La fine della pandemia, e delle restrizioni sui nostri movimenti negli spazi pubblici, è l’occasione per riflettere su quali siano le mancanze e le lacune che proprio lo spazio pubblico porta con sé.
In copertina un’opera di William Nelson Copley, “Paradise”, del 1959
Questo testo è tratto da “Abitare il vortice” di Bertram Niessen. Ringraziamo Utet per la gentile concessione.
di Bertram Niessen
L’inverno 2021 è stato un lento ritorno alla fluidità della vita. Nel giro di qualche settimana le curve dei contagi hanno iniziato a scendere e le restrizioni si sono allentate. Ma la cosa che ha contato forse più di tutte è stata la noia: dopo un anno dall’inizio di tutto – e due lockdown intervallati da ansie e preoccupazioni di ogni ordine e grado –, un numero significativo di persone ha sentito il bisogno di trovare modi di interagire in presenza con altri esseri umani. E di farlo fuori di casa.
Per diversi mesi ancora bar e ristoranti sarebbero rimasti chiusi; non parliamo poi di musei, cinema, teatri e club. Gli unici spazi disponibili erano le piazze e le strade, nonostante le temperature poco sopra lo zero dell’inverno milanese. Intendiamoci, andava benissimo: qualsiasi cosa, pur di uscire dal perimetro indagato allo stremo delle mura domestiche.
-->Con un paio di amici abbiamo preso l’abitudine di incontrarci alle panchine della piazza a qualche centinaio di metri da casa. Logisticamente era perfetto, di fronte a un supermercato che chiudeva alle nove di sera, pronto per gli approvvigionamenti di birra – a quel punto le code iniziavano a essere solo un ricordo – e con addirittura un bagno a disposizione. La piazza era relativamente frequentata, e passavano spesso altri amici o semplici conoscenti che si fermavano per una birra, una chiacchiera veloce o una sigaretta. Ogni tanto qualcuno arrivava appositamente da più lontano, in bicicletta. Certo, il freddo si faceva sentire. Con la pioggia e l’umidità che a inizio marzo possono dare all’aria della Lombardia, verso sera, un tipico lucore di morte.
Quasi tutti però avevamo esperienze pregresse di vita in città ben più a nord – Berlino, Amsterdam, Oslo, Montréal – dove cinque gradi sopra lo zero e un po’ di foschia sono considerati già quasi primavera. E così abbiamo rispolverato una serie di piccole tattiche di comfort e sopravvivenza imparate altrove: calzamaglie termiche, doppie calze di lana, coperte di pile, solette imbottite per le scarpe, giacche tecniche da outdoor e poncho da montagna.
In pratica, chi passava dalla piazza poteva buttare un occhio su un gruppo eterodosso di persone, tra i trenta e i cinquant’anni, che chiacchieravano bevendo birra in mezzo alla nebbiolina, vestite come per una spedizione di trekking subartico. È stato divertente. Ma anche davvero, davvero strano. Non stavamo vicini come saremmo stati di solito. Cercavamo di tenere una distanza di un paio di metri l’uno dall’altro, riuniti intorno a una panchina. Ci veniva “naturale”. Non avevamo idea di quale fosse il livello di prossimità appropriato da tenere, per noi e per gli altri. Non c’era più l’obbligo di mascherina all’aperto, ma qualcuno la teneva comunque tra un sorso e l’altro.
Tra quelli che si fermavano, alcuni erano palesemente molto nervosi e scambiavano un paio di battute di circostanza aspettando di andarsene. Tutti facevano ampio ricorso alle boccette di gel disinfettante, ma qualcuno le usava ogni dieci minuti, in modo quasi ossessivo. La maggior parte delle persone si salutava con un cenno della mano o dandosi dei colpetti con le scarpe, anche se qualcuno di quelli di passaggio si lanciava in abbracci che prendevano gli altri alla sprovvista, lasciandoli rigidi come tronchi. Se partiva una gocciolina di saliva durante una risata – è una cosa che succede, ma ho iniziato a notarla solo con il Covid – le facce degli altri si contraevano in modo percettibile. Per non parlare degli occasionali starnuti o colpi di tosse, conseguenza inevitabile del freddo umido.
Una volta, un’amica rimasta solo per qualche minuto ha continuato a fissare a terra nervosa. Prima di andare via ha bisbigliato: «Sono un sacco di mesi che non sto così vicina a qualcuno che non sia della mia famiglia».
Nello stesso periodo ho incontrato un amico appena rientrato da Brindisi dopo un paio d’anni; anche lì avevano avuto la loro dose di zone rosse, malati e restrizioni, ma era più che evidente che il modo di affrontare le cose per lui era stato molto diverso. Non era un negazionista del virus, né uno scettico, né tantomeno una persona che non si cura delle preoccupazioni del prossimo. Tutto il contrario. Eppure, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a qualcuno appena uscito da una macchina del tempo. A un bar che faceva solo consegne da asporto non ha nemmeno guardato la linea a terra di distanziamento dal bancone, a cui si è appoggiato per parlare senza mascherina a poche decine di centimetri dal volto di un barista con la ffp2 e i guanti che lo fissava con gli occhi di fuori.
Ognuno ha collezionato decine di episodi simili. Non sono solo aneddoti, ma indicatori chiari e precisi di una serie di incrinature – più o meno profonde – negli spazi pubblici delle città.
Esistono molti modi diversi di pensare lo spazio pubblico, a seconda che si guardi ad aspetti come la proprietà (pubblica, privata o bene comune), l’accessibilità (a molte aree di proprietà̀ pubblica è interdetto l’accesso per motivi di salvaguardia o sicurezza, a differenza per esempio dei centri commerciali) o le forme d’uso (le piazze incorporate nei grandi supermercati, per esempio, vengono utilizzate dalle persone per attività̀ individuali e di gruppo).
Negli anni, gli studi hanno attribuito un’importanza sempre maggiore alla natura pubblica dell’attività negli spazi urbani dal punto di vista della sensazione di sicurezza personale, anche in relazione ad alcune variabili sociali che producono disuguaglianze. Il genere, per esempio, influenza in modo estremamente significativo il grado di libertà e i modi in cui le persone si sentono o meno a proprio agio in determinate aree delle città. Spostarsi di notte, per le donne, implica spesso una serie di considerazioni, accortezze e strategie relative all’incolumità personale che molti uomini non si troveranno mai a dover affrontare. E in molti casi, in modi più sottili, anche il grado di libertà esperibile durante il giorno non può essere comparato.
Lo stesso vale (con parametri e traiettorie diverse) anche per le persone lgbtq+, che non a caso nel corso del Novecento hanno costruito sulla realizzazione di “aree sicure” una parte importante delle proprie relazioni comunitarie, così come della propria emancipazione personale e politica. Ritagli di città, che però non possono bastare. La sensazione di sentirsi più o meno esposti – più o meno a rischio – è influenzata anche pesantemente dal colore della pelle e da altri tratti somatici che possono richiamare comportamenti xenofobi e razzisti. Da questo punto di vista, insomma, quando si ragiona in termini di spazio pubblico ha allora senso chiedersi: “pubblico per chi”?
Da un altro punto di vista, un luogo assume la caratteristica di spazio pubblico in relazione alla sua capacità di essere vissuto come luogo dell’imprevisto. In questo senso, uno spazio è tanto più pubblico quanto più è in grado di essere abitato da persone, gruppi, comportamenti non previsti e non prevedibili. Questo non può che avvenire attraverso una costante tensione, di volta in volta inclusiva o conflittuale, che negozia le prescrizioni su “ciò che è lecito fare” in funzione degli usi che lo attraversano.
Proprio nei giorni della reclusione domestica del primo lock-down continuava a girare tra le mie reti una brevissima animazione (sul cui autore purtroppo non sono riuscito a recuperare informazioni): sullo sfondo di un foglio bianco era tratteggiata con un segno pulito e veloce una panchina, mentre in un angolo un orologio segnava le ore; nel corso della giornata, sulla panchina si succedevano anziani che leggevano il giornale, persone che facevano sport, genitori con i figli piccoli, ragazzini che giocavano, lavoratori in pausa pranzo, giovani con birre e sigarette, coppie che si baciavano, senzatetto che dormivano. Al netto dell’inevitabile romanticizzazione un po’ naif, credo che la diffusione dell’animazione in quei giorni fosse il sintomo della mancanza di qualcosa di estremamente importante: la fame di vivere spazi non predeterminati.
Il posto che il disordine assume nella vita delle città è al centro della riflessione di uno dei sociologi più rilevanti degli ultimi decenni. All’inizio degli anni settanta, in Usi del disordine, Richard Sennett si occupò di come la varietà e la densità delle esperienze urbane possano contribuire a produrre un’atmosfera sociale meno normativa, nella quale individui e gruppi sociali sono spinti a considerare le proprie identità in modi meno assoluti e più soggetti al confronto e all’ibridazione. Alla fine degli anni dieci, Sennett ha ripreso molte delle intuizioni relative al rapporto tra città e disordine in un testo scritto a quattro mani con l’architetto Pablo Sendra. Assieme, i due si sono interrogati su come attualizzare il posto del disordine in città nelle quali il mercato immobiliare e un’idea di città sempre più normativa tendono invece a codificare, ingabbiare e omogeneizzare ogni tipo di relazione tra le forme del costruito e i comportamenti sociali che le attraversano. Il risultato di quest’indagine è un piccolo volume che cerca di immaginare nuove infrastrutture che accolgano e valorizzino il disordine. Spazi aperti in grado di formare ed essere formati da processi e flussi, aperti dal punto di vista degli sviluppi materiali e da quello della generazione di senso.
Si trattava di una questione urgente già prima della pandemia. Molte delle dinamiche che hanno dato forma alle città della deindustrializzazione, della terziarizzazione e della gentrificazione (le dinamiche, insomma, che abbiamo preso in considerazione nella prima parte di questo libro) hanno contribuito a fissare saldamente gli usi dello spazio, sterilizzando programmaticamente le contaminazioni sia sul piano sociale che su quello simbolico. Si tratta di una tendenza di lungo corso che vede l’ossessione per il disciplinamento dello spazio urbano, prima di tutto sul piano estetico. La città immaginata negli ultimi decenni è sempre più simile a un rendering – pulita, ordinata e sterile – e le persone che la attraversano sono pensate sempre di più in modo monodimensionale. Esattamente come le figurine che compaiono nei rendering, vengono relegate a un singolo ruolo sociale per volta: lavoratore, genitore, passante. Non si tratta solo di rappresentazioni nei prospetti immobiliari, quanto di un vero e proprio ordine estetico che si è fatto ideologia. La visione soggiacente è che la strada debba essere come la casa. E il modello di casa di riferimento è alla fine sempre quello tradizionalmente borghese: linda, ordinata, in cui tutto ha un posto assegnato e in cui ogni azione si svolge in uno spazio prescritto, di volta in volta funzionale o di rappresentanza.
È una concezione della città che contempla solo due estremi possibili. Da un lato, lo spazio vetrina senza cartacce e dai muri intonsi, nel quale all’ordine estetico corrisponde didascalica- mente l’ordine morale. Dall’altro, lo spazio del degrado fatto di spazzatura ovunque e muri ricoperti di scritte oscene, dove l’incuria viene considerata il sintomo evidente di degrado umano e criminalità potenziale.
Nella pratica, sappiamo benissimo che non è così, e che molte città caratterizzate anche da uno spazio pubblico disordinato e contraddittorio – da Berlino a Madrid – hanno in realtà una straordinaria qualità della presa in carico individuale e collettiva di ciò che in quegli spazi accade. E che, molto spesso, proprio nelle aree più sterilizzate delle città l’indifferenza per il prossimo tende ad aumentare e la percezione della sicurezza a crollare.
È all’interno di questa vocazione al vuoto delle relazioni urbane che prende compiutamente corpo la retorica del decoro. Una «buona educazione degli oppressi» – titolo di un interessante libro del saggista Wolf Bukowski – spacciata come cura dello spazio condiviso, che ha però il fine ultimo di consolidare le barriere sociali e perpetrare lo status quo, vincolando i modi consentiti di abitare lo spazio alle posizioni di potere nel rapporto tra chi ha molto e chi ha poco. L’ossessione per il decoro ha conquistato sempre più spazio nei discorsi sulla città – di pari passo, verrebbe da ipotizzare, con l’invecchiamento generale della popolazione. Da argomento relegato ai salotti di una certa borghesia reazionaria si è fatta strada attraverso le lettere indignate alle sezioni locali dei quotidiani, i programmi televisivi populisti e le pagine di quartiere sui social network, fino a divenire un cavallo di battaglia cavalcato dai politici della destra e inseguito – con l’ormai consueto autolesionismo – dai politici del centrosinistra.
A tratti, sembra che il discorso sul decoro non abbia solo connotati culturali e politici, ma anche strettamente psicanalitici. Quando leggo le storie di murales storici cancellati per eccesso di zelo da gruppi di volontari del decoro – come quello per Valerio Verbano a San Lorenzo a Roma o quelli di Pao in via Cesariano a Milano – non posso fare a meno di immaginare scorci di vite private segnate dalla rupofobia (la paura incontrollata delle macchie) e da disturbi ossessivo-compulsivi che spingono a lavarsi le mani fino alla scarnificazione. Ma forse – più semplicemente – si tratta di una pulsione che vuole ogni parte della città come un quartiere suburbano di villette a schiera, e che non è disposta ad accettare le città per quello che sono e sono sempre state: un incontenibile ricettacolo di casino.
La pandemia ha esasperato questa situazione, portandola in alcuni casi al parossismo. Sotto la pressione delle restrizioni, anche gli insospettabili hanno aderito alla nevrosi collettiva per il disciplinamento dei comportamenti altrui. Nel tentativo di dare un senso a quello che stava accadendo, in molti si sono aggrappati ai limiti legali e simbolici stabiliti dalle restrizioni, trovando nel biasimo dei trasgressori attraverso i media – nuovi e vecchi – una nuova forma di coesione valoriale. La punizione di chi oltrepassa i limiti socialmente stabiliti – il capro espiatorio – è qualcosa di talmente diffuso tra società ed epoche diverse da poter essere ritenuto una sorta di universale culturale. Durante i lockdown si è attualizzata sia in un nuovo rito domestico – affacciarsi ai balconi per additare e veder punire i trasgressori – sia in un nuovo genere di reportage: l’intervento autoritario di persone, elicotteri e droni contro bagnanti e runner solitari.
Questa carica di violenza simbolica non è poi scomparsa nel nulla. Al contrario, è evidente che in molti contesti gli spazi pubblici sono divenuti luoghi sempre più complicati: più difficili, più conflittuali, in alcuni casi meno sicuri. Non sarebbe stato possibile altrimenti.
Per loro stessa natura, gli spazi pubblici sono palcoscenici sui quali vengono rese evidenti le tensioni che attraversano la società e la vita delle persone, in particolar modo quella di chi subisce disuguaglianze e ingiustizie. E quindi non stupisce che l’uso delle piazze da parte dei giovani causi conflitti, di solito convenientemente rubricati sotto la voce “mala movida”. I giovani sono stati tra le categorie meno considerate fin dall’inizio della pandemia, e hanno dovuto adeguarsi a pesanti restrizioni sociali proprio in quel periodo della vita in cui le relazioni sono più importanti. Così come non sono state adeguatamente supportate le agenzie di socializzazione che in quel periodo avrebbero dovuto supportarli, a partire da famiglie e istituzioni scolastiche.
E non stupisce che chi vive condizioni di marginalità sia sempre più visibile, perché molti di quelli che erano sul limite – della povertà, della malattia, dell’esclusione, della dipendenza – quel limite l’hanno abbondantemente superato, e non sempre hanno la buona educazione di starsene al riparo dagli sguardi del resto della città. Anche perché – come hanno mostrato i sociologi Alessandro Dal Lago e Emilio Quadrelli nella loro etnografia dei mondi criminali di Genova La città e le ombre – la città della devianza e quella (apparentemente) della legge non sono mai completamente separate, ma vivono l’una attraverso l’altra, in uno scambio costante di simboli, rituali, beni e servizi. E allora scoprire e costruire nuove dimensioni dello spazio pubblico negli anni a venire passerà inevitabilmente dalla messa in evidenza sempre maggiore di queste tensioni, che non potranno più essere negate, rimosse, spazzate sotto il tappeto.
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