce ritenendo che vi fossero altri temi più stringenti, come i diritti sociali calpestati, l’assenza delle donne in molti contesti lavorativi, ecc. Tra le varie istanze però vi è un rapporto di strettissima interdipendenza. I macrofunzionamenti, su cui chi era contrario a queste battaglie cerca di portare l’attenzione, infatti, si mantengono anche attraverso quei dettagli che non ci sembrano degni di nota, come i contenuti che bambini e bambine trovano nei loro libri di scuola. Le condizioni diseguali che le donne incontrano quando si affacciano al lavoro, come il soffitto di cristallo (quell’insieme di barriere invisibili che impediscono di fatto l’accesso a posizioni più elevate) o gli stipendi più bassi a parità di impiego, non si manifestano improvvisamente ma, come un puzzle, si compongono attraverso tessere che si incastrano l’una all’altra proprio durante il percorso di studi.
-->Sei abbastanza smart per affrontare la sfida?
Dast, acronimo di Draw a Scientist Test, è un test proiettivo ideato dal sociologo David Wade Chambers nei primi anni Ottanta per indagare il momento in cui insorgono i principali stereotipi associati alla professione scientifica. È stato messo a punto attraverso il coinvolgimento di più di cinquemila bambini/e invitati a rappresentare “una persona di scienza”. Nonostante la richiesta fosse totalmente neutra sotto il profilo del genere, solo ventotto disegni ritraevano una donna. Il test ha avuto il pregio di sottolineare, in un momento storico in cui non era affatto scontato, l’importanza della rappresentazione. È indubbio, infatti, che le scelte dei bambini/e di riprodurre un certo tipo di figura a scapito di un’altra sia stata condizionata dalla capacità di richiamare alla mente una scienziata cui ispirarsi, operazione molto difficile se consideriamo che all’epoca erano ancor più invisibilizzate di oggi sotto ogni punto di vista.
Si potrebbe pensare che, grazie all’ingresso delle donne in ogni ambito della vita sociale e professionale avvenuto negli ultimi decenni, le cose siano profondamente cambiate. Un’indagine pubblicata nel 2018 che ha preso in esame più di ventimila dast realizzati nel corso di cinque decadi ha però complicato il quadro: se è vero che il numero di disegni raffiguranti scienziate è progressivamente aumentato, passando dallo 0,6% registrato da Chambers al 28% rilevato nel periodo 1985-2016, è altrettanto vero che sono soprattutto le bambine entro gli otto anni a disegnare questo soggetto. In altre parole, nei primi anni della scuola primaria le alunne tendono a proiettare sul foglio bianco la propria immagine, salvo poi cambiare soggetto col progredire dell’età. A sedici anni, solo il 25% ha disegnato una scienziata, quando a otto anni erano più del 70%. D’altro canto, i maschi non subiscono questa drastica variazione e confermano invece la propria preferenza di genere: sono il 98% quelli che a 16 anni non hanno dubbi e rispondono al comando disegnando uno scienziato.
Nel 2020 Eurostat ha rilevato che sono più del 40% le donne che, in Europa, sono impiegate nel settore scientifico. In Italia non è raro imbattersi, nei libri o in tv, in racconti e approfondimenti dedicati alle vicende di scienziate famose, da Rita Levi Montalcini a Samantha Cristoforetti. Qualcosa di analogo si riscontra in molti altri Paesi in cui editoria e media hanno compiuto scelte attente nei confronti della rappresentazione femminile. I dati emersi dall’indagine intorno al dast diventano perciò ancora più interessanti: come è possibile che sia ancora così faticoso per una ragazza immaginarsi nel ruolo di scienziata? Se tutto sommato non è difficile rappresentarsi nelle vesti di una persona di scienza quando si è piccole, cosa succede quando si diventa adolescenti?
Il problema della rappresentazione, da solo, forse non basta più a spiegare perché sia così complicato per le ragazze pensarsi in determinati ruoli. Secondo Lian Bian, Sarah-Jane Leslie e Andrei Cimpian subentrano anche altri fattori, come l’autostima e la percezione delle proprie competenze. In una ricerca del 2017 gli studiosi hanno sottoposto a un campione di bambini e bambine di cinque, sei e sette anni un racconto che narrava le avventure di un/a «brillante protagonista». Al termine della storia ogni partecipante era chiamato a osservare due immagini, rispettivamente di un ragazzo e una ragazza, e rispondere a una semplice domanda: dei due, chi è il/la protagonista del racconto appena ascoltato? A cinque anni i bambini/e rispondevano assegnando il ruolo principale al soggetto del proprio genere, in un’identificazione totale. Tra i sei e i sette anni, però, le cose cambiano: la stragrande totalità delle bambine individua nel protagonista maschile il soggetto smart.
Queste ricerche sono utili perché ci restituiscono, come una cartina di tornasole, tendenze in atto da tempo. Grazie alle prove invalsi sappiamo che già intorno alla quinta elementare le competenze in matematica dei bambini superano quelle delle coetanee di almeno sei punti. Il peggioramento del rendimento in questa materia genera una sorta di “effetto Pigmalione” che va a confermare lo stereotipo secondo cui non sono portate per il ragionamento logico o astratto, alimentando così una catena di pregiudizi i cui effetti si ripercuotono in ambito professionale. Secondo il Gender Index Gap Report, lo strumento con cui annualmente si osserva l’andamento del divario di genere, le donne impiegate nel ramo itc sono appena l’1,7%.
L’esclusione delle bambine da questi settori non è preordinata proprio perché apparentemente non ci sono limiti alle scelte che ciascuna studente può compiere una volta terminata la scuola. Quello che si genera è un processo più sottile, basato su un progressivo abbassamento del riconoscimento delle proprie abilità e competenze in determinati settori che di fatto le allontana dai contesti formativi e professionali scientifici. Parallelamente, una certa narrazione che pone l’accento solo su alcuni dati – ad esempio quelli, già riportati, relativi ai migliori percorsi formativi condotti dalle ragazze – contribuisce a generare l’“illusione della finta parità”, ossia il pregiudizio secondo cui le loro scelte di studio e lavoro siano del tutto prive di condizionamenti e frutto di decisioni libere, al più determinate da “naturali predisposizioni” che le orientano verso le materie umanistiche, il settore della cura o dei servizi.
In questa disamina abbiamo preso in esame gli effetti che le scelte formative hanno sui percorsi femminili perché, come abbiamo cercato di dimostrare, i dati suggeriscono che è sulle ragazze che si abbattono le criticità maggiori. Tuttavia, anche la popolazione maschile non è immune dalla pervasività degli stereotipi.
L’illusione della finta libertà
Quando si indaga il fenomeno della segregazione formativa si tende spesso a porre grande attenzione attorno ai condizionamenti che caratterizzano e limitano le opportunità femminili ignorando o sottovalutando quelli vissuti dai ragazzi. Eppure, gli stessi condizionamenti agiscono in maniera speculare anche sulla popolazione maschile che, nell’immaginario comune, viene «estromessa dai saperi educativi e di cura e, dunque, dalle professioni a esse correlate».
Nell’indagine compiuta coinvolgendo tre atenei toscani, Silvia Leonelli e Irene Biemmi hanno considerato il peso degli stereotipi culturali nelle scelte formative e lavorative dei ragazzi. La maggior parte degli intervistati – futuri maestri, assistenti sociali, educatori, terapisti dell’età evolutiva – è d’accordo nel sostenere che i pregiudizi sociali, consolidati e tramandati a livello familiare e sociale, in merito a cosa ci si aspetti da un uomo abbiano influito sui percorsi intrapresi. Molti raccontano di essere approdati alle facoltà umanistiche dopo aver frequentato altri corsi e che, se non si fossero trovati a fare determinate esperienze – come quelle di babysitter, animatore estivo, scout, ecc. – non avrebbero avuto modo di riconoscere i loro reali interessi, trovando così l’occasione per metabolizzare una scelta atipica e comunicarla, non senza fatica, ai familiari. L’attuale costruzione della maschilità pone molti ragazzi nella condizione di dover giustificare le proprie decisioni se si discostano troppo da quelle ritenute adatte al proprio genere.
I ricercatori Robert Brannon e Deborah David sono stati tra i primi, nel 1976, a identificare i quattro assi su cui si struttura il ruolo di genere maschile considerato “idoneo”. La visione dominante della maschilità, definita manbox, prevede un rifiuto dei comportamenti considerati femminili, l’ambizione alla carriera e al successo, la negazione delle emozioni e di quei lati di sé più fragili e l’incoraggiamento all’azione e alla violenza. Come dicevamo, il modello che risponde a tutti questi requisiti si definisce “egemone” perché sembra in grado di assicurare, a chi vi aderisce, il maggior numero di benefici in termini di status e potere. Tuttavia, i vantaggi sono solo apparenti: il sistema patriarcale, infatti, li ingigantisce attraverso potenti giochi di specchi occultandone, contemporaneamente, i risvolti problematici. Per dirla in altri termini: seppur in maniera differente dal genere femminile, anche gli uomini subiscono i limiti prodotti dal sistema culturale in cui sono immersi.
«L’attuale costruzione della maschilità pone molti ragazzi nella condizione di dover giustificare le proprie decisioni se si discostano troppo da quelle ritenute adatte al proprio genere»
Benissimo, purtroppo è anche vero, avendolo sperimentato sulla mia pelle. Peccato che all’ultimo concorso per l’insegnamento abbia visto giovani (entro i 30 anni), maschi, bianchi, eterosessuali, settentrionali e, soprattutto, PhD in storia o in storia dell’arte, C1 certificato in Inglese, all’attivo di pubblicazioni scientifiche, BOCCIATI alle prove orali da commissioni di SOLE donne!! Soltanto perchè non si sono piegati alla dittatura dell’inclusione, non condividendo DAD, BES, ADHD e tutte le altre insulsassigini che la scuola progressista si è inventata. Per contro però hanno vinto dei “maschi” calvi, piegati, ossequiosi, lecchini, in poche parole: CASTRATI. Questo è il futuro dell’Italia e dell’Europa? Eliminare le forze produttive? Auguri. E poi si parla di pregiudizi di genere, quante bazzecole.. Mi auguro che l’autrice abbia il coraggio di mostrare quanto da lei scritto alle commissioni femministe e si discuta seriamente, sempre che il suo non sia una forma di eteroclito onanismo mentale.
Si, il bocciato di prima sono io. E sono un maschio arrabbiato. Ma ancora per poco, perché a brevissimo questi bizantinismi saranno travolti da rabbie più sostenute che mai.