Il campo letterario sta vivendo un momento di grave mutazione: da un lato la critica trova sempre meno spazio sui giornali; dall’altro, la rete sopperisce come può a questa chiusura. A partire da tali riflessioni, abbiamo pensato di realizzare una grande inchiesta: raccolti sessantasei critici, gli abbiamo posto quattro domande su questioni chiave intorno al romanzo italiano e alla critica stessa.
In copertina e lungo il testo: opere di Alberto Burri
Due idee, decisamente concrete, si aggirano per il campo letterario: che ci sia sempre meno spazio per la critica nei medium tradizionali, e che la rete stia sopperendo a questa mancanza, ancorché secondo modalità differenti. Con L’Indiscreto abbiamo allora pensato di incrociare questi due spunti e realizzare una grande inchiesta, convocando i maggiori critici militanti italiani, poi i giovani accademici già convocati da La Balena Bianca per la sua riflessione sui romanzi italiani del decennio passato, e ancora vari giornalisti culturali, scelti tra coloro che hanno lavorato con maggior qualità e consistenza sulla letteratura italiana contemporanea, e abbiamo posto a tutti loro quattro domande su questioni che reputiamo di grande attualità e rilievo intorno al romanzo italiano e alla critica stessa.
L’articolo sarà pubblicato in quattro parti, una per ogni domanda, da oggi fino al 10 gennaio. Per completezza riporteremo in ogni post le quattro domande; quella a cui rispondono ogni volta i critici sarà in grassetto.
1) Scrisse, attraverso un suo personaggio, Pynchon, che nel secolo a venire la critica letteraria sarebbe stata ancor più importante perché si sarebbero prodotti più libri per meno lettori, e dunque la funzione d’indirizzo dei lettori e selezione del canone sarebbe stata decisiva. Concorda? Come crede debba essere interpretata, oggi, questa funzione? Come può reagire la critica al paradosso dell’aumento della sua utilità rispetto alla diminuzione pratica degli spazi espressivi?
2) In un altro ampio pezzo di cui sto raccogliendo i contributi – e in cui gli interpellati sono gli scrittori – sto trovando conferma al fatto, di per sé intuibile, che molti dei nostri scrittori contemporanei abbiano trovato le proprie stelle polari in libri di scrittori esteri, spesso letti in traduzione, più che del canone italiano, e quasi sempre in romanzi (esistendo del resto canoni più forti del nostro in questo specifico genere). Quali crede che siano gli effetti di questa crescente globalizzazione delle influenze?
3) Uno dei dibattiti letterari che emergono ciclicamente è quello intorno alla possibilità (o all’esistenza) di un “grande romanzo italiano”, con particolare riferimento alla letteratura italiana successiva alla Seconda Guerra.
Prima di tutto: a suo avviso un GRI è possibile? Se no, perché? Se sì, di cosa cosa potrebbe o dovrebbe parlare un “grande romanzo”, e in che modo?
A suo avviso ci sono libri che possano meritare il titolo? Se sì, quali? Se no, considerando che nelle altre maggiori tradizioni letterarie si possono indicare più candidati, crede che ciò si debba all’assenza, nella nostra letteratura, di una tradizione forte in questo senso, e quindi della minor disponibilità di modelli?
È plausibile che, nella sopravvenuta egemonia del romanzo (almeno nelle forme scelte da chi scrive) e nella globalizzazione delle influenze si arrivi al superamento di tale limite?
Dall’altro lato, non dovrebbe forse un qualunque “grande romanzo” farsi già trans-nazionale? (vengono alla mente, come esempi tra i più immediati e recenti, coincidenti con altrettanti “grandi romanzi” di autori esteri, I detective selvaggi e 2666 di Roberto Bolaño, Europe central di William T. Vollmann, Abbacinante di Mircea Cărtărescu, Austerlitz di W.G. Sebald)
-->4) Nella rassegna Da zero a dieci, la rivista letteraria “La balena bianca” ha chiesto a dieci giovani critici italiani di indicare quelli che a loro avviso sono i libri del decennio passato. È emersa una lista* in cui, al netto delle menzioni multiple, figurano circa quattro romanzi (un quarto dei quali “ibridi”) per ogni raccolta di racconti o prose. Una proporzione meno favorevole al romanzo di quella espressa dall’editoria in sé, ma che comunque riflette una decisa egemonia di tale forma. Che riflessioni le ispira questa proporzione?
Commenti (o integrazioni) alla lista?
* Alajmo, Notizia del disastro; Ammaniti, Io non ho paura; Arminio, Vento forte tra Lacedonia e Candela; Bortolotti, Tecniche di basso livello; Bugaro, Il labirinto delle passioni perdute; Busi, Casanova di se stessi; Busi, Un cuore di troppo; Camilleri, La presa di Macallè; Camilleri, La gita a Tindari; Casadei, Il suicidio di Angela B.; Eco, Baudolino; Falco, L’ubicazione del bene; Franchini, L’abusivo; Franchini, Cronaca della fine; Frasca, Dai cancelli d’acciaio; Frasca, Santa mira; Genna, Assalto a un tempo devastato e vile 3.0; Genna, Dies irae; Giordano, La solitudine dei numeri primi; Janeczek, Le rondini di Montecassino; Jones, Sappiano le mie parole di sangue; Lagioia, Riportando tutto a casa; Labranca, Neoproletariato; Mari, Verderame; Mari, Tu, sanguinosa infanzia; Moresco, Gli incendiati; Mozzi, Fiction; Murgia, Accabadora; Parente, Contronatura; Parrella, Mosca più balena; Pascale, Ritorno alla città distratta; Piccolo, La separazione del maschio; Pincio, Un amore dell’altro mondo; Pincio, Lo spazio sfinito; Pontiggia, Nati due volte; Pugno, Sirene; Raimo, Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro?; Rastello, Piove all’insù; Ricci, L’amore e altre forme d’odio; Santacroce, V.M.18; Santoni, Personaggi precari; Sarasso, Settanta; Saviano, Gomorra; Siti, Troppi paradisi; Siti, Il contagio; Siti, Autopsia dell’ossessione; Starnone, Spavento; Trevi, Senza verso; Trevi, L’onda del porto; Trevisan, Grotteschi e arabeschi; Trevisan, Tristissimi giardini; Tuena, Ultimo parallelo; Vassalli, Archeologia del presente; Vasta, Il tempo materiale; Vasta, Spaesamento; Virgilio, Porno ogni giorno; Wu Ming 1, New thing; Zanotti, Bambini bonsai (più: Mazzantini, Venuto al mondo; Moccia, Tre metri sopra al cielo; Panarello, 100 colpi di spazzola, inseriti da Marrama come esempi negativi).
Le risposte alla quarta domanda:
Simone Barillari:
Sappiamo tutti, naturalmente, che una letteratura minore come quella italiana non può generare decine di titoli degni di memoria in un decennio, nemmeno calcolando generosamente un decennio come gli undici anni dal 2000 di Nati due volte al 2010 degli Incendiati. Quanti di questi 58 titoli, allora, daremo da leggere ai nostri figli? Forse una dozzina, probabilmente meno – e gran parte di quelli, i soli che importano, sono senz’altro in questa lista.
Tra quelli di cui si sente l’assenza il libro-elefante in questa stanza con qualche topolino è senz’altro I canti del caos. Capolavoro o catastrofe che sia, quel libro corrisponde a un lungo quindicennio di ambizione nella vita di uno dei pochi autori italiani di sicura posterità – I canti del caos sono il Finnegans Wake, si parva licet, di Antonio Moresco, il brutale corpo a corpo di un grande scrittore con la sua lingua madre e meretrice. Fallisce, forse – ma è meglio per un uomo fallire nell’impossibile che riuscire nell’inutile.
Altro vistoso vuoto, nell’affollata foto di gruppo, è il volto appuntito di Claudio Magris: Alla cieca, quest’opera scolpita nell’alabastro, è valsa la più solida candidatura di un italiano al Nobel per la letteratura in questo primo scorcio del XXI secolo.
Terzo e terribile assente è Aldo Nove, con uno dei memoir più nudi, disperati e violenti della letteratura italiana come La vita oscena (2010).
A margine di questo trittico, segnalo quello che è veramente un «libro unico», come li chiamava Bazlen (e scrivere di libri unici è compito fondamentale di ogni critico in questi tempi così comuni): Terra matta di Vincenzo Rabito è l’autobiografia di un vecchio bracciante semianalfabeta che trova una lingua tutta sua nell’urgenza di dire la propria vita prima che finisca, e quel discorso appare come un miracoloso fossile del linguaggio, come il primordiale scheletro della lingua prima che evolva una sua grammatica.
Altri assenti ingiustificati, sia per la loro statura assoluta sia nel confronto con i presenti, sono due romanzieri di grande forza ed esperienza come Scarpa (Stabat Mater) e Veronesi (Caos calmo e La forza del passato), ma anche tra i presenti alcuni dovrebbero comparire maggiormente in primo piano: Michele Mari, questo sommo solista della lingua italiana, figura nel catalogo con due sole opere (una delle quali, Tu, sanguinosa infanzia, è del 1997, dato che l’edizione Einaudi del 2009 non presenta variazioni!), quando ha composto in quegli anni Rosso Floyd e Tutto il ferro della Torre Eiffel; Filippo Tuena, invece, non si vede riconosciuto il più originale e temerario dei suoi due romanzi di quella decade, Le Variazioni Reinach. Scendendo ancora, mi chiedo se possiamo escludere, specie alla luce di tante dubbie inclusioni, un lottatore metafisico come il Tonon del Nemico, Piperno e Scurati alle loro prime prove di valore (Con le peggiori intenzioni, Il sopravvissuto) e due pazienti intagliatori di racconti come Longo (Dieci) e Varvello (L’economia delle cose).
L’incongruenza dell’arca non è dovuta solo ai sommersi, ma soprattutto ai salvati – ai salvati a fronte dei sommersi. La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, davvero? Mosca più balena di Valeria Parrella? E New Thing? Addirittura due libri dell’onesto e ovvio Camilleri? Ma usurpano il loro posto, a mio modesto giudizio, anche Murgia e Piccolo e addirittura Saviano (senz’altro una mia ubbia, perché Gomorra è ormai saldamente impiantato nella letteratura di questo Paese come un Cuore nero – Cuore e Gomorra sono i nostri due grandi romanzi popolari perché rappresentano i due lati attigui dell’anima italiana, la chiesa e la mafia).
Mi chiedo anche, senza polemica, cos’abbia spinto qualcuno a contrapporre ai migliori scrittori italiani del decennio tre mestieranti del bestseller come Mazzantini, Melissa P. e Moccia: una critica, a volte, è una legittimazione immeritata. Sarebbe stato molto meglio lanciarsi in qualche battaglia donchisciottesca contro i giganti del mainstream, contro i mulini a vento del midcult, che invece non sono stati attaccati, e con cui a volte si è anche stretta alleanza.
Infine un ultimo appunto. Avrei voluto che la letteratura fosse cercata più spesso lontano da romanzi e racconti, com’è stato fatto giustamente, per esempio, per Tecniche di basso livello di Bortolotti, temprato nel perfetto punto di fusione di prosa, poesia e saggio. Avrei voluto vedere qualche saggio di Calasso (K., magari, o L’ardore), e la superba Vita bassa di Arbasino, per la stessa ragione per cui additiamo i saggi degli Imperdonabili di Cristina Campo come una vetta della letteratura del Novecento. E avrei voluto vedere riconosciute come opere di letteratura italiana alcune supreme traduzioni come l’Ecclesiaste di Ceronetti (specie nella versione del 2006 per Adelphi), il Kipling di Fatica o qualche alto esito di Perroni. La letteratura è uno degli dèi che sono fuggiti dal mondo, come dice Hölderlin, ma proprio per questo, credo, «dobbiamo guardare nell’Aperto, e cercare ciò che è nostro» anche lontano da dove è sempre stato.
Renato Barilli:
Quarto. Per la stessa ragione trovo che i narratori di oggi si presentano meglio quando affrontano il racconto piuttosto che il romanzo a tutto tondo. Mi limito a citare alcuni casi ben rappresentativi di questa realtà. Luigi Malerba è decisamente superiore quando si presenta da noi con raccolte di brevi narrazioni. Antonio Tabucchi ha sempre lamentato la sua incapacità a sollevarsi proprio alla dimensione della narrazione corposa e continua, ma d’altra parte i suoi racconti sono il meglio della sua produzione. E lo stesso si può dire anche di un narratore tra i migliori dell’ultima generazione, Mauro Covacich. Purtroppo c’è un pregiudizio in senso contrario, per esempio proprio il narratore triestino in un recente Premio Strega si è visto anteporre un più giovane concorrente, il Lagioia, in quanto quet’ultimo si presentava con un corpaccio enorme e congestionato. La cosa ricorda un poco quanto accadeva, nel territorio della pittura, ai famosi Salons parigini, in cui non ci si poteva presentare con quadretti di paesaggio, occorrevano le tele poderose e ridondanti. In ogni caso, mai fissarsi come un obbligo la pretesa di produrre “in grande”, meglio poco e bene che molto e male.

Mario Baudino:
Mi sembrano tutti libri di cui si è discusso, dunque implicitamente accolti nel canone – discorso diverso andrebbe fatto per Pontiggia, che definirei un maestro del Novecento. È ovvio che siamo di fronte a una lista di opere diseguali e anche difficilmente comparabili. Per comprensibili ragioni non dico (quasi) nulla del Suo, di libro, e cioè Personaggi precari, che ha un tasso d’innovazione molto significativo. Aggiungerei – mi pare che le date ci stiano, e ogni elenco è passibile di correzione personale – senza che ciò abbia poi un grande significativo, ovvero sposti in modo significativo la prospettiva – Terre del mito di Giuseppe Conte (che è un saggio narrativo e romanzesco), Caos Calmo di Veronesi, Acciaio di Silvia Avallone, Troppa umana speranza di Alessandro Mari, Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno e Il mangiatore di pietre di Davide Longo. In molti casi anche qui si tratta di esordi. Mentre per quanto riguarda Paolo Giordano mi pare che abbia trovato il suo libro più vero, e il suo linguaggio, in Il corpo umano (che però esula dal decennio, essendo del 2012). Quanto alla proporzione, non resta che tornare a ciò che si era detto sul romanzo: essendo una forma letteraria “spugnosa” non può che assorbire tutto, e dunque riproporre instancabilmente se stesso in un continuo gioco combinatorio, un po’ come accade per il mito, almeno secondo la classica teoria di Levi-Strauss, secondo cui l’immenso materiale delle narrazioni è riconducibile a una serie limitata di “pezzi” o atomi narrativi e metaforici.
Diego Bertelli:
Mi sembra una lista incompleta o forse sovrabbondante e, allo stesso tempo, una lista più che accettabile. Personalmente, sottoscriverei la metà di queste scelte. Non ho però alcun interesse a presentare un controcanone o a far le pulci a ciò che è venuto fuori dalle proposte elencate. Le classifiche dei dieci anni sono buone per le pagine culturali dei quotidiani, ma la costruzione di un canone ha bisogno di tempo per cominciare ad avere senso, perché bisogna stabilire una periodizzazione in funzione di un determinato contesto culturale, mettendo in luce cause ed effetti storici che stanno alla base dell’affermazione e dell’interesse di un pubblico (e della critica) per un determinato libro. L’editoria come contarla in tutto questo? Anche qui bisognerebbe dapprima distinguere: major, indipendente… Il presente è magmatico e senza una maggiore distanza (e prospettiva), possiamo fare le liste che vogliamo, consapevoli che nel presente la sorte dei libri, come diceva Leopardi, è paragonabile a quella degli insetti chiamati «efimeri […] esseri di un giorno». Perché da quando esiste la società di massa, esiste di necessità una produzione di massa che fa convivere quello che si pensa sia il trend del mercato con le proposte più interessanti e capaci di mettere insieme “ricerca” e “tradizione” (metto le virgolette perché per me entrambe rimangono allo stesso tempo non-categorie).
Federico Bertoni:
La polarità tra romanzo e racconto ha tutta una sua tradizione, sia a livello di storia letteraria che di riflessione teorica. Ovviamente è impossibile ripercorrerla qui, ma vale la pena di ricordare che una certa debolezza endemica del romanzo in Italia è stata spesso compensata dal lavoro di grandi novellieri: Verga, Pirandello, Tozzi, lo straordinario Svevo degli ultimi racconti, Landolfi, Primo Levi ecc. Esemplare, di nuovo, il caso di Gadda, che a volte fa esplodere i suoi progetti romanzeschi e ne raccoglie i cocci in volumi di racconti o “disegni”. Poi c’è Calvino, scrittore di short stories per vocazione, che contrabbanda come romanzi (Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili, lo stesso Viaggiatore) assemblaggi “modulari” di racconti o tasselli narrativi. E anche Manganelli si muove spesso in questa direzione. Sul trend attuale di editoria e pubblico non ci sono dubbi: lo strapotere del romanzo è indiscusso, e infatti solo quando sono in gioco i giudizi di scrittori, critici o studiosi – minoritari per statuto – la proporzione si riequilibra lievemente a favore delle forme brevi. Capita anche nelle giurie dei premi letterari: quando riesci a mandare in finale una raccolta di racconti o prose narrative ti senti un po’ come gli avanguardisti della prima ora, sprezzanti contro mercato e pubblico borghese, sapendo benissimo che la giuria popolare la stroncherà senza appello.
Nell’egemonia commerciale e simbolica del romanzo colpisce anche un altro dato tipico di questi anni: il ritorno a libri lunghi, spesso ipertrofici, magari inseriti in cicli romanzeschi, trilogie o tetralogie, con una netta inversione di tendenza rispetto al trend minimalista degli anni Novanta e un apparente conflitto con le forme della percezione e le modalità di attenzione sempre più rapide, frammentate e pulviscolari del nostro ecosistema mediale. In effetti sembrano passati secoli dal 1979 di Se una notte d’inverno un viaggiatore, quando Calvino notava che “i romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono”. È un fenomeno globale, analizzato ad esempio da Stefano Ercolino in un bel saggio intitolato Il romanzo massimalista, che però incide evidentemente anche in Italia, dalla trilogia L’increato di Moresco a Dai cancelli d’acciaio di Frasca, dalle Cose semplici di Doninelli alla Scuola cattolica di Albinati, fino all’ultimo Scurati cronista di Mussolini (primo volume di un’annunciata trilogia) e perfino al Cavazzoni distopico della Galassia dei dementi. Ci vorrebbe forse una ricerca sistematica, attenta alla singolarità dei casi individuali ma supportata anche dagli strumenti dell’economia e della sociologia della letteratura, per capire dove finisce il fenomeno commerciale (in questo conforme, ad esempio, al successo delle narrazioni seriali) e dove inizia qualcos’altro, tra sostrato ideologico e pressioni dell’immaginario, magari in rapporto non casuale con le questioni discusse prima (il grande romanzo, la ricerca di una nuova epica, ecc.). Ma appunto sarà per un’altra volta.
Nessun commento particolare sulla lista, che ovviamente ha alti e bassi, salvo un pensiero per Paolo Zanotti. Lui certo non avrebbe mai scritto il Grande Romanzo Italiano, non era proprio il tipo. Ma era un grande scrittore.
Giovanni Bitetto:
Il romanzo è la forma prediletta dei nostri tempi non per la sua flessibilità, ma al contrario per la sua coesione. Il romanzo è un contenitore, una cornice, la cosa che lo tiene insieme è appunto la sua forma, non il contenuto. Per questo il romanzo può arrivare a sconfessare se stesso, assorbendo in sé addirittura altri generi come il saggio, il reportage, il memoir, il prosimetro. Il romanzo non ha egemonizzato la letteratura, ha egemonizzato la vita. D’altronde la narrazione che facciamo di noi sui social o nel contesto pubblico non è nient’altro che una fusione fra realtà e finzione, fra accaduto e percepito. La nostra vita è un romanzo, per alcuni mediocre, per altri sentimentale, per altri ancora avventuroso. E poi il romanzo è ubiquo, si sfilaccia nel tempo e nello spazio, estende i suoi gangli – la propria coesione simbolica – oltre i confini della narrazione. Il racconto e la poesia non fanno altrettanto, operano in profondità, si mostrano come carotaggi del reale o come effigi, non si distendono sulla superficie come macchie di petrolio. In questo senso il decennio appena trascorso è stato decisivo nel dimostrarci che è impossibile scindere realtà e finzione. Nella prima parte del decennio gli scrittori italiani si impegnavano ad aggiornare gli strumenti cognitivi della letteratura, sperimentando nuovi modi di coniugare forma e finzione – e in questo senso si ponevano in continuità con la letteratura postmoderna degli anni Novanta. Nella seconda parte del decennio la produzione italiana ha visto una riflessione sul contenuto: calibrati gli strumenti si trattava di esprimere il reale attraverso la fusione tra fatti e finzione, da qui il dominio del romanzo di genere e soprattutto dell’autofiction. Il canone qui tradotto si rivela più o meno esaustivo, di mia mano aggiungerei Le variazioni Reinach di Filippo Tuena, perché riprende prima di altri la lezione di Sebald sul documento e la coniuga al topos della morte del padre così presente nella letteratura contemporanea, e poi i Canti del caos di Antonio Moresco, perché si pone come momento centrale di una delle esperienze epiche più significative della letteratura italiana.
Claudia Boscolo:
L’unica cosa che posso dire è che su quarantanove nomi totali solo sei sono di scrittrici e di queste sei, due sono citate come esempi negativi. Mi pare sufficiente per dare l’idea di quanto i/le giovani critici/he italiani/e siano incapaci di considerare la scrittura in prosa come uno dei possibili mezzi espressivi di istanze artistiche universali e continuino invece a considerarla come l’espressione di una visione unilaterale del mondo. A scuola si insegna il punto di vista a ragazzini di quattordici anni. I miei alunni appena adolescenti sanno riconoscere un discorso sessista. Gente con prestigiosi dottorati di ricerca, anche giovani donne, con post-doc e con incarichi di insegnamento in università italiane ed estere, con ci riesce. Direi che non c’è molto da aggiungere. Spero solo che l’agonia della critica italiana non sia troppo lunga.
Domenico Calcaterra:
Il romanzo è vivo, ma più straordinariamente vivo che mai è il saggismo o comunque le cosiddette forme ibride di scrittura (penso a libri a metà tra romanzo e critica, personal essay e inchiesta tematica, perseguite, in questi ultimi anni, da scrittori pur diversissimi tra loro come, tra gli altri, Massimo Onofri o il già citato Fabrizio Coscia). Oggi, ribadisco, è la critica che tende, più o meno consapevolmente, a farsi romanzo: si pensi al bel libro di Andrea Caterini Vita di un romanzo (2018), storia di una mente a lavoro (luogo privilegiato e «mezzo» per eccellenza), tentativo di autoagnizione in pubblico (e dove l’autobiografia si tiene insieme alla detection critica).
I grandi assenti della lista mi pare siano due: Francesco Permunian ed Emanuele Tonon, entrambi per l’opera nel complesso e la ricerca di una cifra, una voce riconoscibile.
Christian Caliandro:
Il romanzo è la forma letteraria più resistente, in grado di evolvere, di ibridarsi, di trasformarsi. La sua grande versatilità è all’origine della sua capacità di sopravvivere e di raccontare il presente. La lista ci dice come nello scorso decennio proprio questo racconto del presente – condotto con strumenti e da punti di vista diversissimi tra di loro – sia stato al centro dell’attenzione della gran parte degli autori. A livello sia nazionale che internazionale, la fusione di diversi approcci e generi (fiction, autofiction, cronaca, memoir) ha consentito di costruire forme interessanti e nuove, all’insegna della conquista un realismo articolato e all’altezza dei tempi nella letteratura italiana, in grado di misurarsi ad armi pari con le altre letterature; conquista che questo decennio sta confermando ampiamento.

Mimmo Cangiano:
Dovrei ripetere quanto detto in precedente sulla formazione storica del romanzo. Siamo ancora nell’ombra della sua egemonia perché siamo ancora nel sistema economico-sociale che ha visto la sua progressiva formazione e trionfo. Dalla lista secondo me mancano, per motivi diversi o addirittura opposti, Valerio Evangelisti e Leonardo Pica Ciamarra.
Maria Teresa Carbone:
A parte il fatto che sarebbe stato interessante specificare anche le menzioni multiple, non mi pare strano che nella rassegna Da zero a dieci il romanzo emerga come egemone rispetto ai racconti o alle prose. Sarebbe semmai stato singolare il contrario, visto appunto quanto quella cosa a cui diamo nome romanzo prevalga rispetto alle – in fondo molto meglio definite e definibili – raccolte di racconti. Fra le assenze che mi dispiacciono nell’elenco della “Balena bianca”, sicuramente Ogni promessa di Andrea Bajani.
Giuseppe Carrara:
La prima riflessione da fare, mi sembra, debba partire proprio dai numeri e dalle menzioni multiple: il primo dato macroscopico da notare, infatti, è che alcuni autori (Siti, Vasta, Pugno, Falco, Mari) sono menzionati da molti dei partecipanti al sondaggio. Walter Siti compare addirittura dieci volte su dieci, Vasta sei, Mari, Pugno e Falco cinque. In parte, questa scelta conferma alcune cose emerse dall’indagine sul canone futuro fatta da “Orlando Esplorazioni” qualche anno fa. Sembra che i critici della mia generazione (e chi scrive è d’accordo con loro) siano abbastanza concordi sul fatto che almeno Walter Siti e Michele Mari siano autori che a pieno titolo debbano entrare nel canone e rimanerci. Ma a fronte di questi pochi nomi (a cui possiamo aggiungere Saviano, Bortolotti e Franchini, che compaiono in quattro liste, e Pontiggia e Busi, citati entrambi tre volte), ce ne sono moltissimi altri che compaiono soltanto una volta. L’ovvia conseguenza, mi pare, è che ci siano pochi nomi (circa 5 su 50) che riescono a mettere d’accordo almeno la metà dei critici interpellati dalla “Balena bianca”, per il resto navighiamo in un mare di scritture e di idiosincrasie sulle quali è sempre più difficile stabilire delle assiologie. Io stesso, nel redigere la mia lista, se ero certo fin da subito di cinque nomi, per i rimanenti mi sono trovato di fronte a una vasta galassia di scritture più o meno tutte sullo stesso livello e quindi di difficile catalogazione. La mia percezione è che ci siano moltissimi libri che si attestano a un livello medio, ma sono pochi quelli che riescono a spiccare. Questo non vuol dire necessariamente che la letteratura d’oggi sia peggio di quella di ieri, tutt’altro: Antonio Franchini, in una intervista recente, sostiene che “che il livello medio dello scrittore si sia alzato rispetto a venti-trenta anni fa, parlo proprio di qualità tecnica, non di letterarietà. Voglio dire che oggi molte più persone sanno scrivere un romanzo di 250 pagine che sta in piedi, rispetto a vent’anni fa”. Le parole di Franchini sono particolarmente interessanti e in parte aiutano a spiegare quanto emerso dal sondaggio: gli scrittori che hanno messo d’accordo più critici sono proprio quelli che hanno una maggiore autoconsapevolezza della letterarietà delle loro opere, quelli che maggiormente hanno un’idea di forma forte alla base della loro scrittura. Detto altrimenti: sono quelli che hanno una poetica più riconoscibile.
Sulla questione dell’ibridismo, invece, sarei abbastanza cauto: sia perché negli ultimi anni, anche al livello editoriale, i testi così concepiti si sono molto diffusi, sia perché il concetto stesso di testo ibrido dà facilmente adito a equivoci: il romanzo nasce come genere ibrido e fa di questa mescolanza il suo carattere precipuo. Si tratta, piuttosto, di ragionare su quali forme vengono poste in dialogo, e in che modo, e per quali fini, rispetto a quali contesti sociali e mediali. Di particolare interesse, invece, mi sembra il fatto che più di un critico menzioni Gherardo Bortolotti nella propria lista. Tecniche di basso livello – che certamente è uno dei libri italiani più belli e interessanti di questo secolo – nonostante germi di narratività discontinua e una scrittura che non va a capo, è piuttosto concepito come un libro di poesia (o di “prosa in prosa”) e Bortolotti è considerato un poeta, non di certo un narratore. Il suo nome, allora, è interessante nella misura in cui testimonia di una ricerca poetica in grado di incistarsi in maniera particolarmente feconda nella narrazione (o comunque in un certo tipo di racconto, non lineare, rizomatico, frammentato). La sua menzione, più che sintomo di una stagione, potrebbe valere allora come auspicio: non a caso molte scritture narrative interessanti degli ultimi anni si trovano fra le pagine dei poeti: si potrebbero, per esempio, fare i nomi di Valerio Magrelli, Andrea Inglese e Guido Mazzoni.
Alberto Casadei:
Dunque, credo che la narrativa breve offra attualmente molte possibilità di sperimentazione duttile e quindi non mi stupisco che parecchi volumi di racconti o prose di ricerca possano essere stati indicati. Diverso è il discorso del pubblico, che ama ancora le narrazioni distese, segno forse di un’età in media piuttosto elevata almeno nel caso dei lettori italiani, come viene confermato anche dal grande successo televisivo dell’Amica geniale: ma gli spettatori non possono essere gli stessi giovani che amano alla follia i tempi rapidissimi di Netflix. In ogni caso, vedo che nella lista sono presenti quasi tutti i testi che, quando si facevano le Classifiche di qualità pordenonelegge-Dedalus (delle quali ero uno degli organizzatori), erano stati individuati come importanti subito dopo la loro uscita. Questo vuol dire che un gruppo ampio di lettori qualificati (all’epoca erano circa 200) raramente sbagliano a individuare opere valide: solo che poi questa scelta critica, tanto per tornare alla prima domanda, ha pagato poco e di certo Il tempo materiale di Vasta, stra-vincitore della prima classifica nel 2008, non ha avuto il successo di un libro mediocrissimo (e praticamente copiato da Stephen King) come Io non ho paura di Ammaniti. Detto ciò, nella lista qualche ‘dimenticanza’ mi stupisce: possibile che non ci sia Covacich, per esempio con Fiona? Di alcuni autori personalmente preferisco altre opere: Occidente per principianti nel caso di Lagioia, La manutenzione degli affetti nel caso di Pascale ecc. In altri casi ancora, mi sembra che ci sia uno stacco fra una delle opere segnalate e le altre, come per Siti fra Troppi paradisi e Il contagio e, soprattutto, Autopsia dell’ossessione. Insomma, è una lista da discutere, ma credo che, fra addetti ai lavori, sarebbe facile trovare un accordo su almeno una ventina di queste opere o altre, che sarebbero una buona base per un mini-canone degli anni Zero-Dieci. Temo però che, senza rifondare un pubblico di autentici e liberi lettori, cominciando col modificare completamente i programmi scolastici, i canoni servano ormai a ben poco…
Andrea Caterini:
Sul problema dell’egemonia del romanzo ho già risposto. Poi gli elenchi, le liste, hanno sempre qualcosa di ridicolo. Questa non fa eccezione. Non c’è un nome che non ci si aspetti già di trovare. Mai una sorpresa, neppure dai critici più giovani – un peccato davvero (non ho seguito l’inchiesta, quindi non so chi abbia partecipato). Il principio di accettazione di non conoscenza di cui le parlavo ha già vinto. Questo è tutto.
Dimitri Chimenti:
Mi fa piacere notare come nella lista vi siano molti romanzi ibridi, segno che quella riflessione che andavo facendo non è affatto solitaria. Che i romanzi siano la stragrande maggioranza non stupisce, dato che da quando è stato inventato il genere romanzo è sempre stato la lettura più popolare.
Un libro che mi pare mancare è invece Amianto di Alberto Prunetti, perché quel romanzo ha saputo dare vita a una di narrativa working class fatta dall’interno che in Italia mancava.

Andrea Cortellessa:
Io stesso sono convinto che l’aspirazione al romanzo sia oggi inevitabile: se il romanzo ha avuto riconosciuta più di altre forme una simile valenza di rappresentazione storica – la quale è del resto uno dei compiti della letteratura –, è fisiologico che sia così diffusa l’ambizione a scriverne. Il problema diventa allora commisurare quanti effettivamente arrivano a risultati validi letterariamente: quanti di questi tentativi di romanzo giungano a essere davvero compiuti.
Ogni statistica relativa al numero di romanzi rispetto ad altre forme è inoltre frutto dei parametri scelti, anzitutto del punto in cui ogni volta si traccia la linea tra romanzo-romanzo e forme ibride, “oggetti narrativi” e prose, ma al di là di ciò mi pare chiaro che queste ultime forme siano sempre più numerose e rilevanti. Vedo un movimento generale che appartiene, se vogliamo, a una ridiscussione delle forme: una mutazione che non va però presa come decadenza del romanzo ma come sua naturale ibridazione; il romanzo è stato descritto come una forma che vive delle proprie mutazioni – dell’inglobare forme interstiziali, come diceva Bachtin, o comunque forma diverse da sé. In altri termini, un romanzo può aspirare a una reale riuscita laddove maggiormente si modifichi fino a non sembrare quasi più tale. Se invece si finisce a omaggiare un modello arbitrariamente circoscritto, non si farà altro che riprodurre forme già acclimatate e sperimentate, e quindi non si farà progredire la forma stessa nel suo compelsso: il romanzo è come uno squalo che per continuare a nuotare deve contimuamente mangiare pesci più piccoli; se non lo fa, finisce come “i frutti puri che impazziscono”, per citare Williams.
Ci sarebbero molti titoli meritevoli di stare in quella lista (rispetto alla quale segnalo che la prima edizione di Tu, sanguinosa infanzia è del 1997); dovendo fare una “shortlist”, indicherei: Andrea Bajani, Se consideri le colpe; Ermanno Cavazzoni, Storia naturale dei giganti; Gianni Celati, Cinema naturale; Franco Cordelli, Il duca di Mantova; Luigi Di Ruscio, Cristi polverizzati; Paolo Morelli, Il trasloco; Tommaso Ottonieri, Le strade che portano al Fucino; Leonardo Pica Ciamarra, Ad avere occhi per vedere; Giuseppe A. Samonà, Quelle cose scomparse, parole; Franco Stelzer, Ano di volpi argentate.
Fabrizio Coscia:
Il romanzo è un genere che, di fatto, è morto nel Novecento. Nato nel Settecento, ha avuto i suoi fasti nell’Ottocento, ha raggiunto il suo culmine nel modernismo, nei primi due decenni del secolo scorso e da lì poi ha continuato, invecchiando, in certi casi benissimo, e morendo, altrettanto bene (esistono agonie sfolgoranti nella storia dei generi letterari). I romanzi del Duemila sono quasi tutti opere epigoniche, o giochi manieristici o prodotti di consumo. Ci credono solo gli editori alla sopravvivenza del romanzo. Oggi è molto più creativa e feconda la saggistica, il memoir, l’ibrido, il racconto spurio, una scrittura che attraversa i generi, che non si lascia classificare facilmente. Considero Sebald l’ultimo grande scrittore del Novecento, eppure preferisco tutti gli altri suoi libri, dove ha trovato una nuova modalità di scrittura, originalissima e sfuggente, rispetto ad Austerlitz, proprio perché nel ricorso al genere del romanzo qui si sente più forte il modello di Thomas Bernhard che l’originalità, linguistica e strutturale, della sua scrittura.
Naturalmente esistono poi dei casi eccezionali che contraddicono quello che sto dicendo: arriva un grande romanzo e spariglia tutte le carte in tavola. La verità è che il genio fa quello che vuole usando il genere che vuole.
La proporzione conferma ciò che ho detto prima. L’egemonia del romanzo, meno schiacciante di come potrebbe sembrare, è un retaggio del passato, che andrà scomparendo progressivamente. Se considerassimo i libri di questo decennio vedremmo già un aumento significativo degli ibridi e delle prose spurie sul romanzo.
Ludovica del Castillo
Sono di parte nella risposta a questa domanda, essendo una dei dieci. Nella lista che ho stilato, in particolare, la proporzione tra romanzo e romanzo ibrido/racconto era equivalente: cinque contro cinque. L’egemonia della forma romanzo è però un dato. Sarebbe interessante evidenziare anche le menzioni multiple della lista della “Balena bianca”.
La sproporzione della mia lista rispetto ai numeri dell’editoria è sicuramente data da una propensione personale alla forma breve, che sarebbe qui forse inutile approfondire. Per confermarla, però, mi sembra che ci siano comunque dei testi mancanti nella lista complessiva, come Questa e altre preistorie di Francesco Pecoraro, Nel condominio di carne di Valerio Magrelli e L’uomo avanzato di Mario Bàino (anche in questo caso tutte raccolte di testi brevi/frammentari).
Matteo Di Gesù
Ammetto di avere qualche difficoltà a rispondere a questa domanda, per la parte che riguarda un mio commento o una mia integrazione alla lista (che dà sempre qualche vertigine, com’è risaputo): non mi convince del tutto, alcune menzioni mi lasciano stupefatto e ovviamente la integrerei, ma è davvero utile per chi mi sta leggendo che io lo faccia? D’altro canto mi fa piacere rilevare che, in una lista generata dalla richiesta di selezionare dieci romanzi del decennio scorso, siano presenti prose non narrative e raccolte di racconti.
Raffaele Donnarumma:
L’Italia è stata tradizionalmente una terra di autori di novelle o racconti: dalle origini al pieno Novecento non c’è grande narratore che non ne abbia scritti, e per di più di memorabili (l’unica eccezione che mi venga in mente è Manzoni). Naturalmente, anche fuori d’Italia i grandi romanzieri sono quasi sempre grandissimi autori di racconti, e nemmeno mancano scrittori straordinari che hanno praticato solo il racconto e mai il romanzo, da Cechov a Alice Munro. Sembra invece che la (relativa) sfortuna del racconto sia un fenomeno più recente: l’elenco dei dieci critici parla del resto delle loro scelte, non di quanto si pubblica effettivamente. Questo vorrebbe dire che i critici hanno gusti più conservativi (non conservatori) e hanno conservano un qualche ricordo dalla tradizione. Ma resta l’avversione dell’editoria di oggi alle forme brevi (se ne parla spesso), a cui mi è difficile dare una spiegazione. Il grande pubblico ha evidentemente bisogno di narrazioni lunghe (mi sembrano rari i bestseller sotto le 500 pagine), bisogno che si manifesta nella sua forma più piena nelle serie televisive: una bella smentita del vecchio, povero luogo comune secondo cui i ritmi frenetici della vita moderna avrebbero indotto il bisogno di narrazioni brevi, facilmente consumabili sul tramway e nei vagoni della metropolitana. Fermo restando che la frammentazione può mettersi comoda anche in una serie di cento puntate o in un volume di cinquecento pagine, queste narrazioni possono assumersi proprio il compito di riparare a un senso di disgregazione esperienziale subito e sofferto ogni giorno.
Quanto poi alla lista, la mia prima reazione è la stessa che ho quando metto piede in libreria davanti al banco delle novità: mi gira la testa, mi manca l’aria e ho l’istinto, che vinco a fatica, di guadagnare l’uscita. Conto quarantasei scrittori e scrittrici: sono troppi, e segnalano una mancanza di accordo tra critici (e dire che sono appena dieci!) piuttosto preoccupante. Un canone è forte delle sue scelte e delle sue esclusioni: qui, per tornare alla prima domanda, il canone non viene fuori, e la difficoltà sarà stata aggravata dalla brevità dell’arco cronologico (più si guarda da vicino, meno si colgono le proporzioni). Eppure, la presenza di libri che giudico mediocri, insulsi o francamente brutti non mi scandalizza; mi fa star male, invece, la presenza di libri che non vedo come si possano prendere sul serio: di prodotti, cioè, palesemente midcult. Si può certo discutere se preferire Troppi paradisi o Il contagio o Autopsia dell’ossessione (anche se io andrei a colpo sicuro); se, al di là dei dieci anni, Riportando tutto a casa e Le rondini di Montecassino siano i libri migliori dei rispettivi autori; se funziona di più Senza verso o L’onda del porto; se vale di più L’abusivo o Cronaca della fine; se vada consigliato Verderame o Tu, sanguinosa infanzia; ma ci dovrebbe essere accordo sul fatto che Siti, o Lagioia, o Janeczek, o Trevi, o Franchini, o Mari – per citare scrittori di inclinazioni diverse – sono scrittori che meritano la nostra attenzione. Invece, che ci fanno qui Ammaniti, Camilleri, Eco, Giordano? Qualcuno di loro sarà magari anche simpatico, qualcun altro avrà benemerenze di fronte al consesso civile… Ma via! Il primo punto su cui la critica non può derogare è questo: scambiare per letteratura vera oggetti prodotti per confermare le attese del pubblico più vasto possibile e più di bocca buona – il che è ben diverso da conquistarsi e costruirsi un uditorio che duri nel tempo. Questi libri hanno una qualche patina di letteratura, ricercata indifferentemente nel riuso di meccanismi massmediatici, in un po’ di lavoro sulla lingua, nell’esibizione di materia colta o in quella pensosità malinconica che fa tanto poesia; ma un critico letterario che si suppone abbia davanti alla scrivania i Grandi Classici del Passato e del Novecento come fa ad accontentarsi di roba così a buon mercato? Meno si chiede alla letteratura, più la si condanna all’irrilevanza; più ci si fa abbindolare dalla mediocrità, o peggio le si appiccica addosso qualche etichetta di gloria, tanto più si butta un’intera idea di cultura al macero. Come possono libri che non sanno interpretare l’oggi resistere al prossimo cambio di stagione? Un tempo, il nemico dell’arte era il Kitsch; oggi, il nemico della cultura è il midcult, più insidioso del masscult vero e proprio, e per di più sdoganato da anni di confusa propaganda sulla mescolanza di alto e basso (leggi: della gioia regressiva di sguazzare, finalmente!, nel fango). Difendere un’idea di letteratura che, in qualunque forma, con qualunque mezzo, sia all’altezza del presente, chiedere di più, persino tenere una certa intransigenza di giudizio è ormai un compito da comitato di salute pubblica.

Giulio Ferroni:
L’editoria insiste nel dar rilievo al romanzo, al punto che a volte viene apposta l’etichetta di romanzo anche a libri che sono ben lontani dall’essere tali: e sono i libri ibridi, appunto, che spesso offrono risultati più rilevanti di quelli dei romanzi (si sa che gli editori non amino le raccolte di racconti: ma è vero che alcuni libri di racconti sono tra le cose migliori pubblicate negli ultimi anni). Quanto alla lista, tra i nomi mancanti non trascurerei Franco Cordelli, Antonio Debenedetti, Silvana Grasso, Francesco Pecoraro, Alessandro Piperno, Antonio Scurati. Non sto a indicare dei titoli, anche perché mi sembra che i caratteri e il valore degli scrittori oggi sul campo si rivelino e si definiscano più per l’insieme delle loro opere che per i loro singoli titoli.
Matteo Fontanone:
Cinquantotto opere fondamentali per un solo decennio, per lo più nemmeno tra i più fecondi della storia della letteratura, mi sembrano un po’ troppe. Probabilmente però è una mia deformazione: ho molto apprezzato il lavoro di Andrea Cortellessa con La terra della prosa, eppure già in quella sede avevo più di una perplessità relativa alle maglie così larghe della proposta di autori. In ogni caso mi pare che ciò che ci dev’essere ci sia, su alcuni titoli forse sarei stato meno indulgente. Ma il canone, per quanto sia ancora in nuce, procede a tentativi, strappi e continue scremature: la stessa lista tra vent’anni conterrebbe la metà dei testi di oggi, tra cinquanta forse una decina appena, che sono poi quelli che verranno tramandati a tutti gli effetti. È difficile ma non impossibile, poi, che i miei dieci testi non corrispondano in niente ai dieci testi di un altro critico: la formazione di un canone, per appoggiarci alla fisica, al 40% è deterministica, al 60% stocastica.
Sull’egemonia del romanzo nell’editoria e nella cultura letteraria del nuovo millennio, nulla da aggiungere: è un trend più che conclamato, almeno nei grandi numeri della narrativa di nobile intrattenimento, come la chiamano i critici di oggi. Detto questo, da qualche anno, complice l’attività di alcuni editori virtuosi – penso in primo luogo al Saggiatore, ma si potrebbe andare avanti – i romanzi più interessanti che mi è capitato di leggere non sono propriamente romanzi, ma opere ibridate a vario grado: citare nel 2018 la nebulosa della non-fiction, per la frequenza e l’entusiasmo con cui ne parlano i ben informati, è quasi lapalissiano. Il racconto breve negli ultimi anni sta godendo di una nuova e promettente attenzione da parte del pubblico; pur con tutte le precauzioni, è una forma sempre più frequentata e autonoma, non più soltanto la miglior palestra possibile per i giovani autori nell’attesa di cimentarsi con il romanzo. Discorso opposto, invece, per la poesia: tutt’altro che morta come qualcuno la vorrebbe, vive però circoscritta nei piccoli recinti dell’accademia, dove prospera e ha un seguito piuttosto nutrito. Sul perché della sua poca propensione editoriale si potrebbero dire molte cose, buona parte delle quali inutili: non mi occupo di poesia da studioso, io stesso la leggo meno di quanto sarebbe giusto, ma è pur vero che, ad esempio, per affrontare e capire Milo De Angelis la buona volontà da sola non basta. Nell’epoca della semplificazione e dell’immediatezza, ragionare sul significato di un verso o interrogarsi sulle sofisticatezze di uno schema metrico è una pratica quasi eversiva.
Gianfranco Franchi:
Vedo assenze molto dolorose e direi inspiegabili; nessuno ha nominato il massimo risultato di Renzo Paris, La vita personale (2009), memoir e tributo all’ultima scena romana degna di memoria; nessuno ha nominato il massimo risultato del nostro arbereshe Carmine Abate, Il mosaico del tempo grande (2006), epica del suo popolo; nessuno ha nominato Antonia Arslan e la sua basilare Masseria delle allodole (2004), peraltro etnicamente e politicamente rilevante; incresciosa l’assenza del miglior romanzo fantastico italiano degli anni Zero, Il Mangianomi di Giovanni De Feo (prima e unica edizione da leggere, la e/o del 2002); noto, in compenso, nomi raccapriccianti come Ammaniti, ampiamente o logicamente trascurabili per ragioni differenti come Giordano, Santacroce e Raimo.
Vedo segnalato Trevi per libri meno ispirati; pochi anni più tardi, si è superato pubblicando “Qualcosa di scritto” (2012); manca, ad esempio, La grande ombra di Tuena, il suo romanzo michelangiolesco (2001). Credo sia una classifica molto grezza e poco equilibrata, puntinata da provocazioni (Vassalli ha scritto ben altra letteratura…) e in generale troppo generosa con certi artisti. Non voglio farla a pezzi o soffermarmici troppo – non credo sia questo lo spirito della tua domanda. Leggere certi nomi e certi titoli ovviamente mi innervosisce o mi sembra stupido.
Invece… tu mi domandi se mi stupisce la presenza di tante raccolte di racconti o prose e di romanzi “anfibi” o “ibridi”: niente affatto, prima cosa perché la nostra tradizione di racconti e novelle è ragguardevole (soltanto qualche nome novecentesco, purtroppo non sempre tradotto all’estero come si doveva: Landolfi, Giani Stuparich, Manganelli, Guido Miglia e i suoi Bozzetti istriani, Pirandello, Renzo Rosso, Delfini, Goffredo Parise, Calvino, Tomizza…), secondo perché la tendenza a pubblicare “anfibi”, come già rilevato da altri prima di me (Cortellessa), è limpida e fortunata. È la strada che stiamo battendo, come avanguardie e come letterati, in genere, da tanti punti di vista.
Piero Gelli:
In questa lista ci sono alcuni autori che stimo molto, Alaimo, Franchini, Mari, Pontiggia ecc. Altri che mi meraviglio trovare inseriti, quali autori del decennio passato. Ma mancano autori che per me sono i migliori del decennio trascorso, come Antonio Scurati, Alessandro Piperno, Melania Mazzucco.

Roberto Gerace:
Credo che dal romanzo come “genere aperto”, per usare l’espressione di Bachtin, si rischi di passare al romanzo come genere passe-partout. Diffido istintivamente degli ibridi, perché i generi nascono e prendono forma per esprimere in una forma privilegiata sentimenti e pensieri specifici, propri a un preciso contesto di enunciazione. La tragedia nasce nell’Attica del V secolo a. C. Qualora si fosse dovuto inventarla semplicemente mischiando il già noto, non sarebbe mai nata. Considero dunque la nostra epoca particolarmente povera sotto questo profilo (forse per mia ignoranza), giacché mi pare che l’invenzione di una forma nuova, per erosione e contrasto delle vecchie col contesto rinnovato, sia quanto di più tragico e fecondo possa accadere al decorso di una storia artistica. Credo infine che il progressivo confluire delle scelte formali nell’alveo del romanzo, inteso come macrogenere onnivoro, sia un sintomo di disorientamento della ragione interpretativa. La nostra realtà (non solo italiana) va radicalmente reinterpretata: sono le cronache a dirlo; la nostra società va ridescritta. Nuove interpretazioni di una realtà nuova producono nuove sensibilità, da cui derivano nuove forme. A scatenare questo moto sono di solito nuove forze sociali. Del resto, credo che il romanzo, quando è una sfida e non un alibi, abbia ancora molto da dire.
Quanto alla lista, l’ho trovata molto utile, se non altro per capire cosa piace ai giovani studiosi. Mi ha sorpreso non trovare Canti del caos, che nel bene e nel male, fra le polemiche, ha segnato un’epoca. Credo che Tiziano Scarpa, pur essendo uno dei migliori prosatori in circolazione, sconti il fatto d’aver vinto il premio Strega con uno dei suoi libri più semplici. Non capisco l’assenza di Mauro Covacich.
Daniele Giglioli:
Ricordo l’iniziativa, era pregevole, anche perché insieme richiedeva ai critici molte approfondite riflessioni di cui ho fatto tesoro. Siccome però personalmente odio le liste, i canoni e le pagelle, mi sono permesso di godermi le riflessioni non dando grande peso alla questione del chi c’è e chi non c’è. Per la stessa ragione capisci bene che non intendo integrarla. Le liste e i canoni hanno un senso nell’ambito scolastico: quanti libri puoi far leggere? E perché quelli e non altri? È alta politica. Nella scuola un quantum di autoritarismo è inevitabile. Ma fuori dall’aula dio ce ne scampi. Circa poi il fatto che dei lettori specializzati come i critici tengano più in considerazione le forme sperimentali o difficilmente classificabili di quanto non faccia il lettore mainstream lo considero del tutto naturale: sono più attrezzati a leggerle, nonché, se proprio vogliamo essere maligni, danno loro una ragion d’essere (spiegare, interpretare, classificare, inventare nuovi nomi, operazione importantissima, politica nel più ampio senso del termine). Anch’io prima ho quasi automaticamente contrapposto Volmann al romanzo medio. È fatale, ci hanno fabbricato così. Il vero punto mi pare semmai come comunicarle, quelle forme, come dar loro una chance di essere lette, il che vuol dire interrogarsi sulla loro reale necessità, per tornare alla parola con cui avevamo cominciato.
Giacomo Giossi:
È impossibile pensare che questa possa essere una lista esaustiva, non lo è più per i canoni figuriamoci per le liste. L’impressione è che buona parte di questi libri rispecchino di più il gusto prima ancora che uno sguardo critico, ci sono certamente libri bellissimi che tuttavia non avrei inserito così come credo che manchino libri magari mediocri che abbiano segnato non tanto i lettori ma le pieghe che la letteratura italiana ha poi preso. Il bello comunque resta nell’incontrollabilità della lista, nella sua vertigine (direbbe Eco) e quindi nella possibilità di farsi di volta in volta torre o mappa. Noto ad occhio una forte minoranza di libri di autrici e questo è un limite enorme perché se come dato è banale e facilmente spiegabile è anche però indicativo di una necessità di esplorazione maggiore, di limite di sguardo critico per non dire di pigrizia. Mentre il rapporto tra romanzo e racconto non mi pare che sia molto indicativo, le forme sono esplose e di volta in volta il romanzo o il racconto possono al meglio interpretarle nella loro unità come nella loro frammentarietà.
Giacomo Giuntoli:
Questa lista è indubbiamente suggestiva (sebbene non ami le liste) e la proporzione di cui lei parla, certo, fa riflettere. Credo proprio che i racconti, salvo rari casi, vengano sempre recepiti con un certo pregiudizio e questo nell’epoca dell’ossessione per il romanzo massimalista ha toccato il suo apice. Ciò mi stupisce non solo perché una volta la capacità di sintesi era considerata un punto di forza ma anche e soprattutto perché nessuno ha pensato che un giorno certi romanzi-mondo potrebbero essere visti non come alfieri della complessità in letteratura ma come pronipoti del marinismo. Il racconto ma anche la prosa, per così dire, “alternativa” sono oggetti narrativi ingiustamente discriminati. Guardando banalmente alla mia esperienza di bibliofilo/libromane, trovo difficile pensare a un lettore che entri in libreria espressamente per acquistare un libro di racconti o di prosa “alternativa”. Questa di fatto è una lista curata da critici. Figuriamoci come cambierebbe radicalmente la suddetta percentuale se fosse curata da lettori, e non parlo necessariamente di rookie ma anche di quelli più smaliziati. Da qui l’editoria, più o meno, si adegua alle aspettative di mercato e allora le produzioni non romanzesche sono tragicamente relegate ad una nicchia.
Per quanto riguarda, invece, il contenuto di questa lista non nego da una parte che vi siano molti titoli di mio gradimento ma, dall’altra, noto con disagio che mancano I canti del caos di Moresco, Bella pugnalata di Saugo, Batticuore fuorilegge di Scarpa, Mistandivò di Romano, Preparativi per la partenza di Ruffilli e il Suo Gli interessi in comune di cui sono uno dei tanti, lo ammetto a costo di essere tacciato di captatio benevolentiae, che ne attende pazientemente la ristampa.
Simone Giusti:
Ci sono troppi romanzi, mi pare evidente. Non posso esprimere un giudizio su ciascuno di essi, poiché molti sono sfuggiti completamente ai miei radar; credo però che sia difficile parlare degli anni Zero senza mettere sul tavolo libri di poesia come Ram (2005) e Guardrail (2010) di Giovanni Nadiani, L’ospite (2004) e Nel bosco (2007) di Elisa Biagini, Guerra (2005) e Noi e loro (2008) di Franco Buffoni, Disturbi del sistema binario (2006) di Valerio Magrelli, Le terre emerse (2008) di Fabio Pusterla. Non voglio fare un controcanone, ma ritengo che la poesia e i suoi ibridi siano molto più leggibili – e in modo proficuo, almeno per il sottoscritto – di molti romanzi e racconti (comunque preferibili, questi ultimi, alla gran parte dei romanzi). E non sottovaluterei la saggistica, che nei primi dieci anni del secolo ha prodotto libri come Il racconto come dimora di Paolo Jedlowski o l’incredibile serie di studi sull’improvvisazione e il jazz di Davide Sparti, entrambi capaci di una scrittura anche narrativa di grande qualità e suggestione.
La sproporzione in questa lista tra saggistica e poesia – le mie letture “italiane” predilette – e romanzo e racconto mi fa pensare a un’eccessiva importanza attribuita alla narrativa come genere editoriale, ma anche alla scarsa permeabilità dei generi, o meglio, alla tenuta stagna degli ambiti in cui gli scrittori si autoconfinano. Insomma, se si vuol parlare di letteratura e di canoni forse avrebbe senso scegliere altri punti di riferimento, andare a cercare – rovistando un po’, sporcandosi le mani se necessario – in altri luoghi.
Infine, un inciso: mi colpisce l’assenza di Romanzo criminale (2002) di Giancarlo De Cataldo, presente invece – a mio avviso a giusto titolo – nel canone della nuova epica italiana (New Italian Epic) di Wu Ming. Io credo che, se vogliamo affrontare un ragionamento storico letterario sui primi dieci anni del secolo, quest’opera sia ineludibile, sia per il suo impatto sull’immaginario e sul mercato dei contenuti, sia per il suo statuto ibrido di narrazione fittizia di fatti realmente accaduti.
Wlodek Goldkorn:
Una sola riflessione: il romanzo continua a piacere alla gente che legge. E anche: come la borghesia il romanzo è in crisi da quando esiste, ma non muore (per ora).
Stefano Jossa:
Mi dispiace l’assenza della poesia e del teatro e mi stupisco per la subordinazione dei giovani critici in questione alle logiche del mercato e della pubblicità. La lista riflette un’idea di letteratura legata solo all’emergere pubblico grazie al peso editoriale: non è troppo diversa da un premio, Strega, Campiello, Viareggio o Mondello che si voglia. Naturalmente il contropotere va inteso come parte integrante del potere in questa prospettiva: pura spartizione di campi (come dimostra la presenza degli esempi negativi). Le liste sono comunque un bel gioco che deve durare poco: a me interessano la scrittura e i contenuti, che vanno insieme. Chi ha saputo lavorare con la lingua per porre problemi di lettura del mondo? Forse soprattutto quelli che nella lista non ci sono: i poeti, i drammaturghi, i cantautori, i rappers, gli artisti visivi. Ma non si tratta di dire delle preferenze più o meno soggettive: bisogna riaprire un cantiere collettivo, dove ci si confronta con la scrittura per pensare il mondo anziché inserirsi nel chiacchericcio mediatico.
Filippo La Porta:
Beh, alcuni mi sembrano sovrarappresentati (Frasca, Camilleri, Busi, Genna, Siti con addirittura 3 titoli!). E poi effettivamente vedo nell’elenco pochi libri ibridi e di confine, per me oggi quasi sempre più interessanti dei romanzi e della fiction pura: non solo i meritori – e giustamente citati – Arminio e Franchini, ma Covacich, Pascale, Voltolini, Perrella, lì dove il personal essay incrocia la narrazione, il memoir, la prosa morale. Pensando al ‘900 italiano leggo e rileggo Renato Serra e Giuseppe Rensi, e poi Longhi, Solmi, Debenedetti, Praz, Garboli, etc. più volentieri di tanti romanzieri. Nei loro libri c’è il racconto delle idee, una scrittura altissima e la trasformazione dei romanzieri in altrettanti personaggi letterari.
Loredana Lipperini:
La riflessione è soprattutto sulla diffidenza italiana per la forma racconto (non è bastato un Nobel a Munro, non bastano gli innamoramenti – forti – per autrici come Lucia Berlin e la stessa Paley), che continua a sembrarmi incomprensibile, come se in una raccolta di racconti venisse esperssa necessariamente casualità. Per inciso, resto diffidente nei confronti delle liste, in assoluto.
Francesco Longo:
La forma romanzo offre il tempo di mettere insieme tanto mondo e di disegnare un immaginario, di cogliere le contraddizioni di un’epoca, tempo che il singolo racconto non ha e che la raccolta di racconti soffre ad assemblare. Non ci giurerei, ma è l’idea che mi sono fatto.
Questa lista risente di troppa emotività (e del marketing), è paradossale che compaiano i Wu Ming e non Alessandro Piperno. Mi pare che si confondano ancora gli interesse della sociologia della letteratura (occuparsi di Camilleri, Eco, Murgia) con quelli della critica letteraria (occuparsi di Mari, Parrella, Vasta).
Paolo Maccari:
Credo che il dato rappresenti, banalmente, una conferma dell’egemonia dell’industria culturale. Certo, si potrebbe ribattere che comunque si tratta della legge della domanda e dell’offerta; ma anche la capacità di generare domanda è ormai assodata. Poi, non so quali fossero i dati vent’anni fa, e cinquanta, e ottanta: la maggiore appetibilità del romanzo non credo nasca oggi, ma non conosco la sua traiettoria. Aggiungo che la cosa mi rattrista. Mi rattrista che scrittori di racconti di grande talento siano convinti dalle case editrici, o si convincano, a passare al romanzo, quasi fosse automatico, in chi scrive racconti magistrali poter scrivere magistrali romanzi. Eppure va così. Infine, mi sembra paradossale che in un’epoca consacrata alla velocità e alla concisione il racconto non riesca a imporsi. Ci riuscirà in futuro? Non so. Nel dubbio sarei felice se i racconti non fossero intesi, da troppi scrittori e editori, come semplici palestre, in cui esercitarsi prima di tentare il romanzo, ma che acquisissero nuovamente quello statuto nobile che grandi scrittori del passato, anche recente, hanno saputo garantire al genere.
Marco Malvestio:
Penso che questa proporzione rifletta, in generale, la diffidenza dell’editoria italiana per la raccolta di racconti, che è coerente con (e conseguenza di?) la mancanza di spazi veramente prestigiosi per la pubblicazione di racconti in Italia. Non che le riviste che esistono (da Colla a Carie a Crapula) non siano di ottimo livello, ma non raggiungono lo stesso pubblico che potrebbe raggiungere un quotidiano; mentre i giornali inglesi e americani, per esempio, pubblicano spesso racconti, puntando anzi molto su di essi in termini di prestigio e vendite (ricordiamoci di Cat Person sul New Yorker). Si tratta in ogni caso di una sproporzione curiosa, vista la qualità della nostra tradizione di narrativa breve (Buzzati, Calvino…), che d’altra parte continua anche nel presente (penso a Falco, Mozzi, Trevisan). Davvero credo che tutto dipenda più dalla diffidenza degli editori (ed eventualmente dei lettori) che non dalla sfortuna del racconto presso gli scrittori. Non ho grossi commenti alla lista, avendovi partecipato anche io: ho fatto le mie scelte, le ho motivate, e quod scripsi, scripsi. Posso solo dire che, nel mio contributo come in quello di quasi tutti coloro che vi hanno preso parte, c’è una sproporzione schiacciante tra donne e uomini. Inclusi gli esempi negativi di Mazzantini e Melissa P. indicati da Lara Marrama, conto meno di una decina di donne su un insieme di circa sessanta autori emersi. È una sproporzione che fa pensare, e che dovrebbe invitare noi che abbiamo fatto questi nomi a una riflessione su qual è il nostro patrimonio di letture, e sulle ragioni per cui tendiamo a dare la palma ad autori uomini; nel mio caso, se avessimo scelto il decennio corrente, avrei saputo indicare più autrici a mio parere meritevoli della top ten, ma senz’altro non tante quanti gli autori. D’altra parte, la selezione che emerge dal censimento della Balena è in larghissima parte trasmessa ai giovani critici che l’hanno stilata (e dunque anche a me) dall’ambito accademico che frequentano: e non sorprende, essendo l’università uno spazio essenzialmente conservatore, che quegli autori che vengono imposti a modello siano soprattutto uomini.
Daniela Marcheschi:
Mi colpisce che siano indicati generi diversi del romanzo, non tutti di alta letteratura; e che manchino nomi di autori importanti, che hanno dato all’Italia opere notevoli proprio nell’ultimo decennio: penso ad es. a Carmine Abate, a Roberto Barbolini, grande umorista, a Guido Conti già menzionato, a Edgardo Franzosini, a giovani scrittrici come Claudia Durastanti e altri.
Lorenzo Marchese:
Mi permetto scherzosamente di far notare che alla rassegna, a cui ho partecipato anche io, eravamo in dieci: non riempiremmo la saletta interna della pizzeria dietro casa mia. Non vedo come possa esserci un rapporto fra i gusti di un ristrettissimo campione di persone dalla formazione molto simile (non a caso molti menzionano gli stessi libri) e l’egemonia del romanzo riscontrabile in campo editoriale.
Detto questo, io ho partecipato per parlare di libri su cui volevo dire qualcosa o che non compaiono mai in liste simili sui litblog, non certo perché sono i miei preferiti (uno l’ho inserito proprio perché è orrendo) o perché sono emblematici del decennio: so che anche molti altri partecipanti si sono mossi in questo modo. Per cui ci andrei cauto a trarre considerazioni di canone da quello che di fatto è un gioco, una serie sparsa di consigli di lettura la cui utilità non deve essere fraintesa.
Matteo Marchesini:
Nella lista ci sono alcuni libri che apprezzo, e molti che non mi piacciono. Ma questo ha poca importanza. Forse i letterati tengono presenti anche testi meno editorialmente visibili: ma spesso, mi pare, si tratta di eccentricità “conformi”, di opere in cui lo stile è scambiato con la stilizzazione, si tratti di prosa “neutra” o di racconto. Però si potrebbe allargare la questione, anzi credo che si dovrebbe. Quanti di questi libri valgono letterariamente la metà dei saggi di Pianura proibita di Garboli, delle poesie di Umberto Fiori o di Paolo Febbraro?
Lara Marrama:
Il romanzo è sicuramente il genere egemonico, ma ciò che mi stupisce non è tanto la proporzione con raccolte di racconti e poesie (d’altra parte la lista è stata stilata da critici e non da lettori), quanto l’assenza totale del saggio nella sua forma più canonica.
Morena Marsilio:
Il romanzo d’invenzione ha subito negli ultimi vent’anni un doppio “accerchiamento” sia da parte della non fiction – diffusasi in sordina nella narrativa dalla fine degli anni Novanta e balzata all’attenzione della critica nel 2006 con il caso Gomorra – sia da parte dell’autofiction – particolarmente prolifica tra i primi anni e l’inizio degli anni Dieci del nuovo Millennio. Questi due generi hanno catalizzato in questo periodo autori, lettori, critici letterari, editori (questi ultimi particolarmente attenti a “cavalcare l’onda” anche con collane ad hoc). La narrativa di finzione – intesa come “ricerca” sia nella forma romanzo sia nella forma racconto – è rimasta in parte offuscata da questi generi, ma di fatto resiste, A mio avviso, anzi, non solo gode di buona salute ma sta riconquistando terreno rispetto sia alla non fiction che all’autofiction.
Luigi Matt
Non sono in grado di portare dati precisi a riguardo, ma credo che il rapporto tra romanzi e raccolte di racconti o prose di altra natura, nel totale dei libri pubblicati in Italia classificabili come letterari, sia anche superiore a quattro contro uno. Quindi la proporzione che emerge dalla rassegna Da zero a dieci non sorprende. Se si chiedesse a lettori comuni di indicare i loro libri preferiti probabilmente il numero di “non romanzi” sarebbe inferiore: la presenza di una certa quota di libri diversi nella lista si spiega proprio con l’attenzione dei giovani critici interpellati per libri non ovvi; ne è un riflesso la menzione di titoli (che anch’io considero meritevoli) di scarsa o nulla visibilità mediatica: penso ad esempio ai romanzi di Casadei, Frasca e Zanotti. Noto anche con piacere l’assenza, con pochissime eccezioni, di romanzi puramente commerciali.
Se dovessi integrare la lista non tralascerei gli esponenti di quella scrittura emiliana che, sulle orme di Gianni Celati (di cui qui si potrebbe citare almeno Fata Morgana), hanno dato vita ad una controepopea dei marginali che trova nella riproduzione del linguaggio parlato la sua linfa vitale: per limitarmi ad un solo libro per autore, ricorderei Diavoli di Paolo Nori, Cani dell’inferno di Daniele Benati, Le pratiche del disgusto di Ugo Cornia, Fideg di Paolo Colagrande e soprattutto Storia naturale dei giganti di Ermanno Cavazzoni, che non esito a definire un capolavoro.
Aggiungo qualche titolo sparso, a compensare la scarsità di voci femminili evocate dai critici interpellati: Penelope per gioco di Caterina Bonvicini, Come prima delle madri di Simona Vinci, Duro come l’amore di Rossana Campo, Disio di Silvana Grasso, I giorni della rotonda di Silvia Ballestra, Bella pugnalata di Alessandra Saugo, Tutta mio padre di Rosa Matteucci, La casa di Angela Bubba. L’uso della lingua, molto consapevole per tutte queste scrittrici, e per alcune di esse fortemente espressivo o sperimentale, è sufficiente a mostrare, per riallacciarmi a quanto dicevo in precedenza, come il contatto forte con la tradizione italiana (al limite per rifiutarla) nella narrativa di oggi non sia affatto venuto meno.
Massimo Maugeri:
Credo che esprima comunque una prevalenza del romanzo su altre forme di pubblicazioni. Dando una rapida occhiata alla lista noto che contempla pochi titoli tra quelli che si sono aggiudicati i maggiori premi letterari italiani.
Se il decennio è questo a mio avviso starebbero bene nella lista Caos calmo di Sandro Veronesi e Vita di Melania Mazzucco.
Carlo Mazza Galanti:
Sulla poesia cercavo di non rispondere già sopra perché non essendo più un lettore aggiornato (lo sono stato, magari tornerò a esserlo) non mi va di dare giudizi. Credo che se già la narrativa letteraria è una forma sempre più minoritaria di espressione artistica figuriamoci la poesia, i libri di poesia. Almeno il romanzo gode il riflesso di tutta una retorica dello storytelling che spadroneggia nell’immaginario collettivo dalla pubblicità all’autocura. La poesia mi sa che oggi ha molte più opportunità di esprimersi attraverso la musica rap o di altro tipo.
Non capisco se la lista vuole registrare i libri più influenti o i migliori. Poi giusto per relativizzare un po’ il canone ne dico uno – anche se è del 2011 – che non conosce quasi nessuno e che ho letto di recente e che secondo me batte alla grande una buona percentuale dei romanzi presenti qui sotto: Nel bosco di Aus di Chiara Palazzolo (me l’ha consigliato Loredana Lipperini dopo che ho scritto il pezzo sul weird, e aveva ragione, tant’è che vorrei aggiungerlo al canone strano).
Matteo Moca:
Su questo aspetto non si può prescindere dal prezioso lavoro che viene fatto da critici “illuminati” come Gianluigi Simonetti nel suo recente La letteratura circostante. Lì viene messo bene in luce come l’assenza di quello che lui definisce il “romanzo di una volta” è dovuta ad un superamento di quello “stile Novecento” che rappresenta non solo una metodologia di scrittura, ma anche, più in generale, un modo di intendere la letteratura come momento centrale della formazione. Certo, il romanzo resiste, ma le forme ibride, in tutte le loro molteplici forme, credo rappresentino l’ambito più importante da studiare e quello oggi più curioso da seguire nelle sue evoluzioni. In maniera schematica tento di tratteggiare questo passaggio fondamentale: il romanzo è comunque il genere ancora maggiormente prodotto ed acquistato e questo lo porta ad avere una conformazione che assecondi, anche, la questione certo non secondaria delle vendite. Da questo punto di vista nel romanzo si avverte il pericolo della perdita di un qualsiasi ruolo sociale ma, soprattutto, di una valenza politica: questo diventa anche specchio di una società nella quale la scala gerarchica tra alto e basso è via via sostituita da un approccio orizzontale (gli esempi che vanno in controtendenza sono in realtà pochi, ma molti tra questi di grande valore, per esempio, per restare agli ultimi mesi, il romanzo di Michele Vaccari, Un marito). Mi sembra allora naturale che un tipo di letteratura impegnata, intelligente e spesso sprezzante, cerchi delle nuove forme di espressione, che finisce per ritrovare nella forma peculiare di questi testi ibridi e sperimentali. Mi sento allora di dire che, forse, sono leggermente stupito più del contrario, perché immaginavo una proporzione meno decisa verso il romanzo e qualche titolo in più verso queste forme differenti (di cui sono comunque esempio illuminante i due libri di Franchini). Riguardo alla lista nello specifico, mi trovo abbastanza in linea con questa campionatura (e ottimo è stato il lavoro di “Balena bianca”): se fossi stato chiamato in causa avrei forse inserito la raccolta di Fabrizia Ramondino Il calore, composta da dieci grandi racconti “meridionali”.
Salvatore Nigro:
La lista che offre “la balena bianca” raccoglie quanto di meglio sia stato scritto negli ultimi decenni. Mi viene da notare che molte volte i romanzi selezionati non sono romanzi-romanzi. Vanno oltre il genere. Questa è la grandezza del romanzo, che sa essere altro e se stesso insieme. Questa è anche la speranza di chi crede che la nostra letteratura ha ancora molto da offrire. Nonostante tutto.
Giorgio Nisini:
Questo è solo in parte indicativo: l’inchiesta della Balena Bianca richiedeva di indicare dieci titoli di opere narrative italiane, e dunque indirizzava di per sé gli autori a escludere poesia e saggistica. Limitando il campo alla narrativa è inevitabile che i romanzi primeggiassero sui racconti, considerando anche il fatto che in base a un dato squisitamente quantitativo le pubblicazioni di questi ultimi sono nettamente superiori. Del resto l’inchiesta della Balena Bianca riflette una piccola, per quanto indicativa, porzione di idee: quella di una stretta schiera di critici (dieci in tutto), per lo più accademici, nati tra anni Ottanta e Novanta. È un canone parziale, insomma, e non lo dico per ridurne l’interesse (sebbene gli stessi redattori della rivista lo abbiano definito “un gioco estivo”), ma per sottolinearne un carattere: bisognerà vedere sulla lunga distanza quali di queste opere davvero resteranno. Ma di canoni degli anni zero se ne potrebbero suggerire altri partendo da punti di vista diversi: chiedendo ad esempio d’indicare le opere più rappresentative senza limiti di genere, coinvolgendo critici di più generazioni e di diverse scuole, coinvolgendo scrittori o lettori non di professione. In fondo anche negli stessi anni zero operazioni di “canonizzazioni del presente” sono state tentate a più riprese e da varie angolazioni (una la propose la Treccani, ad esempio, un’altra sulla poesia la curai io per l’Annuario di Manacorda). E non parlo di antologie che riflettono un punto di vista o una scuola, come quella di Cortellessa da cui parte il sondaggio della Balena (Narratori degli anni zero), ma di inchieste che sommano il parere di una fetta più o meno ampia del mondo intellettuale italiano. Ampliando la visuale alcune cose cambierebbero; ad esempio, osservando la lista, avverto l’assenza di due narratori strategici per qualità, stile, personalità di scrittura come Sandro Veronesi (La forza del passato, Caos Calmo) o Melania Mazzucco (Vita, Un giorno perfetto); ma è più in generale paradigmatica la deriva di molti grandi protagonisti della letteratura degli anni Ottanta-Novanta che sono tuttora attivi: De Carlo, Del Giudice, Lodoli, Scarpa, Nove ecc. A cosa si deve la loro fuoriuscita dal canone della Balena Bianca? Quanto dipende dal fatto che i giovani recensori non hanno vissuto in prima persona quel tempo e quindi riescono a inquadrarlo con maggiore risoluzione critica?
Fabrizio Ottaviani:
A me piacerebbe che la poesia e il teatro godessero di buona salute, ma questo è solo un pio desiderio, il romanzo alla fine come il Leviatano ha divorato le bestie che aveva attorno, c’è poco da fare. La lista della Balena bianca mi sembra una lista dominata da opere midcult e comunque inutile, perché raccoglie autori e opere di valore diseguale (che senso ha mettere La solitudine dei numeri primi, che è un abile, ma sterile rifacimento delle Particelle elementari di Houellebecq, accanto ai romanzi di Siti?) Polemiche a parte, ho apprezzato che la lista contenga i nomi di Busi, Franchini, Pascale, Pincio, Pugno, il Santoni dei Personaggi precari, Siti e Trevi, Tuena e Vassalli. Di Trevi avrei messo tutte le opere, nessuna esclusa (ho dei dubbi solo sull’ultimo romanzo); è uno scrittore imprescindibile, forse il più bravo e profondo. Se dovessi aggiungere qualche nome, direi che mi sembra scandalosa – se non fosse sintomatica – l’assenza di Alberto Arbasino, che negli ultimi anni ha continuato a pubblicare: ma certo se poi l’accademia italiana per il Nobel propone Saviano e la Maraini, di cosa ci stupiamo? Pesa poi secondo me l’assenza di Andrea Carraro, Claudio Morandini, Valerio Magrelli, Edoardo Albinati, Giuseppe Marcenaro, Rosa Matteucci e Letizia Muratori.
Gabriele Ottaviani:
A mio avviso la (s)proporzione è soprattutto figlia di un pregiudizio che molti lettori credo che abbiano: se non è un romanzo non è letteratura, non è un vero libro, e quindi le antologie sono rifiutate quasi a prescindere. Io cerco di avere il minor numero di pregiudizi possibili, pertanto secondo me nell’elenco in tutta onestà c’è qualcuno di troppo e qualcuno che manca, ma è un’opinione dovuta al mio gusto personale, come tale dunque sindacabilissimo.
Raffaele Palumbo Mosca:
Il dato più interessante della lista è, mi sembra, la sua eterogeneità. Romanzi ipersperimentali e romanzi a vocazione commerciale, romanzi ibridi e romanzi di impianto classico, romanzi e racconti, tutto finisce nello stesso calderone; questo mi sembra un ottimo segno della vitalità della letteratura italiana contemporanea. Anche dal punto di vista della lingua il panorama che ne esce è estremamente differenziato, forse smentendo, o smentendo almeno in parte, l’ipotesi della standardizzazione del linguaggio di cui si diceva prima. L’egemonia commerciale del romanzo viene smentita dalla proporzione che la lista esprime tra racconti e romanzi, ma è normale che i critici rivolgano la loro attenzione anche a forme meno popolari. È anche, mi pare, uno dei compiti fondamentali della critica: svelare ciò che è nascosto, portare alla luce ciò che è nell’ombra per dare un quadro il più possibile esaustivo.
La tentazione di aggiungere nomi e opere alla lista è naturalmente molto forte; ma più ancora che integrata, andrebbe sfoltita. In ogni caso credo che sarebbe più interessante continuare il dibattito, motivare il perché certi nomi e certe opere, provare a disegnare percorsi.
Filippo Pennacchio:
Anche qui provo ad andare per punti, in maniera forse poco sistematica.
Una considerazione preliminare: la ‘consegna’ iniziale del sondaggio promosso dalla “Balena bianca” era di selezionare dieci romanzi degli anni Zero. Trovo significativo che nessuno (mi sembra) dei dieci critici coinvolti lo abbia fatto. Tutti (compreso il sottoscritto) hanno cioè incluso almeno una raccolta di racconti o di prose non del tutto narrative, ma anche testi che somigliano più a saggi che non a romanzi. Evidentemente, nella percezione critica comune alcuni scrittori italiani danno il loro meglio quando non scrivono romanzi (il che, peraltro, darebbe ragione ai critici ‘anti-GRI’ di cui sopra).
Ci sono pochi autori di genere. Ma credo che la cosa sia dovuta al fatto che giallisti, noiristi ecc. sono oggi poco letti.
Mi colpisce, in negativo, l’assenza di testi della costellazione Wu Ming. Credo che il loro lavoro sia ancora oggi molto importante, e – a proposito di transnazionalità – uno fra i pochi a dialogare in modo originale con idee di romanzo e con modelli narrativi non italiani. Eppure i critici-critici continuano a guardarli con sufficienza…
Trovo significativa la presenza di testi ibridi, e anzitutto Gomorra: è un segno che l’indistinzione di genere o l’attraversamento dei confini narrativi è ormai percepito come uno dei tratti più salienti della letteratura contemporanea, non solo italiana.
Uscendo dallo spirito del sondaggio, il cui intento non era quello di stilare una classifica, credo si possa dire che il suo ‘vincitore’, con largo distacco dagli altri, sia Walter Siti, che quasi tutti hanno inserito nella propria classifica (ma dovrei controllare meglio). Trovo significativo che dieci venti-trentenni abbiano ritenuto che il migliore narratore italiano degli anni Zero sia un autore settantenne, che legge in modo disincantato ed estremamente cinico il mondo in cui vive (in cui viviamo), che apertamente esibisce le sue idiosincrasie, che anche rappresenta in modo estremamente negativo i luoghi tradizionalmente deputati alla critica – gli stessi luoghi che lui stesso ha frequentato e in cui i venti-trentenni in questione lavorano o si stanno formando –, e che per il suo tipo di proposta difficilmente può ‘fare scuola’. Anche in questo caso, non so esattamente in che senso ciò sia significativo, ma forse qualcosa dice dell’orizzonte in cui si muovono molti ‘giovani’ critici.
Sergio Pent:
La forma-romanzo è ancora quella imperante nel nostro Paese, anche se ormai i valori – e la ricerca degli stessi, come ho già accennato – sono indirizzati a una mercificazione spesso poco dignitosa del lavoro letterario. Munro, Carver, Dubus, avrebbero difficoltà a trovare un buon editore, in un’Italia in cui la forma del racconto, più che non funzionare, non “rende” e non è mai stata promossa in modo adeguato. Detto questo, i titoli segnalati rappresentano quello che ancora merita la denominazione di “ricerca”, quantomeno di sincera ispirazione. Un buon drappello di prove d’autore, alcune forse sopravvalutate, ma è ovvio quando si effettuano sondaggi, alle quali personalmente aggiungerei – senza scavare a fondo negli archivi della memoria – Il sopravvissuto di Scurati, Futbol bailado di Garlini, Caos calmo di Veronesi, Parenti lontani di Cappelli. Per la serie, “se si vuole, si può”.
Filippo Polenchi:
Mi dispiace che per motivi cronologici (post quem e ante quem) non siano potuti rientrare in lista Davide Orecchio di Città distrutte (2012) e Giulio Mozzi del Male naturale (1998), oltre naturalmente alla Gemella H (2014) di Giorgio Falco, il quale però è ben rappresentato dall’Ubicazione del bene.
Oltre a questo devo dire che di Trevisan citerei anche I quindicimila passi e che aggiungerei tre autori per me molto importanti che qui non vedo riportati: Sandro Veronesi con La forza del passato (2000, appena in tempo!), Francesco Pecoraro con Dove credi di andare? e Gianni Celati con Cinema naturale.
La lista, dovendo rimanere entro limiti cronologici, riflette anche quella che è stata una tendenza dell’editoria della scorsa decade: il romanzo è stato a lungo preferito al racconto, almeno dagli editori. Si è creduto che il pubblico dei lettori – quand’ancora si ragionava in termini di “grande pubblico” o presunto tale – desiderasse soltanto “romanzi”, influenzando così gli stessi gusti. Oggi mi pare che l’apertura al racconto sia maggiore, sia con la nascita di case editrici dedicate proprio alla forma breve sia con una più decisiva presenza di raccolte di racconti nei cataloghi degli editori e sia, naturalmente, con la maggiore autorevolezza delle riviste on-line, vero e proprio osservatorio sul racconto (come recita il sottotitolo di uno dei più famosi portali dedicati appunto a esso). A mio modo di vedere, da qualunque angolazione la guardi, parliamo ancora e ancora di metamorfosi.
Gilda Policastro:
Intanto, è una lista che trovo molto discontinua e disomogenea. Da un lato proposte decisamente mainstream, come Ammaniti o Piccolo, dall’altro la super nicchia come Frasca o il più recente Bortolotti. E anche rispetto ad autori a metà tra il successo (perlomeno di critica) e la nicchia estrema come Falco, il libro che indicherei è piuttosto il suo primo compiuto romanzo che è la Gemella H, ambizioso perciò, probabilmente, meno acclamato di altri, più etichettabili (letteratura precaria o letteratura del lavoro: l’ultimo, Ipotesi di una sconfitta). Così per Arminio: come si fa a dimenticare quella Spoon river reloaded che è la sua eccellente raccolta di Cartoline dai morti e ricordare, invece, i libretti di minor momento che trovo nominati nella lista. Il critico, giovane o meno (come disse una volta Luperini la sola cosa che conta, nell’espressione giovane critico, è il sostantivo) ha il compito e il dovere di essere onesto, al di là delle proprie idiosincrasie o passioni sfegatate. Si può parlare di canone contemporaneo per libri che ci si è passati di mano in mano tra quattro pochi adepti (non li cito perché comunque incontrano il mio favore e il mio gusto, eppure non li metterei in un canone) o, all’opposto, per libri molto letti ma mai entrati nel discorso letterario alto, mai recensiti da un critico, al di fuori della congrega dei sodali? Ecco, il problema che vedo, al di là delle liste, che oggi, a distanza di un anno, sarebbero, immagino, tutte diverse, da parte degli stessi interpellati (Leopardi diceva nel Parini che cambiamo idea sui libri che leggiamo a seconda delle ore della giornata!), non si deve dimenticare che la critica, tradizionalmente, è innanzitutto un fatto comunitario. La discussione letteraria, non il pollice verso del singolo critico, detta il canone. In secondo luogo gli scrittori, quando scrivono, leggono (o dichiarano di averlo fatto) saggi, libri di storia, di filosofia, di neuroscienze, di politica e, porca miseria, di poesia, allora come mai poi nelle liste dei libri memorabili non si trova traccia di altri generi che non siano il romanzo o comunque la narrazione finzionale? Per pigrizia, e per un malinteso senso del compito culturale: che non è la promozione del singolo editore à la page o dell’amico da sostenere con la recensione omaggio, ma un’esperienza di messa in valore e di scarto. Se ci piace lo stesso libro che leggono (o magari solo comprano, o sfogliano, o regalano all’amico per il compleanno) tutti e che va in tivù da Fazio (i due fenomeni sono ovviamente interconnessi), non siamo dei critici, o non abbiamo letto abbastanza: come ha detto una volta Magrelli, bisognerebbe imporre il sistema delle ore di lettura, come le ore di volo per i piloti: 8 mila libri almeno, di teoria, di narrativa, di poesia, altrimenti non puoi parlare.
Giacomo Raccis:
Parte della risposta a questa domanda si trova sopra. Ma aggiungo che la rosa dei critici interpellati dalla Balena Bianca ha una medesima estrazione: quella della nuova classe della critica accademica sul contemporaneo. E questo significa soprattutto una cosa: una grande attenzione per l’area di ricerca, anche estrema (se pensiamo al numero di segnalazioni ricevute dal libro di Bortolotti, o alle menzioni di autori come Labranca, Frasca o Casadei), in quanto terreno fatto oggetto di studio prima ancora che di lettura militante o di gusto. Se il critico, in generale, lavora per il canone, il giovane critico accademico vive in una costante angoscia dell’influenza, nel senso che ha l’ansia di individuare ciò che resterà. E visto che, per esperienza, sa che molto spesso ciò che viene canonizzato proviene dai margini del sistema letterario, a quelli guarda per individuare le proprie segnalazioni.
Detto questo, per le ragioni esposte sopra, è proprio dai territori di confine tra i generi – romanzo di racconti, autofiction, romanzi di non-fiction – che sono arrivate le cose più interessanti degli ultimi anni. Il romanzo, un po’ come le serie televisive di questi ultimissimi anni (che mi sembra comincino a mostrare il fiato corto), si è consolidato come il genere commerciale per eccellenza, quello in cui si va sul sicuro e non ci si arrischia in strane sperimentazioni. Chi osa, provando a immaginare nuove forme dell’espressione letteraria, si orienta altrove, anche a costo di scontare una scarsa risonanza di pubblico. D’altra parte, troverà sempre critici solerti, pronti a riconoscerne l’originalità e a segnalarla agli altri, avvedutissimi, happy few.
Massimo Raffaeli:
Ogni lista è singolare e necessariamente arbitraria ma mi colpisce molto l’assenza di autori essenziali: non c’è Franco Cordelli (il nostro maggiore romanziere e per definizione un romanziere “delle idee”), non c’è Claudio Persanti (e per lui basterebbe il recente, bellissimo, La forza di gravità), così come Francesco Permunian, che per primo ha letto la metafisica del Nord Est, o un outsider del rango di Gilberto Severini. Né viene menzionata nella lista, presumo in omaggio allo spirito retrivo dei tempi, la maggiore scrittura di reportage sociale, per esempio La catastròfa (2011) di Paolo Di Stefano e Il costo della vita (2013) di Angelo Ferracuti.
Edoardo Rialti:
Come ha sottolineato il già citato Simonetti, nella letteratura degli ultimi decenni la tanto decantata velocità non è affatto sinonimo di brevità ma semmai di realizzazione e consumo, velocità dì informazioni, attualità incalzante. Occorre anzitutto rilevare che molti romanzi hanno incorporato alcuni aspetti del racconto. Ci sono romanzi che volutamente cuciono sezioni o frammenti che potrebbero essere letti singolarmente, e altri che in modo piú o meno efficace tendono invece a una episodicità conchiusa, che al pari delle produzioni televisive e i feulleiton ha un suo arco di tensione autoconclusivo, eppure rimanda al capitolo successivo, una dinamica che si applica al libro stesso se questo fa parte d’una serie. Invece un vero racconto chiede e risponde a una diversa esigenza di realizzazione e fruizione. Credo abbia ragione Luca Ricci quando affermò che, se vuoi sapere se devi scrivere un racconto o un romanzo, la prima fondamentale differenza sta se “vedi” una situazione o un personaggio. E forse non si generalizza troppo se affermiamo che agli scrittori contemporanei sono chiesti essenzialmente personaggi, magari in svariate situazioni.
Venendo invece all’elenco proposto, devo premettere che ammiro molto chi cerca e sa dedicarsi a “squadernare” il contemporaneo. Commentare anche solo quella celebra lista mi è molto difficile. Un approccio orizzontale per me è sempre meno congeniale di quello verticale. Una volta risposi che, per come sono fatto, leggere i contemporanei migliori, quelli piú forti e duri, è sempre fare l’amore senza preservativo: “ti becchi” qualunque cosa abbia il compagno o la compagna di letto. Forse l’immagine è sbagliata, perché può lasciar intendere che i classici siano una zona sicura, anestetizzata, quando semmai la potenza- talvolta devastante nel suo appello- delle loro dinamiche è immessa in un grande flusso che in parte invera l’augurio di Enea sul tornare a contemplare un dolore straziante del passato. Meminisse iuvabit.
Tuttavia già con i nostri genitori occorre tutta una vita per elaborare doni, gioie e dolori inflitti, e risulta ben piú semplice mettere a fuoco i nostri nonni e leggere noi stessi in loro; credo che ciò sia vero anche per le voci artistiche, e i romanzi contemporanei sono i nostri fratelli, amanti, se non addirittura figli. I rapporti più intensi, i nodi più aggrovigliati delle nostre vite. Per questo ho trovato molto utili e perfino ammirevoli lavori come La letteratura circostante. La critica come la intendo io si concentra anzitutto sulla singola opera o il singolo autore e prova nel senso migliore del termine a relativizzarlo, cioè inserirlo in un corso che lo precede e comprende, e così ne fa emergere davvero le specificità positive o meno. Dalle valutazioni sommarie derivano giudizi sommari, disse Praz, e ciò è vero in letteratura come nella giustizia dei tribunali. Temo dunque che qualunque osservazione suoni assai ovvia. Rilevo tuttavia quanto le scrittrici fatichino ancora a essere riconosciute come figure parimenti autorevoli e non semplicemente di successo (due tributi ben diversi). Un’ingiustizia che pesa su tutti e ciascuno. L’altro dato è il crollo invece della grande narrativa e critica cattolica. Da devoto di Pallade Atena che però deve e dovrà sempre moltissimo a Bo, Luzi, Campo, ciò mi colpisce molto. Non è certamente un fenomeno solo italiano e le cui origini vanno cercate già negli anni ’50 tuttavia, se si eccettua un notevole romanziere come Doninelli (La nuova era, Le cose semplici), è comunque significativo che siano ben poche le personalità che, al pari dei protestanti Berry e Robinson, sappiano realizzare opere di narrativa capaci di dialogare con le istanze profonde del nostro tempo (se si eccettuano autori anche di grande popolarità ma miseramente ideologici), quando invece tanti altri romanzieri lì presenti – e di altro orizzonte spirituale – e anche nuove voci (che magari sono state evocate nei recenti dibattiti sulla letteratura “sconcertante o di sconfinamento”) risultano profondamente interessati alle dinamiche e alle riserve di senso del sacro, alla sua domanda e caccia dopo tanta ubriacatura d’indifferenza progressista degli anni ’90.

Luca Romano
A mio avviso questa lista mostra una proporzione molto interessante, forse anche più di quella commerciale perché è stata generata a partire da un pubblico competente che studia i testi e che probabilmente è già orientato verso una contaminazione dei generi, una ibridazione che prima di avere spazio nella scrittura, trova spazio nella lettura. Nel complesso si evidenzia un’attenzione per scrittori che sono riusciti, anche al di là dei libri citati a lavorare sulla lingua italiana. A questa lista probabilmente aggiungerei Il nemico, libro d’esordio di Emanuele Tonon, principalmente per la capacità che ha avuto Tonon di ibridare il genere romanzo, con il canto e l’invocazione (di natura religiosa, ma non solo). Altra autrice che per una mera questione di date di pubblicazioni non è presente nella lista e che sicuramente meriterebbe d’esserci, è Serena Vitale, che ha scritto i suoi due lavori più importanti – Il bottone di Puškin e soprattutto Il defunto odiava i pettegolezzi – pochi anni prima e poco dopo il periodo preso in considerazione. In entrambi i casi la forma saggistica e quella narrativa convivono in una interessantissima prospettiva, creando una voce quasi unica nel panorama italiano.
Niccolò Scaffai:
È una lista molto varia eppure al tempo stesso molto plausibile, dove trovo la maggior parte dei libri notevoli usciti in quegli anni. Sono anche i libri che furono più apprezzati negli anni in cui vennero stilate le classifiche ‘di qualità’ del Premio Dedalus e anche per questo, forse, scorrere oggi l’elenco mi dà un’impressione di familiarità. Osserverei due aspetti: il primo è l’assenza della poesia (almeno nel senso di poesia versificata), ma forse l’inchiesta chiedeva di esprimersi solo sulla prosa? Il secondo è la sostanziale riconoscibilità di un canone (per quanto esteso) di autori e generi (ci sono vari esempi di ‘altre scritturÈ, di genere ibrido) e la solidarietà di giudizio di una generazione di giovani critici. Forse troppa solidarietà, forse troppo ossequio rispetto alle categorie e i gusti dei maestri?
Alberto Sebastiani:
Se la domanda è “quali libri”, e non “romanzi” o antologie di racconti, ciò che mi stupisce è l’assenza di volumi di poesia, di ipertesti, di fumetti, di albi illustrati, di silent book da questa lista. E pochissima saggistica. Mi preoccupa il fatto che se si parla di libri si pensa solo alla letteratura, e per di più solo a quella in prosa, e prevalentemente al romanzo (o al racconto lungo), seguendo peraltro la tendenza dell’editoria. Inoltre, in questa scelta che privilegia la letteratura, altra nota dolente, si pensa quasi solo a quella cosiddetta realistica. Pochissimi sono i titoli ad esempio di fantascienza, per non parlare del fantasy, o dell’horror. Siamo sicuri che in questi ambiti si incontri solo immondizia? O forse non raccoglie l’interesse dei giovani critici, che li snobbano come facevano i loro nonni e bisnonni della blasonata critica nazionale? Sarebbe molto preoccupante…
Gianluigi Simonetti:
Noto una presenza incisiva di non fiction novel, rappresentativa della fusione attualmente in corso tra letteratura e giornalismo. E si sente, nella scelta di alcuni titoli di nicchia, un sapore vagamente accademico. Le assenze clamorose tutto sommato sono poche (le prime che mi vengono in mente: Bordini, Pecoraro, Piva, Cordelli, Arbasino…), mentre figurano alcuni titoli a cui non avrei mai pensato (perché li trovo bruttissimi, o in minor misura perché non li conosco). Forse è un bene, vuol dire che i giochi non sono ancora fatti. Dobbiamo leggere e rileggere ancora.
Valentina Sturli:
Quando La balena bianca ha promosso questa iniziativa ha chiesto anche a me di esprimere una lista. L’ho fatto molto volentieri – a volte anche con qualche difficoltà perché il lasso temporale era piuttosto stretto, e mentre (sarà un caso? vedi sopra) mi venivano in mente decine, letteralmente decine, di titoli stranieri, per il panorama italiano era tutto un altro paio di maniche. Non sono un’esperta di poesia, quindi non mi sento di fare riflessioni particolari in merito alla proporzione di titoli indicati rispetto al romanzo. Ci sono autori di poesia e raccolte poetiche che ho amato molto, ma certo mi sento molto più a mio agio con la prosa, e soprattutto la prosa romanzesca. Quel che mi viene da dire è che questa lista mostra davvero come anche in un ambito relativamente marginale come l’Italia contemporanea – se confrontata alla realtà globalizzata che dicevamo prima – la variabilità di stili e di temi sia enorme. Mi fa molto piacere che critici della mia generazione possano rendere il giusto merito a scrittori tra loro diversissimi, e a mio avviso magnifici, come Busi e Camilleri, Mari e Mozzi, Eco e Frasca. Poi il mio ‘cuore critico’ batte per Walter Siti, capace di fulminanti intuizioni sulla realtà del desiderio, della società, delle rappresentazioni collettive in cui viviamo immersi. Secondo me Siti è uno straordinario scrittore (ne vedo pochissimi al suo livello) perché sa tenere insieme universale e particolare, assolutismo e ambivalenza, lirica e prosa, complessità e chiarezza. Non so se lui riuscirebbe a scrivere il Grande Romanzo Italiano, anche nel caso riuscissimo noi a definirlo. Sicuramente ha scritto grandissimi romanzi (Scuola di nudo, Troppi paradisi, Il contagio), e questa già mi sembra una buona approssimazione.
Italo Testa:
La “sopravvenuta egemonia del romanzo” è un fenomeno troppo recente nel nostro panorama per poter prenderne bene le misure, e per capire se si tratta di un fenomeno di lunga durata, suscettibile di produrre risultati che avranno una qualche persistenza al di là dell’evidente cambiamento intercorso nel mondo editoriale. A me peraltro colpisce più il fatto che nella lista, per ogni quattro romanzi uno è “ibrido”, vale a dire fuoriesce dalla canonizzazione del genere: se sommiamo questo al fatto che un quinto dei testi è costituita da raccolte di racconti e prose, allora l’egemonia del romanzo mi sembra rivelarsi molto più problematica di quanto appaia immediatamente. Anche perché a me pare che i prodotti più interessanti della lista, in termini di giudizio di valore, si trovino quasi tutti nei due quinti.

Emanuele Trevi:
Alla lista si potrebbero aggiungere o togliere dei titoli, ma la sostanza rimarrebbe identica. È ovvio che la faccia da padrone il romanzo, genere amorfo e polimorfo, anche quando non sono in ballo interessi commerciali. Il romanzo ha la possibilità di inglobare in sé altri generi (praticamente tutti) e questo è un grande vantaggio a suo favore. Se posso permettermi una testimonianza personale, non sono sicuro di scrivere dei romanzi veri e propri, direi che sono più che altro dei tentativi di saggi romanzati. Credo che molti scrittori condividano la mia incertezza. Alla fine “romanzo” diventa quasi sinonimo di “libro in prosa”.
Alessandro Zaccuri:
Le liste mi danno un po’ le vertigini, ma credo che sia la loro funzione. Mi astengo dalle integrazioni, ma non mi stupisce trovare una sovrabbondanza di “oggetti narrativi non identificati”, come li definiva già Wu Ming 1 in New Italian Epic. Il canone della prosa italiana, lo ripeto, è composto dai Promessi Sposi in tensione con lo Zibaldone. Tra questi estremi, tutto può accadere.
Emanuele Zinato:
Uno dei mutamenti più vistosi della letteratura dopo la metà degli anni Novanta è stato l’emergere sempre più esteso di scritture di non-fiction con la correlata idea che tutto il campo delle opere sia ibrido e meticcio. L’origine del fenomeno risale probabilmente a un duplice ordine di fattori: la resistenza alla “finzionalizzazione” dei media, nell’età delle neotelevisioni, e la risposta all’uso “necrofilo” che la parte più provinciale del nostro postmodernismo aveva fatto dei generi e degli stili. I generi letterari sono stati trattati come gusci vuoti con i quali travestire ludicamente i testi. Qui, forse, vi è una delle radici del fenomeno della fusione tra fiction e non fiction, scrittura narrativa e saggio, prosa giornalistica e narrazione.
Se ogni scrittura è caratterizzata da un certo tasso di artificio, e se sembrerebbe più corretto parlare di forme a finzionalità più bassa (diario, reportage) o più alta (racconto, romanzo), c’è comunque una differenza fra chi predilige lavorare sulla “verità” e chi mostra invece di preferire l’ideazione di una storia “inventata” che permetta l’extralocalità o la polifonia per i personaggi, e per il lettore l’empatia anche negativa, e soprattutto quella che Samuel Coleridge ha definito la sospensione dell’incredulità. La critica che predilige scritture di “ricerca” oggi forse tende a avvertire i primi come meno supini al mercato culturale, e al senso comune, i secondi invece più subalterni a quel campo midcult che Simonetti ha ribattezzato “nobile intrattenimento”. Credo che le cose non stiano così: un indizio, se si può chiamare tale, è a esempio dato dallo spostamento di Walter Siti verso il romanzo di finzione. Da Resistere non serve a niente (2012), in poi, la scrittura di Siti sembra abbandonare l’autofinzione e le scritture “ibride”dell’io e attestarsi su soluzioni tematiche e formali non troppo lontane da quelle del “realismo” classico.
Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune(Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013). Dirige la narrativa di Tunué e scrive sul Corriere della Sera.
[Quarta puntata. Qui le risposte dei critici alla prima domanda. Qui le risposte alla seconda. Qui le risposte alla terza.]
[…] partire dai critici interpellati in una grande inchiesta sullo stato della critica letteraria ad opera dello scrittore Vanni Santoni, l’autore e la […]
Interessantissimo
Ho letto tutte le risposte alle quattro domande, vi sono spunti interessanti, quando si dice che il nostro apice è nell’ambito della poesia (Montale, Luzi, Sereni, Zanzotto) e nel cinema (Rossellini, Fellini, Antonioni, Olmi, Moretti, Sorrentino) ma forse meno nel romanzo, è piuttosto vero,
ma magari cambierà e sta già cambiando. Verissimo è il riferimento alla forma racconto, trascurata in modo incomprensibile; tra le cose più belle degli ultimi decenni ci sono i racconti di Alice Munro (la migliore scrittrice scrittore, lasciamo stare i sessi, vivente, colei che ha portato la forma racconto verso nuovi ambiti di complessità), William Trevor (un maestro di umanità e stile) e Lucia Berlin (vivificante come pochi altri).
Altrettanto condivisibile è sostenere, come hanno fatto alcuni (Daniela Marcheschi), che il romanzo vive nel mondo del romanzo, vive di interconnessioni tra romanzi di varie nazionalità, da sempre, vive di intuizioni: è un discorso preso e ripreso da Kundera (altro grande vivente dimenticato in vita), il romanzo vive dell’invenire, del ‘trovare’ strada facendo e scrivendo, dell’immaginazione, dei movimenti mentali dei personaggi, l’immaginazione è nuova mentre le trame si ripetono fin dai tempi dei saggi di Ortega y Gasset. Per cui va bene la lingua nazionale, la precisione, la distanza necessaria dagli automatismi e dai luoghi comuni, la verve letteraria, la prosa d’arte, ma il romanzo – nel mondo – vive anzitutto della memorabilità delle sue intuizioni e dei suoi personaggi.
Per fare un esempio, Coetzee ha una lingua esatta e rapida, ma Coetzee è Coetzee per come costruisce il mondo, anomalo e originale, dei suoi personaggi dolenti.
Per restare alle liste, a me sembra incomprensibile non citare “La furia del mondo” (2006) di Cesare De Marchi, forse l’unico nostro vero capolavoro dei primi dieci anni del nuovo millennio. Cesare De Marchi anche ne “La vocazione” (2010) e in generale nella sua opera completa, ha saputo rappresentare con profondità ed eleganza letteraria l’uomo che fa una tremenda fatica nelle giornate medie, anche e soprattutto senza apparenti motivi; per usare un’espressione cara a Nicola Chiaromonte ‘uomini che soffrono la vita senza sapere cosa rispondere’.
Di Michele Mari, ma non era negli anni presi in considerazione, il suo migliore e sbalorditivo è “Leggenda privata” (2017) che come “La furia del mondo” di De Marchi è passato in secondo o terzo piano e non ha partecipato ai premi che contano.
Letizia Muratori, concordo con chi l’ha citata, è forse la nostra scrittrice più interessante, umoristica e originale. “Animali domestici” (2015) è un libro che meritava molto di più di quanto ha ottenuto. I suoi racconti, inoltre, sono notevoli.
Claudio Magris con i suoi libri passati, ma ancora esemplari, come “Danubio” e “Microcosmi” resta il nostro potenziale Nobel. Siti ho il sospetto che sia piuttosto sopravvalutato, che sia non duraturo. Mi sbaglierò, no so.
Piperno è bravo, in particolare nei suoi saggi narrativi. Paolo Di Stefano è un autore di tutto rispetto, soprattutto nella sua minuziosa opera di rammemorazione come “Giallo d’Avola” e “La catastròfa”. Serena Vitale ha scritto “Il bottone di Puskin” che è un libro soave. Edgardo Franzosini con il suo doloroso, umanissimo “Questa vita tuttavia mi pesa molto” è uno scrittore prezioso.
Una scrittrice bravissima, che ha scritto solo due libri ma mi auguro che ne scriverà altri, è Simona Rondolini, il suo esordio “Dovunque, eternamente” (2014) è un libro che ha la forza degli esordi anomali.
E infine se all’estero apprezzano l’ultimo Starnone di “Scherzetto” e “Lacci” ed Elena Ferrante de “L’Amica geniale”, bisogna pur tenerne conto nel quadro generale di liste interminabili che vanno e vengono come pasta frolla.
Grazie e buona giornata,
Domenico Fina