La parte simbolica delle nostre vite, individuali e collettive, ci sfugge: eppure è ciò di più importante che ci sia, con ricadute su ogni aspetto della nostra esistenza.
IN COPERTINA e lungo il testo opere di René magritte
Questo testo è tratto da L’istituzione immaginaria della società di Cornelius Castoriadis. Ringraziamo Mimesis Edizioni per la gentile concessione.
di Cornelius Castoriadis
Traduzione di Emanuele Profumi
Tutto ciò che ci si presenta nel mondo sociale-storico è indissolubilmente intrecciato con il simbolico, anche se non vi si esaurisce. Gli atti reali, individuali o collettivi – il lavoro, il consumo, la guerra, l’amore, la procreazione –, gli innumerevoli prodotti materiali, senza i quali nessuna società saprebbe vivere un solo istante, non sono (non sempre e non direttamente) dei simboli. Ma gli uni e gli altri sono impossibili al di fuori di una rete simbolica. È chiaro che, prima di tutto, incontriamo il simbolico nel linguaggio. Ma l’incontriamo parimenti, a un altro livello e in un altro modo, nelle istituzioni. Queste ultime non si riducono al simbolico, ma possono esistere solo nel simbolico, sono impossibili al di fuori di un simbolico di secondo grado, e ciascuna di esse costituisce il proprio reticolo simbolico. Una data organizzazione economica, un sistema giuridico, un potere istituito, una religione, esistono socialmente come dei sistemi simbolici forniti di una sanzione istituita. Consistono nell’attribuire a dei simboli (a dei significanti) dei significati (rappresentazioni, ordini, ingiunzioni o incitazioni a fare o non fare, conseguenze – ovvero delle significazioni, nel senso ampio del termine) e a farli valere come tali, cioè a rendere questa attribuzione più o meno cogente per la società o per il gruppo considerato. Un titolo di proprietà, un atto di vendita è un simbolo del “diritto”, a procedere a un numero indefinito di operazioni sull’oggetto di sua proprietà sancito socialmente, da parte del proprietario. Una busta paga è il simbolo del diritto del salariato di esigere una quantità di denaro che, da parte di chi lo possiede, è il simbolo del diritto di dedicarsi a una serie di atti di acquisto, ognuno dei quali sarà a sua volta simbolico. Il lavoro stesso, che è all’origine della busta paga, nonostante sia assolutamente reale per il suo soggetto e nei suoi risvolti pratici, è, ben inteso, costantemente attraversato da operazioni simboliche (nel pensiero di colui che lavora, nelle istruzioni che riceve, ecc.). Diventa simbolo esso stesso quando, ridotto dapprima in ore e minuti, trasformati in determinati coefficienti, entra nell’elaborazione contabile della busta paga o dei “risultati di gestione” dell’impresa; o anche quando, in caso di controversia, si trova inserito nelle premesse e nelle conclusioni del sillogismo giuridico che risolverà questa controversia. Le decisioni dei pianificatori dell’economia sono simboliche (ironicamente e seriamente). Le sentenze del tribunale sono simboliche e le loro conseguenze lo sono quasi integralmente fino al gesto del boia che, reale per antonomasia, è anch’esso immediatamente simbolico a un altro livello.
Qualsiasi prospettiva funzionalista conosce e deve riconoscere il ruolo del simbolismo nella vita sociale.
Ma soltanto raramente ne riconosce l’importanza – e in tal caso tende a limitarla. O il simbolismo è concepito come semplice rivestimento neutro, come strumento perfettamente adeguato all’espressione di un contenuto preesistente, della “vera sostanza” dei rapporti sociali, a cui non aggiunge né toglie nulla, oppure è riconosciuta l’esistenza di una “logica propria” del simbolismo, ma questa logica è vista esclusivamente come l’inserimento del simbolico in un ordine razionale, che impone i suoi esiti, voluti o non voluti. Infine, in questa concezione, la forma è sempre al servizio della sostanza, e la sostanza è “reale-razionale”. Ma, in realtà, le cose non stanno cosi’, e ciò manda in rovina le pretese interpretative del funzionalismo.
Si consideri la religione, un’ istituzione così importante per tutte le società storiche. Essa comporta sempre un rituale (non tratteremo qui i casi limite). Prendiamo il caso della religione mosaica. La definizione del suo rituale di culto (nel senso più esteso del termine) comporta una proliferazione infinita di dettagli; questo rituale, fissato con più dettagli e precisione rispetto alla Legge propriamente detta7, deriva direttamente da comandamenti divini e, d’altronde, è per questo che tutti i suoi dettagli sono messi sullo stesso piano. Che cosa determina la specificità di questi dettagli? Perché sono messi tutti sullo stesso piano?
Alla prima domanda si possono solo dare una serie di risposte parziali. I dettagli sono in parte determinati dal riferimento alla realtà o al contenuto (in un tempio chiuso ci vogliono dei candelabri; un certo tipo di legno o di metallo è il più prezioso nella cultura presa in esame, dunque degno di essere utilizzato, – ma già in questo caso compare il simbolo, con tutta la sua problematica della metafora diretta o meno: nessun diamante è abbastanza prezioso per la tiara del Papa, ma lo stesso Cristo ha lavato i piedi degli Apostoli). I dettagli hanno un riferimento, non funzionale ma simbolico, al contenuto (della realtà o dell’immaginario religioso: il candelabro ha sette bracci). Infine, i dettagli possono essere determinati dalle implicazioni o conseguenze logico-razionali delle considerazioni precedenti.
-->Ma queste considerazioni non permettono d’interpretare in maniera soddisfacente e integrale un qualunque rituale. In primo luogo, esse lasciano dei residui, nel quadruplice reticolo in cui s’incontrano il funzionale, il simbolico, e le loro implicazioni, e i vuoti sono più numerosi dei punti ricoperti. Inoltre, esse postulano che la relazione simbolica è scontata, mentre, al contrario, pone dei problemi immensi: innanzitutto il fatto che “la scelta” di un simbolo non è mai né assolutamente ineluttabile, né puramente aleatoria. Un simbolo non s’impone attraverso una necessità naturale, né può privarsi nel suo contenuto di ogni riferimento al reale (soltanto in alcuni rami della matematica si potrebbe tentare di trovare dei simboli completamente “convenzionali” – e va considerato anche che una convenzione che è stata ritenuta valida per un certo periodo di tempo cessa di essere una pura convenzione). Infine, in questo contesto nulla permette di determinare le frontiere del simbolico. Dal punto di vista del rituale, a essere indifferente è, qualche volta, la materia, altre volte la forma, altre volte ancora nessuna delle due: si fissa la materia di un certo oggetto, ma non di tutti; la stessa cosa accade per la forma. Un certo tipo di chiesa bizantina è a forma di croce; si pensa di capirne il motivo (ma allora bisogna domandarsi anche perché tutte le chiese cristiane non lo sono). Eppure questo motivo della croce, che potrebbe essere riprodotto negli altri elementi e sotto-elementi dell’architettura e della decorazione della chiesa, in realtà non lo è sempre: è ripreso a certi livelli, ma ad altri livelli si trovano degli altri motivi decorativi, e ci sono anche dei livelli totalmente neutri, semplici elementi di supporto o di riempimento. La scelta dei punti di cui s’impossessa il simbolismo per comunicare e “sacralizzare” a un secondo grado la materia del sacro, sembra in gran parte (ma non sempre) arbitraria. La frontiera passa quasi ovunque: ci sono, per esempio, la nudità del tempio protestante e la giungla lussureggiante di certi templi indù, e, improvvisamente, là dove il simbolismo sembra essersi impadronito di ogni millimetro di materia, come in alcune pagode del Siam, ci si accorge che si è di colpo svuotato di contenuto, che è diventato semplice decorazione rispetto all’essenziale.
In breve, un rituale non è qualcosa di razionale – e ciò permette di rispondere alla seconda domanda che ponevamo: perché in esso tutti i dettagli sono posti sullo stesso piano? Se il rituale fosse qualcosa di razionale, vi si potrebbe ritrovare la distinzione fra l’essenziale e il secondario, cioè la gerarchizzazione propria di ogni reticolo razionale. Ma in un rituale non c’è nessun modo di distinguere ciò che conta molto e ciò che conta di meno in base a considerazioni di contenuto. Mettere sullo stesso piano tutto ciò che compone un rituale dal punto di vista dell’importanza, è precisamente l’indice del carattere non razionale del suo contenuto. Dire che non ci possono essere dei gradi all’interno del sacro, è un altro modo di dire la stessa cosa: tutto ciò di cui il sacro si è impossessato è ugualmente sacro (e ciò vale anche per i rituali delle nevrosi ossessive o delle perversioni).
Ma i funzionalisti, marxisti o no, non amano molto la religione, che trattano sempre come se fosse, dal punto di vista sociologico, una pseudo-sovrastruttura, un epifenomeno degli epifenomeni. Prendiamo dunque un’istituzione seria come il diritto, nella sua connessione diretta alla “sostanza” di ogni società, che, ci dicono, è l’economia, e che non ha a che fare con fantasmi, candelabri o bigottismo, bensì con quelle relazioni sociali reali e solide che si esprimono nella proprietà, nelle transazioni e nei contratti. Nel diritto si dovrebbe poter dimostrare che il simbolismo è al servizio del contenuto e che se ne discosta solo nella misura in cui è la razionalità a obbligarlo. Lasciamo pure da parte quegli strambi primitivi di cui si fa un gran parlare e presso i quali sarebbe molto difficile distinguere le regole propriamente giuridiche dalle altre. Prendiamo una bella società storica e riflettiamoci su.
Si dirà allora che a una certa tappa dell’evoluzione di una società storica compare necessariamente l’istituzione della proprietà privata, poiché quest’ultima corrisponde al modello fondamentale di produzione. Una volta stabilita la proprietà privata, devono essere fissate una serie di regole: i diritti del proprietario dovranno essere definiti, le loro violazioni sanzionate, i casi limite risolti (un albero cresce sul confine fra due campi, a chi appartengono i frutti?). Nella misura in cui la società considerata si sviluppa economicamente e gli scambi si moltiplicano, la libera trasmissione della proprietà (che all’inizio non è affatto scontata, né obbligatoriamente riconosciuta, soprattutto per i beni immobili) deve essere regolamentata, e la transazione che consente tutto questo deve essere formalizzata, acquisire una possibilità di verifica che minimizzi le possibili controversie. Così, in questa istituzione, che resta un monumento eterno di razionalità, di economia, e di funzionalità, equivalente istituzionale della geometria euclidea – e intendiamo con ciò il diritto romano – si elaboreranno, durante i dieci secoli che vanno dalla Lex Duodecim Tabularum al Codice giustinianeo, quella vera e propria foresta, ben ordinata e ben tagliata, di regole che stanno al servizio della proprietà, delle transazioni e dei contratti. Considerando questo diritto nella sua forma finale, si potrà dimostrare, per ogni paragrafo del Corpus, che la regola che esso contiene o è al servizio del funzionamento dell’economia o dipende da altre regole che lo sono.
Tutto ciò lo si potrebbe anche dimostrare – ma non si sarà ancora dimostrato nulla rispetto alla nostra questione. Infatti, non solo nel momento in cui il diritto romano lo sancisce le ragioni d’essere della sua funzionalità, così elaborata, diminuiscono notevolmente, ma va anche considerato che, a partire dal terzo secolo della nostra era, la vita economica subisce una regressione crescente in un modo tale che, riguardo al diritto patrimoniale, il Codice di Giustiniano sembra un monumento inutile e in gran parte ridondante rispetto alla situazione reale dell’epoca. Inoltre, non solo tale diritto, elaborato nella Roma dei consoli e dei Cesari, ritroverà in modo paradossale la sua funzionalità in molti paesi europei, a partire dal Rinascimento, e resterà Gemeines Recht nella Germania capitalista fino al 1900 (il che trova la sua giustificazione, fino a un certo punto, nella sua estrema “razionalità”, e quindi universalità); ma, soprattutto, mettendo l’accento sulla funzionalità del diritto romano, si eluderebbe la caratteristica dominante della sua evoluzione per dieci secoli, ciò che lo trasforma in un esempio affascinante del rapporto fra l’istituzione e la “realtà sociale soggiacente”: la sua evoluzione è stata un lungo sforzo per arrivare esattamente a questa funzionalità a partire da uno stato che era ben lungi dal possederla. All’inizio, il diritto romano è un rozzo insieme di regole rigide, in cui la forma schiaccia il contenuto a un livello così elevato che supera di gran lunga ciò che le esigenze di qualsiasi diritto potrebbero giustificare, se intese come sistema formale. Per citare solo un esempio, peraltro centrale, si può ricordare che quello che costituisce il nucleo funzionale di ogni transazione, cioè la volontà e l’intenzione delle parti contraenti, ha per molto tempo un ruolo minore rispetto alla legge; ciò che domina è il rituale della transazione, il fatto che certe parole debbano essere pronunciate, e che certi gesti siano compiuti. Soltanto gradualmente si ammetterà che il rituale può avere effetti legali unicamente in presenza della vera volontà delle parti. Ma il corollario simmetrico di questa tesi, cioè che la volontà delle parti può costituire degli obblighi indipendentemente dalla forma che prende la sua espressione, principio a fondamento del diritto moderno relativo agli obblighi, e che ne esprime veramente il carattere funzionale, pacta sunt servanda, non sarà mai riconosciuto. La lezione del diritto romano, considerato nella sua evoluzione storica reale, non è la funzionalità del diritto, ma, all’inizio, è la relativa indipendenza del formalismo o del simbolismo nei confronti della funzionalità, e la successiva conquista lenta, mai integrale, del simbolismo da parte della funzionalità.
L’idea che il simbolismo sia perfettamente “neutro”, oppure – ma è la stessa cosa – totalmente “adeguato” al funzionamento dei processi reali, è inaccettabile e, a dire il vero, priva di senso.
Il simbolismo non può essere neutro, né totalmente adeguato, dapprima perché non può ricavare i suoi segni da un qualsiasi luogo, né essi possono essere dei segni qualunque. Ciò è evidente per l’individuo che incontra sempre davanti a sé un linguaggio già costituito, e che, se attribuisce un senso “privato” e particolare a una parola o a una espressione, non lo fa con una libertà illimitata, ma deve appropriarsi di qualcosa che “già esiste”. Questo è altrettanto vero per la società, benché in maniera differente. La società costituisce ogni volta il suo ordine simbolico, in un senso diverso da come può farlo l’individuo. Questa costituzione, però, non è “libera”. Deve anch’essa prendere la sua materia da “ciò che già esiste”. Prima di tutto dalla natura e, dato che la natura non è caos, dato che gli oggetti naturali sono legati fra di loro, ciò comporta delle conseguenze. Per una società che conosce l’esistenza del leone, questo animale significa forza. Per questa società la criniera assume immediatamente un valore simbolico, che non ha probabilmente mai avuto presso gli Esquimesi. Ma tutto ciò è anche storia. Ogni simbolismo si costruisce sulle rovine degli edifici simbolici precedenti, e ne utilizza i materiali – anche solo per riempire le fondamenta di nuovi templi, come hanno fatto gli Ateniesi dopo le guerre persiane. Attraverso le sue connessioni naturali e storiche virtualmente illimitate, il significante supera sempre l’attaccamento rigido a un significato preciso e può condurre a dei luoghi totalmente inaspettati. La costituzione del simbolismo nella reale vita sociale e storica non ha nessun rapporto con le definizioni “chiuse” e “trasparenti” dei simboli all’interno di uno scritto di matematica (che d’altronde non può mai chiudersi su se stesso).
Un caso esemplare, che riguarda sia il simbolismo del linguaggio sia quello dell’istituzione, è il simbolismo del “Soviet dei commissari del popolo”. Trotsky riporta nella sua autobiografia che, quando i bolscevichi si sono impadroniti del potere e hanno formato un governo, è stato necessario dare un nome a quest’ultimo. I termini “ministri” e “Consiglio dei ministri” davano molto fastidio a Lenin, perché ricordavano i ministri borghesi e il loro ruolo. Trotsky propose i termini “commissari del popolo” e, per l’intero governo, ”Soviet dei commissari del popolo”. Lenin ne fu affascinato – trovava l’espressione “estremamente rivoluzionaria”, e fu adottato questo nome. Si creava un nuovo linguaggio e si creavano delle nuove istituzioni, almeno così si credeva. Ma fino a che punto tutto ciò era nuovo? Il nome era nuovo, e tendenzialmente esprimeva un nuovo contenuto sociale: i Soviet esistevano, e i bolscevichi, d’accordo con la loro maggioranza, avevano “preso il potere” (che, sino a quel momento, era anch’esso solo un nome). Ma, a un livello intermedio, che si sarebbe rivelato decisivo, quello dell’istituzione nella sua natura simbolica di secondo grado, cioè dell’incarnazione del potere in un organo collegiale chiuso, inamovibile, al vertice di un apparato amministrativo distinto dagli amministrati, proprio a questo livello si restava di fatto nell’ambito dei ministri, ci si impossessava della forma già creata dai sovrani dell’Europa occidentale a partire dalla fine del Medio Evo. Lenin, costretto dagli eventi a interrompere la stesura di Stato e Rivoluzione, dove dimostrava l’inutilità e la nocività di un governo e di un’amministrazione separati dalle masse organizzate, quando si trovò davanti al vuoto creato dalla rivoluzione, e malgrado la presenza di nuove istituzioni (i Soviet), seppe solo ricorrere alla forma istituzionale che già esisteva storicamente. Non voleva il nome “Consiglio dei ministri”, ma voleva proprio un Consiglio dei ministri – e alla fine lo ha avuto (ciò vale, ben inteso, anche per gli altri dirigenti bolscevichi e per la maggior parte dei membri del partito). La rivoluzione creava un nuovo linguaggio e aveva delle cose nuove da dire; ma i dirigenti volevano dire, con parole nuove, delle cose vecchie.
Eppure questi simboli, questi significanti, proprio quando si tratta del linguaggio, o ancora di più nel caso delle istituzioni, non sono totalmente asserviti al “contenuto” che si suppone essi veicolino, anche per un’altra ragione: appartengono a delle strutture ideali che sono loro proprie e s’inseriscono in relazioni quasi razionali. La società affronta costantemente il fatto che un sistema simbolico qualunque debba essere gestito con coerenza; dal fatto che lo sia o non lo sia scaturiscono, s’impongono o meno, una serie di conseguenze che, come tali, sono previste o impreviste, volontarie o involontarie.
Si fa spesso finta di credere che questa logica simbolica, e l’ordine razionale che le corrisponde in parte, non pongano nessun problema per la teoria della storia. In realtà, entrambi ne pongono tantissimi. Un funzionalista può dare per scontato che, quando una società si dà un’istituzione ritenga allo stesso tempo di potersi dare e poter possedere tutte le relazioni simboliche e razionali che questa istituzione comporta o genera – oppure che, in ogni caso, non si darebbe contraddizione o incoerenza fra i “fini” funzionali dell’istituzione e gli effetti del suo funzionamento reale e che, ogni volta che si stabilisce una regola, si garantisce la coerenza di ognuna delle innumerevoli conseguenze con l’insieme delle altre regole già esistenti e con i fini perseguiti coscientemente o “obiettivamente”. Basta enunciare chiaramente questo postulato per costatarne l’assurdità; il che significherebbe che lo Spirito assoluto sovrintende alla nascita o alla modifica di ogni istituzione che appare nella storia (e non cambia nulla se lo si immagina presente nella testa di coloro che creano l’istituzione, oppure nascosto nella forza delle cose).
L’ideale dell’interpretazione economico-funzionale è che le regole istituite devono apparire funzionali, oppure realmente o logicamente connesse con delle regole funzionali. Ma questa implicazione reale o logica non è data subito, e non è automaticamente omogenea alla logica simbolica del sistema. L’esempio del diritto romano sta a dimostrare che una società (portata per predilezione alla logica giuridica, come risulta dai fatti) ha impiegato dieci secoli per svelare queste implicazioni e per subordinarvi approssimativamente il simbolismo del sistema. La conquista della logica simbolica delle istituzioni e la sua “razionalizzazione” progressiva sono di per sé dei processi storici (tra l’altro relativamente recenti). Nel contempo, tanto la comprensione della logica delle sue istituzioni da parte della società, che la sua non-comprensione, sono dei fattori che pesano moltissimo sulla sua evoluzione (senza parlare delle loro conseguenze sull’azione degli uomini, dei gruppi, delle classi, ecc.; la metà, per così dire, della gravità della depressione cominciata nel 1929 è dovuta alle reazioni “assurde” dei gruppi dirigenti). L’evoluzione di questa comprensione non è di per sé passibile di un’interpretazione “funzionale”. L’esistenza di M. Rueff, e il suo discorso pubblico nel 1965, mettono in guardia da ogni spiegazione funzionale nonché razionale.
Ciò che è razionale delle istituzioni, considerato “di per sé” ma non compreso e non voluto come tale, può essere di aiuto per il funzionale, ma può anche essergli avverso. Se gli è avverso in maniera diretta e violenta, l’istituzione collasserà all’istante (la carta-moneta di Law). Ma può anche esserlo in maniera subdola, lenta, cumulativa – e il conflitto apparirà solo dopo un certo tempo. Le crisi “normali” di sovrapproduzione del capitalismo classico rientrano essenzialmente in questo caso.
Tuttavia il caso che colpisce di più, il più significativo è quello in cui la razionalità del sistema istituzionale è, per così dire, “indifferente” rispetto alla sua funzionalità –, benché ciò non le impedisca di avere delle conseguenze reali. Sicuramente ci sono delle regole istituzionali positive che non contraddicono le altre, ma neanche derivano da queste e sono poste senza che si possa spiegare perché esse siano state preferite ad altre ugualmente compatibili con il sistema. Ma si danno soprattutto tantissime conseguenze logiche relative alle regole poste, che non sono state esplicitate all’inizio e che hanno un ruolo altrettanto reale nella vita sociale. Esse contribuiscono pertanto a “formarla” in un modo non richiesto dalla funzionalità delle relazioni sociali, che però neanche la ostacola, e che può orientare la società in una delle direzioni lasciate indeterminate dalla funzionalità o creare degli effetti che retro-agiscono su di essa (rispetto al capitalismo industriale, la Borsa-valori ne rappresenta fondamentalmente un esempio).
Questo aspetto si collega all’importante fenomeno che abbiamo già segnalato a proposito del rituale: nulla permette di determinare a priori il luogo in cui passerà la frontiera del simbolico, il punto a partire dal quale il simbolico sconfina nel funzionale. Non si possono fissare né il grado generale di simbolizzazione, variabile a seconda delle culture, né i fattori che permettono che la simbolizzazione si orienti con un’intensità particolare su un certo aspetto della società presa in esame.
Abbiamo cercato d’indicare i motivi per cui è inaccettabile l’idea secondo la quale il simbolismo istituzionale sarebbe un’espressione “neutra” o “adeguata” della funzionalità, della “sostanza” delle relazioni sociali soggiacenti. Tuttavia, a dire il vero, questa idea è priva di senso. Tale idea postula infatti l’esistenza di una certa sostanza che sarebbe precostituita in rapporto alle istituzioni; suppone che la vita sociale abbia un “qualcosa da esprimere” già pienamente reale prima della lingua in cui verrà espresso. Ma è impossibile cogliere un “contenuto” originario della vita sociale e che “se ne dia” un’espressione nelle istituzioni indipendentemente da esse; tale “contenuto” (non come momento parziale e astratto, successivamente separato) è definibile solo dentro una struttura, e quest’ultima comporta sempre l’istituzione. Le “relazioni sociali reali” che stiamo considerando sono sempre istituite, non perché abbiano una veste giuridica (possono benissimo non averne in alcuni casi) ma perché sono state poste come modi di fare universali, simbolizzati e dotati di sanzione. Ciò vale sicuramente anche, e forse soprattutto, per le “strutture”, cioè per i rapporti di produzione. La relazione padrone-schiavo, servo-signore, proletario-capitalista, salariati-burocrazia è immediatamente un’istituzione e non può emergere come relazione sociale senza istituzionalizzarsi subito.
A tale proposito, c’è nel marxismo un’ambiguità che dipende dal fatto che il concetto d’istituzione (anche se non si usa questo termine) non è delucidato. Considerate in senso stretto, le istituzioni appartengono alla “sovrastruttura” e sarebbero determinate dalla “struttura”. Questa prospettiva è di per sé insostenibile, come abbiamo cercato di dimostrare precedentemente. Inoltre, se la si accettasse, si dovrebbero vedere le istituzioni come “forme” che servono o esprimono un “contenuto” o una sostanza della vita sociale già strutturato, prima di tali istituzioni, altrimenti la loro determinazione da parte di quel contenuto non avrebbe senso. Questa sostanza sarebbe la “struttura” che, come indica il termine, è già strutturata. Ma, come può esserlo se non è istituita? Se, per esempio, “l’economia” determina il “diritto”, se i rapporti di produzione determinano le forme di proprietà, ciò significa che i rapporti di produzione possono essere colti come articolati e lo sono effettivamente già “prima” (logicamente e realmente) della loro espressione giuridica. Ma dei rapporti di produzione articolati a livello sociale (non il rapporto fra Robinson e Venerdì) significano ipso facto una rete, a un tempo reale e simbolica, in se stessa dotata di sanzione – e quindi un’istituzione.
Le classi sono già nei rapporti di produzione, che siano riconosciute o meno come tali da un’istituzione “di secondo grado” quale è il diritto. – È ciò che si è cercato di dimostrare in passato a proposito della burocrazia e della proprietà “nazionalizzata” in U.R.S.S.. Il rapporto burocrazia-proletariato in U.R.S.S. è istituito come rapporto di classe, produttivo-economico-sociale, anche se non è istituito esplicitamente come tale dal punto di vista giuridico (del resto, neanche il rapporto borghesia-proletariato, in quanto tale, lo è mai stato in nessun paese). Di conseguenza, il problema del simbolismo istituzionale e della sua relativa autonomia in rapporto alle funzioni dell’istituzione mostra immediatamente, a livello dei rapporti di produzione e ancora di più nel caso dell’economia in senso stretto, che una visione semplicemente funzionalista è insostenibile. Non bisogna confondere questa analisi con la critica di certi neo-kantiani, come R. Stammler, contro il marxismo, basata sull’idea della priorità della “forma” della vita sociale (che sarebbe il diritto) rispetto alla sua “materia” (l’economia). Questa critica ha la stessa ambiguità della visione marxista che vuole combattere. L’economia stessa può esistere solo come istituzione, ciò non implica necessariamente una “forma giuridica” indipendente. Quanto al rapporto fra l’istituzione e la vita sociale che vi si svolge, non può trattarsi di un rapporto tra la forma e la materia in un senso kantiano, e, in ogni caso, non come un rapporto che implichi una ”anteriorità” dell’una sull’altra. Si tratta di momenti interni a una struttura – che non è mai rigida né mai identica per le diverse società.
Non si può neanche, ovviamente, dire che il simbolismo istituzionale “determini” il contenuto della vita sociale. Qui c’è un rapporto specifico, sui generis, che si disconosce e si deforma quando la si vuole cogliere come pura causazione o pura concatenazione di senso, come libertà assoluta o determinazione completa, come razionalità trasparente o sequenza di fatti bruti.
La società configura il suo simbolismo ma non in totale libertà. Il simbolismo si aggancia a ciò che è naturale e a ciò che è storico (a ciò che già esisteva); coinvolge, infine, ciò che è razionale. Tutto ciò fa emergere delle concatenazioni di significanti, dei rapporti fra significanti e significati, delle connessioni e delle conseguenze, che non erano né volute, né previste. Il simbolismo non è liberamente scelto, né imposto alla società considerata, non è semplice strumento neutro e medium trasparente né opacità impenetrabile e avversità irriducibile, né padrone della società, né docile schiavo della funzionalità, né mezzo di partecipazione diretta e completa a un ordine razionale, ma esso determina degli aspetti della vita sociale (e non solo quelli che si supponeva determinare) e nello stesso tempo è ricco di interstizi e di gradi di libertà.
Ma tali caratteristiche del simbolismo, anche se indicano il problema ogni volta costituito per la società dalla natura simbolica delle sue istituzioni, non determinano un problema per esse insolubile, non sono sufficienti per rendere conto dell’autonomizzazione delle istituzioni rispetto alla società. Nella misura in cui s’incontra nella storia un’autonomizzazione del simbolismo, non si tratta mai di un fatto ultimo, ed essa non si spiega da sola. C’è un uso immediato del simbolico, in cui il soggetto può lasciarsi dominare da esso, ma ce n’è anche uno lucido o riflessivo. Anche se quest’ultimo non può mai essere garantito a priori (non si può costruire un linguaggio, e neanche un algoritmo, all’interno del quale l’errore sia “meccanicamente” impossibile), esso diviene reale, e mostra così la strada e la possibilità per un altro rapporto in cui il simbolico non sia più autonomizzato, e possa adeguarsi al contenuto. Un conto è dire che non si può scegliere un linguaggio in assoluta libertà, e che ogni linguaggio interferisce su ciò che “si deve dire”. Un altro conto è credere che siamo fatalmente dominati dal linguaggio e che si possa sempre e soltanto dire ciò che esso ci fa dire. Noi non possiamo mai uscire dal linguaggio, ma la nostra mobilità al suo interno non ha limiti e ci permette di rimettere tutto in discussione, compreso il linguaggio stesso e il nostro rapporto con esso. La stessa cosa vale per il simbolismo istituzionale – tranne ovviamente il fatto che il grado di complessità qui è molto più elevato. Nulla di ciò che appartiene strettamente al simbolismo impone ineluttabilmente la dominazione di un simbolismo autonomizzato delle istituzioni sulla vita sociale; nulla nel simbolismo istituzionale come tale esclude il suo lucido utilizzo da parte della società – ribadendo ancora una volta che è impossibile concepire delle istituzioni che proibiscano “per costruzione” o “automaticamente” l’asservimento della società al proprio simbolismo. A tale riguardo, nel nostro orizzonte culturale greco-occidentale si dà un movimento storico reale di conquista progressiva del simbolismo, sia nei rapporti con il linguaggio, sia in quelli con le istituzioni. Anche i governi capitalisti hanno finalmente imparato a servirsi, più o meno correttamente e per alcuni aspetti, del linguaggio e del simbolismo economico, a dire ciò che vogliono dire attraverso il credito, la fiscalità, ecc. (il contenuto di ciò che dicono è ovviamente tutt’altra cosa). Certamente ciò non implica che qualsiasi contenuto sia esprimibile in qualsiasi linguaggio; il pensiero musicale del Tristano non poteva essere espresso nel linguaggio del Clavicembalo ben temperato, la dimostrazione di un teorema matematico anche semplice, non è possibile con il linguaggio quotidiano. Una nuova società creerà, con ogni evidenza, un nuovo simbolismo istituzionale, e il simbolismo istituzionale di una società autonoma avrà pochi rapporti con quanto abbiamo conosciuto finora.
Se non ci fosse nient’altro, il dominio del simbolismo delle istituzioni non porrebbe, dunque, problemi essenzialmente diversi da quelli della gestione del linguaggio (a prescindere dal momento del suo “appesantimento” materiale: dalle classi, dalle armi, dagli oggetti, ecc.). Un simbolismo è dominabile fino a quando esso non rinvia, in ultima istanza, a qualcosa che non è simbolico. Infatti, ciò che supera il semplice “progresso nella razionalità”; ciò che permette al simbolismo istituzionale non già di deviare in maniera temporanea, salvo poi essere ripreso (come può fare anche il discorso lucido), ma di autonomizzarsi; ciò che, infine, gli fornisce il suo fondamentale supplemento di determinazione e di specificazione, non rientra nel simbolico.
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