L’irriducibilità culturale dei rave

I rave party, come molte celebrazioni a sfondo carnevalesco in cui si sfogano gli istinti più onirici e triviali del corpo sociale, sono costantemente sorvegliati dai sistemi di potere, i quali alternano, contro lo “sballo”, repressioni severe e campagne di sensibilizzazione. Eppure anche la società industriale ha bisogno di riti “tecnomagici”.


IN COPERTINA e nel testo, Gianni Dova, Paesaggio – Olio su tela, Asta pananti in corso

Questo testo è un estratto da Tecnomagia di Vincenzo Susca, ringraziamo Mimesis per la gentile concessione.


di Vincenzo Susca

… questa folla cupa non attende forse una sciagura, grande abbastanza da far sprizzare la scintilla della sua tensione, un incendio oppure la fine del mondo, qualcosa che faccia rovesciare questo mormorio soffuso fatto di migliaia di voci in un solo grido, al modo in cui un colpo di vento scopre la fodera scarlatta del mantello? Perché l’acuto grido del dolore, il terrore panico, è il rovescio di ogni vera festa di massa. Lo brama ardentemente il brivido sottile che corre lungo le innumerevoli schiene.
Walter Benjamin, Ombre corte

 

Ogni fuga, dissolutezza e voluttà che l’industria culturale e il sistema degli oggetti ispira rinvia all’esaltazione allucinante e lasciva innescata dalle droghe e dalle altre sostanze eccitanti moderne e contemporanee. Un’ombra fluttua, spaventevole e ammaliante, su ogni consumo eccessivo di ieri o di oggi, così come sulle trance festive dai risvolti ambigui, in bilico tra il politicamente corretto e il socialmente disfunzionale: l’ombra di Dioniso, il fantasma della perdizione. Per questa ragione i capannoni delle notti elettroniche, le fabbriche dismesse dove esplodono improvvisamente rave party, ma anche i festival ufficiali e altre celebrazioni a sfondo carnevalesco in cui si sfogano gli istinti più onirici e insieme triviali del corpo sociale, sono costantemente sorvegliati, con sguardi sospettosi, dai sistemi di potere, i quali alternano, contro lo “sballo”, repressioni severe e campagne di sensibilizzazione, riduzioni del danno e dispositivi di prevenzione atti a conservare l’ordine del sistema, la salute e la buona condotta della cittadinanza. La violenza insita in assembramenti del genere è così censurata o ammansita, resa innocua.

La storia sociale del divertimento sfrenato, dai baccanali alla techno parade, è sempre impregnata di turbolenze, abitata da mostri e governata da principi contraddittori: la confusione versus l’ordine. Nei tempi moderni, l’industria degli spettacoli estende il tempo e lo spazio della festa con l’invenzione del tempo libero e il dispiegamento ogni dove di “mondi del sogno” mentre s’ingegna con ogni mezzo affinché tutti gli eccessi dell’immaginazione e i piaceri della carne siano riconducibili ai valori istituiti. Negli ultimi anni, incalzato da derive e pulsioni incontenibili, animate da un’estetizzazione diffusa della vita quotidiana e dalla spettacolarizzazione dell’esistenza ordinaria, tramite condotte a rischio, giochi sconfinati, irriverenza nei confronti delle élite, astensione politica ed altre turbolenze societali, l’Occidente ha sviluppato, nel solco dell’ideologia neo-liberale, strategie e tattiche inedite, su molteplici livelli: incoraggiare l’edonismo fino a trasformarlo in automatismo sociale spogliato del piacere, trasformare il palcoscenico istituzionale in un suadente teatro spettacolare animato dall’obiettivo di commuovere e divertire il pubblico, per poi moltiplicare a dismisura gli “stati di eccezione” – causati dal terrorismo, dalle crisi economiche, dalla pandemia o dalla guerra – laddove le pressioni sociali siano inarrestabili.

Per quanto riguarda il primo versante, a differenza dell’impostazione classica applicata dalle culture egemoni che si sono succedute nel corso del tempo, di stampo giudaico-cristiano, protestante, comunista o socialista, le nuove élite non esigono più il contegno sociale di un tempo in nome del progresso, del paradiso, della società perfetta o di altre teorie della salvezza, promuovendo invece forme di vita adagiate sulla realizzazione del sé con tutte le voluttà del caso, qui ed ora, senza alcuna preoccupazione per il lungo termine – anche a scapito dell’ambiente! Sull’altra sponda, il potere contemporaneo – da Berlusconi a Zelensky passando per Macron e Trump – è ormai concepito, a monte e a valle, quindi non solo nell’ambito delle campagne elettorali, come show rivolto all’emozione pubblica, scansando l’opinione pubblica, senza più alcuna astrazione, programma o razionalità che non siano la tele-empatia e il sensazionalismo, con il linguaggio dei brividi, stabilendo un rapporto intimo, scevro di ogni mediazione, tra leader e pubblico. In ultima istanza, quando il cortocircuito tra la distrazione e l’ordine appare smisurato, laddove la vibrazione del corpo sociale attenta la stabilità del sistema, la censura interviene in modo brutale e coatto in nome di cause di forza maggiore.

Lungi dall’accogliere tesi complottiste – che tuttavia indicano una guerra di segni tra verità universali e locali, politica e vita quotidiana, scienza ufficiale e magia – il terrorismo di matrice islamica che sferza l’Occidente dall’inizio del Terzo millennio ai giorni nostri, la pandemia di Covid 19 e la guerra in Ucraina hanno costituito anche dei pretesti per ristabilire l’ordine laddove esso vacillava. Prima di codeste urgenze, movimenti come i Gilet gialli, metoo, Friday for future, Occupy wall street, le sardine, Black lives matter, Extintion rebellion e altri ancora, infatti, segnalavano turbolenze e disagi generalizzati in misura di intaccare lo status quo. La politica del distanziamento sociale, l’intensificazione della sorveglianza sociale, il dirottamento dell’agenda pubblica verso la questione della difesa, dei vaccini, dell’immunità e della sicurezza, pur in tutte le loro diverse sfumature, costituiscono dunque metodi efficaci per disinnescare riti, pratiche e immaginari scaturiti dalla socialità, ovvero dal brulichio culturale tra la strada e la rete, con l’obiettivo di interrompere le danze, spezzare l’incantesimo del corpo a corpo e raggelare ogni bagno di folla.

Il quadro è composto di prospettive contraddittorie, se non schizofreniche, oscillanti volta per volta, a seconda delle varie congiunture politiche, economiche e sociali, tra l’incitazione a un sovrappiù di edonismo e l’applicazione di misure volte a ripristinare l’austerità. Esso induce una sensazione di incertezza e confusione che si esprime tramite comportamenti come l’edonia depressiva, descritta da Mark Fisher in quanto stato in cui divertirsi diviene un obbligo spiacevole, la frustrazione sociale, i suicidi di massa, le violenze insensate e la crisi di rigetto nei confronti di pratiche e simboli connessi con la morale pubblica. In entrambe le polarità è in azione, orchestrato dai media in accordo con i poteri forti pubblici e privati, un principio anestetico di natura psico-culturale, prima ancora che politica, funzionante ora per mezzo di simulacri del piacere e chimere della felicità, ora tramite dosi di info-terrore con tutto il corollario di messaggi che diffondono minacce e agiscono nel sollevare sensi di colpa. Rinveniamo agevolmente, con l’imbarazzo della scelta, nel primo contesto la sovrabbondanza di blandizie al consumatore, allo spettatore e al cittadino sotto forma di cuoricini, smiley, incentivi agli acquisti, bonus culturali, palestre in ufficio, party aziendali, notti bianche, feste della musica, nell’altro l’imposizione di misure liberticide, in nome di scenari gravi ed irreparabili, per salvare la salute e la sicurezza a fronte di rischi fatali: attentati, epidemie, guerre, catastrofi ambientali…

Iniezioni di anestetici, analgesici e droghe, con l’ausilio di effetti speciali mediatici, storytelling e fuochi d’artificio di varia natura, massaggiano l’immaginario collettivo e operano sulle percezioni psico-sensoriali per orientarne le trame, in direzione, a seconda dell’urgenza del momento, di un’ipereccitazione o del contegno più estremo. Resta da comprendere, fino in fondo, cosa ne sia del corpo implicato in un siffatto gioco, posto che l’indifferenza nei confronti della politica, i sospetti verso le classi dirigenti, la negazione di tutte le verità ufficiali, il ripiego comunitario e gli innumerevoli riti tecnomagici che innervano il vissuto collettivo, dalla medicina alternativa alla New Age, dai party elettronici ai live di Twitch, dalle danze di Tik Tok alle stanze oscure del dark web, sono altrettanti sintomi che, nell’indicare l’obsolescenza del potere-sapere moderno e dei suoi avatar, segnalano l’emergenza di sensibilità in parte incompatibili con le strategie politiche, economiche e comunicative del nuovo ordine mondiale occidentale neo-capitalista, realista capitalista e sanitario, così come delle sue controparti. Da un versante all’altro, infatti, traboccano malumori, si ramificano forme di opposizione, proliferano turbolenze sociali, divampano atti di sabotaggio, resistenza e ricreazione che spaziano – si fanno spazio – dalle strade alle reti digitali, tra i tumulti urbani e i meme, la great resignation e i party illegali.

*

Quale casa sta bruciando? Il paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi dal fuoco. E, tuttavia, li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti. Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata tra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo. (Giorgio Agamben)

E ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora più vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante.

Inutile edulcorare l’interpretazione dello scenario: il corpo, corpo sociale e corpo tout court, esce a pezzi dalle crisi imperversate negli ultimi anni: stremato dalla concorrenza spietata del nuovo regime economico, depresso a causa del distanziamento sociale, spaventato dagli attentati terroristici, alienato nell’ambito della mercificazione dell’esistenza, terrorizzato dalle atroci scene di guerra, umiliato nella spirale di abusi che ne attentano la dignità, tradotto in data e tracciato tra le matrici digitali, le antenne del marketing e i processi degli algoritmi, si ritrova non più e non solo come “corpo senza organi”, ma in una condizione post-umana nella quale gli organi – altri organi – lo precedono e lo eccedono. Esce a pezzi, dunque. Frammentato. E tuttavia, frammento tra frammenti, esso sviluppa, sul principio della danza – del corpo danzante – inedite forme di resistenza e di esistenza tramite contaminazioni, ibridazioni e concatenazioni successive. 

Incorporazioni in seguito a smembramenti ed incidenti, tra traumi e piaceri estremi, rito dopo rito, nelle estasi della tecnomagia ha luogo il colpo di grazia all’umanesimo e l’avvento di una nuova carne ancora tutta da svelare. In modo analogo a quanto mostrato dalla genealogia cinematografica che si dispiega da Tetsuo a Ema, Titane e Crimes of the future passando per Videodrome, Crash, ExistenZ e Crimes of the future, il processo di incarnazione in opera è travagliato: esso ricompone, ricongiunge e rivela nel mentre squarcia la pelle, sprigiona dissonanze e irraggia luci nere. Ne derivano sia le ferite strazianti sciorinate in modo roboante dalle processioni mediatiche contemporanee, sia gli inediti legami orditi in modo inconscio, segreto o trasversale attorno al noi e al di là di noi. È il caso, ad esempio, del Chthulucene evocato da Donna Haraway per superare l’ideologia dell’Antropocene, quindi di un’era non più caratterizzata dalla prevalenza dell’elemento umano, bensì dall’avvento di figure che cristallizzano una simbiosi tra il fantastico, come la creatura tentacolare di Lovecraft, Chthulu, e il sotterraneo, dal greco chthonios. La filosofa americana scorge così nuove modalità di sopravvivenza in un mondo infetto, animate da una vocazione “simpoietica” che predispone ogni essere vivente e non a una condizione di accoglienza nei confronti dell’alterità, verso la “forma serpeggiante del con-divenire”. Secondo un principio simile, Nicolas Bourriaud individua estetiche dell’inclusione in tutti i “paessaggi relazionali” contemporanei che integrano e superano i meri rapporti sociali, a favore di compenetrazioni tra l’ordine vivente e l’inanimato, comprensivo di batteri, tecnologie, reti, macchine, così come di tutto che contempli il naturale e il minuscolo – col “molecolare”, nelle sue parole.

La tecnomagia è mossa esattamente dal decentramento estatico dell’essere umano, al contempo costretto a dipendere dall’altro da sé, incatenato in lacci senza fili, e in stato di ebbrezza, nel brivido del divenire. I riti che dirigono trasmutazioni tanto travolgenti, impregnati di sostanze arcaiche e proiettati in immaginari futuristici, tra il sacro, l’orrorifico e il fantascientifico, al di là e al di qua dell’utopia e della distopia, sono innescati da alterazioni psicosensoriali che rendono l’individuo cedevole nei confronti del prossimo, empatico verso l’estraneo, fertile all’immaginazione, predisposto a danzare, esattamente come avviene nello sciabordio dei party techno, sotto l’effetto di sostanze psicotrope, quando il corpo danzante, in un’esausta gioia cosmica, si sente parte del tutto in cui è avvolto senza più riconoscerne i confini e le articolazioni. 

I noi che spuntano, come tanti fiori fulgidi e contaminati, in ogni scenario di questo tipo, nell’euforia festiva e nella decadenza, tra le reti digitali, i paesaggi post-urbani, la realtà aumentata dei MMORPG e la distesa salata del deserto Black Rock nello stato del Nevada, dove ha luogo il festival dal titolo emblematico Burning Man, tra le rovine della modernità e del progresso, rimettono in circolazione con piglio intersezionale gli umori emarginati e stigmatizzati dall’Occidente, assecondando ibridazioni, diaspore e sincretismi, nel segno di un comune allargato oltre la società, la comunità e persino l’umanità. La droga funge ivi da potente dispositivo metaforico e farmacologico per una definitiva dissipazione e confusione dell’io, in una sorta di tecnograzia – quiete e beatitudine a seguito di convulsioni e spasmi – fosse anche solo un’illusione, o un’allucinazione. 

Rileggiamo Walter Benjamin tramite un balzo di tigre, in accordo con la sua sensibilità:

La distensione che è alla base di questi processi, molto probabilmente non è sempre un effetto immediato delle droghe. Quando più drogati si riuniscono, si aggiunge qualcos’altro. Diverse droghe hanno in comune la caratteristica di accrescere in modo così straordinario il piacere che si trae dalla presenza di compagni di vizio, tra i quali non è raro che una sorta di misantropia si verifichi tra gli interessati.

La misantropia dei compagni di vizio è la causa e l’effetto, soprattutto, della frammentazione del sociale nelle sue vesti consolidate – secondo classi, ceti, ideologie, stati-nazione… – quindi dell’elaborazione di forme di esistenza, collettiva e soprattutto connettiva, oltre lo spazio, il tempo e persino la specie, segnate da una forte solidarietà organica e transorganica, attraverso la condivisione di immaginari e ambienti che trascendono l’ordine politico, culturale e finanche umano.

Misantropa è la persona che esperisce una separazione radicale tra sé e il suo mondo abituale. D’altra parte, il piacere straordinario menzionato da Benjamin è il corrispettivo di una travolgente comunione dallo spirito pagano, atta a congiungere l’individuo con il compagno di vizio, col vizio stesso e con ogni elemento del paesaggio che lo accoglie, come è perfettamente mostrato dal film Un oscuro scrutare di Richard Linklater, tratto dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick. Si tratta di un piacere scevro delle connotazioni universali e astratte stabilite dall’arte, ben radicato nell’hic et nuc – quando l’estasi dei corpi è tutto e il resto è nulla. La sua essenza è ambigua, in quanto soddisfa il soggetto oltrepassandolo, consegnandolo all’altro, privandolo di se stesso, come avviene nel momento in cui pubblichiamo in modalità live, reel o story un momento rilevante della nostra vita invece di viverlo, o forse vivendolo così, tramite l’altro, morto in sé, morto per sé. Riprendiamo il passaggio di Benjamin: 

Il contatto con gli altri che non partecipano alle loro pratiche sembra apparirgli tanto inutile quanto noioso. Ovviamente, il fascino del drogato non è sempre attaccabile al livello della conversazione. Ma, d’altra parte, ciò che dà un tono molto particolare a queste sessioni, per molti di coloro che le organizzano regolarmente, è probabilmente più di una semplice eliminazione delle inibizioni. Sembra piuttosto che si verifichi qualcosa come un incatenamento magico delle inferiorità, tra complessi e disturbi presenti nei diversi partecipanti al rito. I tossicodipendenti aspirano in qualche modo l’uno con l’altro le cattive sostanze del loro essere; esercitando l’uno sull’altro un’azione catartica. È chiaro che questo comporti dei pericoli straordinari. Ma d’altra parte, questa circostanza può anche spiegare il grande valore, spesso insostituibile, che questo vizio riveste per le costellazioni più correnti della vita quotidiana. Il fumatore di oppio o il mangiatore di hashish percepiscono la forza dello sguardo capace di aspirare cento luoghi in un solo posto.

Ecco le scintille oscure che infiammano la tecnomagia.

Se è vero che viviamo ormai in un mondo tossico – intossicati dalla tecnica e dalla politica, dalle guerre e dal neo-liberalismo, dall’eccesso di plastica, dallo scioglimento del permafrost e da altre catastrofi ambientali – e che siamo diventati tossici, il filo rosso che ancora e di nuovo ci lega le une agli altri, a partire dal principio della simpatia, da affinità elettive e connettive, in una specie di ordo amoris, consiste in tutte quelle catene magiche dotate di un’aura tale da sedurci e commuoverci nel mentre siamo posseduti e reificati. Esse sono il presupposto del nostro radicamento e sradicamento, quindi dell’erranza che scandisce la nostra vita quotidiana tra la voluttà del carpe diem, qui e ora, e la brama del nuovo, anche quando si tratti di novità senza progresso. Così, drogati da Instagram e dall’ecstasy, dallo Xanax e da Tik Tok, dall’MDMA, dal Ghb e dai giochi d’azzardo, da Grindr, Tinder e OnlyFans, dalle speculazioni dei Bit Coin, dalle vertigini dei NFT e dai meme, gli individui si perdono e ritrovano in tutte le alterità che li circondano, aspirando le “cattive sostanze del loro essere”, nella cornice di un’iniziazione a un mondo più vasto rispetto a quello del soggetto. Come le sessioni menzionate da Benjamin insegnano, in linea con l’estetica della magia di antica memoria, unioni del genere sfociano da formule e pratiche in grado di associare elementi banali, spaventevoli ed effimeri con altri sensuali, onirici e dall’intensa pregnanza simbolica.

I tecnomaghi contemporanei, che sfidano, nel mentre le subiscono, le leggi dello Stato e della politica, dell’economia e delle religioni, in nome di uno e molteplici misteri iniziatici – sulla base di affetti, stili, totem e immaginari in grado di fondere diverse persone in un corpo unico e ogni volta diverso – non corrispondono alle icone narrate dalle leggende o descritte dagli etnologi della prima metà del Novecento, non sfoggiano barbe lunghe e visi sfigurati, non mescolano pozioni di miele e sangue per preparare l’Idromele adorato dal dio germanico Odino, non tramutano, come la maga Circe, gli uomini in maiali: sono le cerimoniere e gli sciamani di tutti i nuovi riti che reincantano l’esistenza e ricongiungono ciò che finora è stato separato nel tempo e nello spazio: soggetti e oggetti, cultura e natura, corpo e spirito, arte e vita quotidiana, organico e inorganico.


Vincenzo Susca è professore associato di Sociologia dell’immaginario all’Università Paul-Valéry di Montpellier e ricercatore al Ceaq (Sorbonne). McLuhan Fellow all’Università di Toronto, è il direttore editoriale dei Cahiers européens de l’imaginaire. Tra i suoi libri: Transpolitica (Milano 2008), con D. de Kerckhove; Gioia Tragica (Milano 2010, Parigi 2011, Barcellona 2012); Les Affinités connectives (Parigi 2016). È l’autore, con A. Béhar, della pièce teatrale Angelus Novissimus (2014).

1 comment on “L’irriducibilità culturale dei rave

  1. Silvia Gabriele

    Pazzesco

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