Lo smartphone ha senza dubbio cambiato le nostre vite: ma qual è stato il suo effetto nell’arte contemporanea?
In copertina: Bansky, this is not a photo opportunity
di Fabrizio Ajello
Nel dialetto siciliano esiste un termine che indica il guardare intensamente, quasi per incanto, senza distrazione. Il termine in questione è taliàri, di provenienza araba, arrivato sull’Isola attraverso il dialetto catalano, e designerebbe la torre di avvistamento, l’avanguardia. Quindi taliàri è osservare scrupolosamente come una vedetta, senza distogliere lo sguardo, ma allo stesso tempo anche l’architettura estrema che consente il primo avvistamento. Per certi versi l’ubiquo smartphone incarna il taliàri: ci consente di guardare intensamente, illuminati da una luce innaturale e incantevole, trasformandoci nell’avanguardia di ciò che accade intorno e permettendoci di essere aggiornati su ciò che accade lontano.Di contro lo smartphone diventa molto spesso anche la causa del rapimento totalizzante.
Questo sottile monolite, fidato compagno delle nostre vite o “minuscola stanza delle torture portatile” come è stato apostrofato dal filosofo Byung Chul-Han, non poteva esimersi dall’essere oggetto di studio/ispirazione al tramutarsi in vero e proprio strumento di produzione, fruizione e diffusione di contenuti (più o meno) culturali. Il vero potere di molti social network, d’altro canto, si basa sulla copertura smisurata che noi stessi assicuriamo a queste applicazioni, grazie alla simbioticità con i nostri devices.

Da Black Mirror alla selfiologia
Nell’episodio White Bear della nota serie Black Mirror (2013), la protagonista Victoria, si sveglia priva di ricordi e in stato confusionale. Cerca di capire dove si trova e cosa le stia accadendo, la casa in cui si è svegliata e l’intera cittadina fuori dalle mura domestiche sono deserte; gli unici esseri umani visibili sono intenti a riprenderla con i propri smartphone a distanza, senza proferire parola. La situazione precipita con l’arrivo di un gruppo di malintenzionati a volto coperto che si lanciano all’inseguimento della malcapitata ormai nel panico. Attraverso una serie di peripezie e grazie all’aiuto di due coraggiosi “rivoltosi” che vogliono interrompere un misterioso segnale (per l’appunto l’Orso Bianco) che avrebbe trasformato tutti gli abitanti in smombies (zombi al telefono), Victoria riesce, sfinita e terrorizzata, a impossessarsi dell’arma del “capo branco”, ma premuto il grilletto si rende conto che quanto imbracciava non era altro che un giocattolo. La protagonista scopre a sue spese che la breve ma intensa disavventura è un’orrenda fiction nella quale è stata precipitata e che dovrà scontare per il resto della sua vita, quasi in un terribile contrappasso dantesco. Il crimine da lei perpretato, ossia la ripresa del brutale omicidio della propria figlia commesso insieme al marito suicidatosi in carcere, le si ritorcerà contro ininterrottamente. Il pubblicò è invitato a riprendere liberamente e fruire delle “gesta di inutile resistenza eroica” della smemorata (nel vero senso della parola, visto il lavaggio del cervello a cui viene continuamente sottoposta) Victoria, fino allo svelamento del tragi-comico parco giochi ideato per sollazzare gli spettatori e punire i criminali.
-->Foucault d’altronde rispetto all’assoggettamento del potere scriveva nel suo capolavoro Sorvegliare e Punire: Questo assoggettamento non è ottenuto coi soli strumenti sia della violenza che dell’ideologia; esso può assai bene essere diretto, fisico, giocare della forza contro la forza, fissarsi su elementi materiali, e tuttavia non essere violento; può essere calcolato, organizzato, indirizzato tecnicamente, può essere sottile, non fare uso né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico.
Divertimento-patimento-assoggettamento arrivano a coincidere in una sorta di crudele gogna pubblica in salsa gioco di ruolo, che porta al cortocircuito definitivo verità-finzione. Ma questa messa in scena perversa non potrebbe avvenire senza il protagonismo morboso di ogni singolo partecipante/smartphone impegnato a riprendere (e condividere) in soggettiva lo svolgimento dell’azione. Il cellulare è allo stesso tempo l’oggetto di tortura, lo scettro del potere e lo strumento di piacere. Riprendere il mostro è l’ideale allontanamento del/dal male, uno schermarsi che indica un ideale e fittizio confine tra la purezza e il crimine.
Il nostro tempo ci ha modellato in una dimensione autistica, portando il testimone a combaciare con il protagonista, con un bicefalismo invertito interiore. All’interno di musei, così come davanti a panorami mozzafiato ed edifici iconici, è ormai inevitabile trovare gruppi di persone che cercano lo scatto migliore in cui immortalarsi con la propria “preda” catturata da quello che in fin dei conti è il vero oggetto del desiderio. Una delle più recenti polemiche è scoppiata proprio all’interno del Museo degli Uffizi di Firenze per alcuni scatti a mò di selfie che ritraevano le due influencer Alex Mucci e Eva Menta. La diffusione sui social degli scatti in cui le due ragazze posavano davanti alla Venere di Botticelli e nei corridoi del museo con camicette trasparenti e fuson attillati ha scatenato un vespaio di critiche e di reazioni tra l’indignazione e l’entusiasmo. Opportuni o meno, gli scatti sono divenuti virali sui social rendendo poco efficace, se non inutile, la richiesta del Museo fiorentino di ritirarli dai profili delle due influencer. In tal senso il nostro smartphone è lo spazio dell’immediato, del non si torna indietro. La spasmodica necessità di appropriarsi e condividere per attirare attenzione è diventato oggi il riflesso condizionato dello stare al mondo.
L’artista Banksy da diversi anni porta avanti il progetto: This Is Not a Photo Opportunity, e stencillando questa indicazione provocatoria nei punti più frequentati da turisti e curiosi nelle grandi città d’arte, generando un contrasto concettuale tra una porzione di spazio fisico perfetto per selfie con scorci iconici e la dipendenza da memoria surrogata. Senza ombra di dubbio l’utilizzo smodato del proprio smartphone e il compulsivo autoscatto con immediata diffusione sono due delle caratteristiche più impattanti della società ipersociale. Ma gli artisti oggi come si interfacciano con questo medium non più recente e con le sue implicazioni inevitabili? Esiste una torsione social della produzione artistica, in chiave social opportunity? Lo smartphone può essere elevato a strumento di produzione artistica?

Tra politica e religione
L’artista e filmmaker Shadi Habib Allah nel 2018 realizza l’installazione Did you see me this time, with your own eyes? che si compone di alcuni cellulari 2G interagenti, attraverso un intrigo di cavi, cuffie e caricabatterie, con sistemi di devices, ben disposti con grande gusto estetico, su di un espositore a forma di parallelepipedo retto. Senza chiarimenti ulteriori potremmo essere al cospetto dell’esperimento di un nerd dallo spiccato senso estetico, ma indagando meglio emerge che il complesso intreccio di cavetteria varia, cellulari, batteria e affini è un sistema che genera autonomamente chiamate tradotte in tempo reale su uno schermo. Questo processo sarebbe stato studiato dall’artista grazie alla scoperta del geniale network 2G, con nuovo dialetto annesso, messo a punto da alcuni beduini della penisola del Sinai per poter comunicare senza essere intercettati dalle autorità del governo egiziano. Quello che colpisce però è la straordinaria distanza tra la necessità di un gruppo umano di sfuggire al controllo e alla censura e la trasformazione di questa operazione rivoluzionaria in un’opera inerte, da disporre nel contesto di un evento artistico internazionale. Siamo nel pieno della estetizzazione della resistenza politica, diffusissima tendenza dei nostri tempi. Nello stesso anno l’artista cubana Glenda León realizza il video Hablando con Dios / Talking to God. All’interno di una chiesa in penombra si possono scorgere i fedeli che di spalle attendono e ascoltano una rarefatta aria religiosa, ma il movimento di camera ci svela lentamente che tutti i presenti stanno in realtà chattando al cellulare e l’illuminazione dei propri smartphone completa l’aura mistica dei singoli in un contesto già di per sé fortemente caratterizzato da un alone sacro. D’improvviso cala un silenzio che enfatizza il lavorio dei presenti sulle tastiere e inevitabilmente viene voglia di aguzzare la vista per sbirciare cosa stiano scrivendo di così importante. Il lavoro si conclude con una dissolvenza panoramica che rivela un manto buio puntellato da una costellazioni di piccole luci che altro non sono che i cellulari dei singoli fedeli. L’urgenza di “conversare” con un altrove, in uno spazio che è già di per sé liminale e la conseguente solitudine silenziosa vengono trattate con un’intensità convincente. Dio è in ascolto, ma quale Dio? E ancora, il cielo stellato della parte conclusiva del lavoro della León indica timidamente un’ottimistica speranza per il futuro ma allo stesso tempo un gelido e lugubre vuoto che incombe e che sempre più spesso incontriamo nell’inarcarsi verso il basso di tanti esseri umani in balia dei loro devices.
Siamo ancora una volta nel 2018, quando l’artista scozzese Charlotte Prodger vince l’edizione 2018 del Turner Prize, premio istituito nel 1984 e tra i più prestigiosi dell’arte contemporanea, presentando una serie di video intimisti e poetici realizzati con il proprio smartphone. Il lavoro presentato dalla Prodger piega la qualità del suo iPhone, sfruttandone le potenzialità pittoriche e riuscendo a mescolare sapientemente nel cortometraggio BRIDGIT di 32 minuti, un’indagine in chiave narrativa su identità e tecnologia, queer wilderness, JD sports e Jimi Hendrix. Il prestigioso premio infrange una volta per tutte il tabù dello smartphone come strumento di produzione artistica di alto livello.
L’intimismo così come la traduzione di un paesaggio in estensione romantica del proprio vissuto hanno trovato nella manegevolezza e nella versatilità del cellulare “un’arma vincente”, in grado di mantenere fluida una narrazione immediata e fortemente allegorica.
Sempre nel 2018 l’artista leccese Luigi Presicce inserisce lo smartphone nel suo tableaux vivant Il fazzoletto della vera icona, durante la performance aperta al pubblico al MAP Museo di Arte Popolare di Città del Messico, dopo aver assistito ad un brutale arresto per strada contornato da una folla impegnata a riprendere e scattare foto. L’imprevisto evento si trasforma così in una trasposizione voyeuristica e venatoria in cui la folla intorno al fazzoletto della vera icona si sbraccia per immortalare il sacro episodio. Realtà e finzione si riflettono quindi l’una nell’altra attraverso il cardine luminoso del cellulare, appendice sintomatica della nostra inadeguatezza nel processo percettivo.
Ma lo stesso anno Presicce torna in un altro suo lavoro, nello specifico: Finitor Mundi ad utilizzare lo smartphone, questa volta, come ideale ponte di luce tra i personaggi messi in scena. Una forte emanazione sanguigna e barocca irrora talvolta di gelidi guizzi e altre volte di rosso cremisi i volti, e ne tramuta i connotati enfatizzando l’immobile drammaticità espressiva. L’oggetto, ormai non più telefonico, si trasforma in una torcia prometeica, in un punto luce d’altrove, smarcandosi dalla sua primaria funzione, per trovare una dinamica carica pittorica. Siamo ben lontani dall’esperienza Bauhaus di László Moholy-Nagy che nei primi anni Venti realizzò Construction Enamel (Telephone Pictures), ossia una sperimentazione sia tecnica che concettuale, dal momento che l’artista comunicò al telefono alla fabbrica di smalti le istruzioni per come realizzare le opere, lavorando proprio sulla distanza tra idea, trasmissione e produzione, ma non possiamo non prendere atto del sempre più diffuso coinvolgimento degli smartphone nella produzione artistica contemporanea.

Il caso Imhof
Nel 2021 l’artista tedesca Anne Imhof porta al Castello di Rivoli (Torino) la sua articolata performance/opera totale (durational performance) SEX. Il progetto comprende dipinti, sculture, oggetti, elementi architettonici, strumenti musicali, il tutto finalizzato a coniugarsi in una estesa ed estenuante performance “musicale” in grado di debordare al di fuori delle mura del museo stesso. In uno stop and go continuo, i giovani performer si alternano in lunghi momenti di stasi e movimenti lenti sino al parossismo, in cui la noia regna sovrana, tanto quanto le attività più diffuse tra i giovani, come lo sfumacchiare sigarette elettroniche e perdersi nel vuoto dei propri pensieri. Il tutto avviene dietro gabbie di vetro, metafore palesi della generazione lockdown, scatenando improvvisamente e caoticamente movimenti spasmodici e convulsi, che culminano in scontri/danza, in headbanging e processioni inattese. Gli sguardi sono persi nel vuoto, in alcuni momenti invece i performer fissano insistentemente il pubblico stipato al muro lungo la lunga Manica del Castello di Rivoli. La presenza tra le opere selezionate dalla Imhof del dipinto di Caravaggio Narciso insiste sulla tematica, profondamente attuale, presa in esame dall’artista tedesca: le nuove forme di narcisismo, la schizofrenia della nostra epoca, il doppio e lo smarrimento del corpo e dell’identità in balia della drammaticità del presente, rappresentato anche dalla presenza ossessiva degli smartphone. La Imhof utilizza i cellulari come oggetto di scena dal potenziale esplosivo; alcuni performer ne portano con sé durante l’intera performance (e con grande difficoltà) cinque, sei, componendoli davanti ai propri corpi inginocchiati, quasi in adorazione, altri li infilano a forza in bocca, quasi a volersi silenziare, in un gesto sintomatico e violentissimo. Ma allo stesso tempo in SEX lo smartphone è il mezzo di comunicazione che connette live l’artista presente durante l’intera performance e i suoi performers. La Imhof in tempo reale agisce modellando l’intera azione, dando continuamente informazioni mentre fluisce l’esibizione. Trattandosi sempre di lavori estremamente estesi nello spazio (spesso avvengono più azioni in spazi lontani gli uni dagli altri) e nel tempo (diverse ore), il pubblico non è in grado di poter effettivamente avere una comprensione totale dell’azione nella sua integrale complessità, ma allo stesso tempo non può resistere all’irrefrenabile desiderio di riprendere ciò che accade e di condividerlo sui social. Questa ricostruzione a posteriori, rimediata, alterata dei singoli intervenuti è un’inevitabile conseguenza delle scelte dell’artista, ma allo stesso tempo è anche un consentire all’opera stessa di continuare a germinare e contaminarsi e prendere forme inattese e svincolate dall’idea di partenza. In tal senso la Imhof riesce a coniugare lo smartphone nella semplice funzione di messaggistica interattiva come oggetto di scena metaforico e infine come estensione della produzione di senso, trasformando il pubblico in protagonista nella ripresa, ricostruzione e diffusione dell’evento.
Nell’epoca del crollo delle certezze e dell’instabilità come fondamento, il “nostro amico smartphone” (come recita una nota pubblicità) ci rassicura, rendendoci ipoteticamente in grado di agire per risolvere qualsiasi questione in qualsiasi momento, ma allo stesso tempo incarna il ruolo di portafortuna, di lacaniano piccolo oggetto (a) che alla fine della fiera dà significato al soggetto. Forse le reliquie del futuro saranno proprio i nostri smartphone, che faranno bella mostra all’interno delle nuove architetture religiose, proprio come alcuni ex voto a forma di cellulare appesi in una cappella di un’antica chiesa del centro storico di Palermo. Ogni strumento è in grado di servire e al tempo stesso assoggettare, qualora chi lo utilizzi non sia in grado di comprenderne appieno il funzionamento. In tal senso la relativa facilità di utilizzo di uno smartphone ci rende immediatamente familiare uno degli strumenti più potenti della nostra epoca, con conseguenze spesso inattese, nocive e svincolate dalla nostra volontà.
Nella produzione artistica lo smartphone è ormai un elemento frequente proprio come nella nostra vita quotidiana, e questa interazione comporta un inevitabile mutamento di cui riusciamo a malapena a intuire i caratteri. Scriveva recentemente il documentarista inglese Adam Curtis: forse ci troviamo in una fase in cui le antiche storie che coglievano il senso del mondo stanno crollando, e in questo momento, prima che emerga un nuovo grande racconto, una massa di trilioni e trilioni di frammenti senza significato precipita nel vuoto, e per un breve periodo storico siamo immersi in un mondo che non ha nessun senso. Fino a quando, in un luogo che non possiamo ancora immaginare, qualcuno inizierà a riassemblare tutti quei frammenti in un modo completamente nuovo, da cui prenderà vita una nuova grande storia.
Articolo fantastico: interessante, pulito, lucido e al contempo finemente esplicativo. Ajello ci accompagna alla presenza dell’opera d’arte e ci descrive cosa sente e vede.
Grazie!