Logica della ragione soprannaturale

Il soprannaturale è tutt’altro che un concetto randomico. A definire il soprannaturale semmai è la presenza di una Ragione che opera all’interno della Natura, ma la cui sorgente è al di fuori di essa.


In copertina e lungo il testo opere medievali che ritraggono il basilisco.

di Roberto Paura

  1. Soprannaturale

Nel marzo 1957, lo scrittore C.S. Lewis sposò su un letto di ospedale la poetessa Joy Davidman, a cui era stato diagnosticato un cancro incurabile, metastatizzazione di un tumore al seno. Sembrava che la morte di Davidman fosse solo questione di giorni; invece, nelle settimane a seguire si riprese e, sebbene aiutata da un bastone, ritornò a camminare. Nei tre anni successivi la coppia poté anche viaggiare in aereo prima in Irlanda – il paese natale di Lewis – e poi in Grecia. Lewis era uno dei più celebri scrittori cristiani della sua generazione, ma non parlò mai di miracolo; in qualche lettera traspare la tentazione di associare la guarigione inaspettata all’azione della loro fede e delle loro preghiere, ma pubblicamente e probabilmente anche privatamente non ignorava che la remissione dovesse piuttosto ascriversi alla radioterapia e alle cure ormonali. In uno dei passi più drammatici del suo Diario di un dolore (1961), scritto subito dopo la morte della moglie, racconta di come quella «guarigione temporanea che aveva quasi del miracoloso» avesse infuso in loro «false illusioni», perché alla speranza di una misericordia divina seguì il «nuovo supplizio» che avrebbe condotto Davidman alla morte

Ma Lewis non escludeva a priori la possibilità che i miracoli potessero verificarsi. Al tema aveva dedicato, nel 1947, uno dei suoi saggi più penetranti: Miracoli. Uno studio preliminare. Il sottotitolo di quel libro è forse più importante del suo titolo. Lewis non lo aveva usato per sostenere che il suo studio fosse solo introduttivo a un problema più vasto, ma per spiegare che il tema del miracoloso richiede una presa di posizione preliminare, se cioè il soprannaturale possa o meno esistere. Il suo studio intendeva rispondere a questa domanda, prima ancora di quella sulla possibilità dei miracoli. Non si trattava, a suo dire, di una questione che potesse essere risolta dall’indagine storica o scientifica, ma con una discussione a priori che egli definiva nei seguenti termini: il miracoloso implica l’esistenza di qualcosa che vada oltre la natura, vale a dire la realtà fenomenica, perciò quanti sostengono che la Natura sia tutto ciò che esiste – che Lewis definiva “Naturalisti” – non accetterebbero mai la possibilità del miracolo perché esso presuppone una messa in discussione di tale assioma. La parte avversa – che Lewis definiva “Soprannaturalisti” – non necessariamente crede nella possibilità dei miracoli, perché può benissimo essere che le due dimensioni (Naturale e Soprannaturale) non si incontrino mai. Tuttavia, solo accettando la possibilità che esista qualcosa che vada oltre la Natura è possibile svolgere un’indagine sui miracoli. Pertanto, il libro di Lewis, piuttosto che concentrarsi sull’indagine, analizzava la possibilità che la Natura non rappresenti l’unica realtà esistente. 

Quel che rende originale lo studio di Lewis è che la sua analisi non presuppone una dicotomia del tipo Spirito/Natura che è oggi alla base di ogni ipotesi sull’esistenza del soprannaturale, ma su una polarizzazione Ragione/Natura. Ciò che lo scrittore cristiano rifuggiva era la possibilità che si potesse ascrivere al soprannaturale ciò che la scienza, intesa come strumento d’indagine della Natura, non è in grado di spiegare. Per Lewis, Dio (inteso come sorgente del soprannaturale) non può essere un “dio tappabuchi”, un dio che va a riempire le lacune della conoscenza scientifica. Se così fosse, avrebbero ragione quanti sostengono che la credenza nei miracoli sia tipica di un’epoca antica in cui la conoscenza scientifica non era ancora sufficientemente sviluppata e il ricorso al numinoso serviva a spiegare l’inspiegabile. Ma Lewis osservava come questa credenza tipica dei moderni sia sbagliata: la stessa Bibbia mostra quanto lo scetticismo dell’epoca non fosse diverso dal nostro e traesse forza dalla conoscenza delle leggi di natura. Giuseppe vuole ripudiare Maria perché sa benissimo che non si può concepire “senza conoscere uomo”; gli apostoli prendono Gesù per un fantasma quando cammina sulle acque del lago di Tiberiade perché sanno benissimo che non è possibile. Allo stesso tempo – ricorda il Lewis medievista – è falsa la credenza ingenua dei moderni secondo cui per gli antichi la Terra era l’unico mondo racchiuso da una volta celeste non molto distante. Già Tolomeo era consapevole che le stelle erano corpi talmente lontani al cui confronto la grandezza della Terra sarebbe insignificante. Le distanze che separavano la Terra dagli altri corpi celesti erano considerate talmente ampie da essere insolcabili, perché lì risiedeva Dio; ma, a differenza dei moderni, la cui tipica accusa al deismo è che la Terra è un pianeta insignificante rispetto alla vastità dell’universo e pertanto sarebbe assurdo credere che Dio se ne interessi, nei secoli passati la vastità del cosmo non rappresentava affatto un ostacolo alla credenza nel numinoso. E ciò per un motivo molto chiaro che la concezione del “dio tappabuchi” porta a dimenticare: «Il cristianesimo non implica credere che tutte le cose siano state create per l’uomo. Implica credere che Dio ama l’uomo, che si è fatto uomo ed è morto per il suo bene». Questa convinzione implica abbandonare l’idea che il soprannaturale causi il naturale perché la Natura non sarebbe in grado di crearsi da sé, e quindi porta a superare le religioni tradizionali di tipo cosmologico, a cui né l’ebraismo né il cristianesimo sono realmente affini, essendo piuttosto religioni storiche che prevedono un percorso di salvezza operato da Dio nei confronti dell’Uomo. Proprio per questo, a definire il soprannaturale è la presenza di una Ragione che opera all’interno della Natura, ma la cui sorgente è al di fuori di essa; mentre la Natura è il dominio del caso e della necessità, ossia dei processi puramente casuali dell’evoluzione e degli effetti delle leggi naturali, la Ragione opera nella mente umana per renderla in grado di affrancarsi dal puro istinto.

Può sembrare un’affermazione sconcertante, perché siamo abituati a credere che proprio ciò che non è razionale vada attribuito al soprannaturale, non certo la capacità della mente umana di ragionare. Ma la Ragione di Lewis è la precondizione della ragione scientifica: essa è innanzitutto capacità di discernere tra bene e male, ossia il possesso di una morale. Lewis è ben conscio che esistono punti di vista secondo i quali la stessa morale sarebbe il frutto dell’evoluzione per selezione naturale; tuttavia evidenzia le insidie di questa tesi quando quelli che egli definisce Naturalisti, pur sostenendo che la morale non sia che un’illusione della coscienza, affermano che si debba seguire la morale perché l’umanità ha dei doveri che sgorgano da essa. Per Lewis il loro errore consiste nell’offrire «una storia dell’evoluzione della ragione che è incoerente con le asserzioni» che ne conseguono, perché affermare che il ragionamento e quindi la morale discendano da processi naturali «lascia irrisolta la questione, piuttosto differente, di come un simile modo di ragionare possa trovare giustificazione e validità». Ciò che il Naturalista fa per spiegare la sua capacità di ragionare è affidarsi a una spiegazione di tipo utilitaristico, secondo cui l’evoluzione ha trovato utile lo sviluppo negli esseri viventi di una capacità raziocinante. Ne consegue la possibilità di abbondare ogni pretesa di verità: «Si può semplicemente dire: “Il nostro modo di pensare è utile”, senza aggiungere, nemmeno sottovoce, “e quindi vero”». È quanto Ponzio Pilato sottintendeva quando, di fronte all’affermazione di Gesù “chiunque è dalla parte della verità ascolta la mia voce”, replicò con una domanda senza risposta: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,37-38).

  1. Tecnica

Possiamo fermarci qui nella ricostruzione dello “studio preliminare” di C.S. Lewis. Quel che ci interessa della sua riflessione è infatti la possibilità di pervenire a una conclusione che accoglie l’esistenza del soprannaturale ma con due caratteristiche che lo rendono radicalmente diverso da ciò che genericamente associamo all’idea di soprannaturale: la prima consiste nel non ricondurre il soprannaturale al naturale, rifiutando la facile scorciatoia che assegna al miracoloso l’ambito che le leggi naturali a noi oggi note non sono (ancora) in grado di spiegare, come se il soprannaturale fosse una “Natura superiore” che attende di essere disvelata; la seconda è la sua identificazione con la ragione, rispetto al luogo comune che assegna il soprannaturale al dominio dell’irrazionale. Ma Lewis compie un ulteriore passo in avanti: riconosce che a distinguere questa ragione da quella che noi definiamo come tale è il fatto di non essere orientata a uno scopo, mentre il pensiero razionale contemporaneo è essenzialmente di tipo utilitaristico. Questa intuizione ritorna nella proposta che Federico Campagna avanza nel suo Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà (2018), in cui il filosofo italiano pone la possibilità di un «sistema di realtà alternativo» a quello rappresentato dalla Tecnica a cui dà il nome di “Magia”.

C’è da intendersi sui termini: per “Magia” Campagna non intende ciò che generalmente indichiamo con tale termine – poteri occulti di tipo soprannaturale in grado di esercitare un’azione sulla realtà che altera le leggi di natura – esattamente come con “soprannaturale” Lewis intendeva qualcosa di molto diverso dal suo significato corrente. In entrambi i casi abbiamo a che fare, piuttosto, con una diversa “cosmologia”, un modo diverso di intendere la realtà. La Tecnica, per Campagna (che qui segue una lunga tradizione filosofica sul tema), è esattamente quella degenerazione della ragione che Lewis attribuiva ai Naturalisti, ossia una cosmologia utilitaristica: «Cos’altro è la Tecnica, in quanto essenza della tecnologia, se non lo spirito di un’assoluta strumentalità nei confronti della quale ogni cosa è meramente un mezzo per un fine – dove l’unico fine è, ancora una volta, l’espansione senza limiti della capacità di accumulazione produttiva?». La Tecnica è, per usare i termini lewisiani, la realtà secondo i Naturalisti: un modo di interpretare il mondo che ambisce a diventare il modo di interpretarlo, l’unico modo possibile, perché fondato sulla sequenzialità causa-effetto che lo renderebbe conoscibile (ma già Lewis osservava: «Avere una causa non equivale ad avere una dimostrazione»). 

All’interno di questa cosmologia, anche ciò che più di ogni cosa dovrebbe essere assimilato alle verità fondamentali, vale a dire la matematica, assume significato solo se orientato a uno scopo: i numeri, che nella filosofia pitagorica erano intesi come «cosa in sé», diventano semplici posizioni all’interno di una serie, con cui è possibile realizzare la strumentalità algoritmica su cui si basa il mondo moderno. Un’intuizione, questa, che aveva colpito anche Simone Weil, la quale affermava che gli antichi Greci non avessero realizzato macchine perché avrebbero intuito i rischi di un uso strumentale (tecnico) della matematica, a cui i pitagorici attribuivano invece una componente numinosa, il modo con cui Dio si esprime nella Natura: le poche eccezioni, come quella di Archimede, ne confermerebbero la tesi, giacché le macchine prodotte grazie all’applicazione di princìpi primi furono messe al servizio della guerra (nell’assedio di Siracusa). La possibilità che possa esistere una matematica non asservita alla Tecnica avvicina le tesi di Weil e di Campagna al concetto di Ragione proposto da Lewis: è, cioè, possibile conservare il principio di esistenza di una verità ultima anche all’interno di un discorso che non esclude a priori realtà esterne al mondo fenomenico, e questa verità può essere di tipo razionale, come nel caso della matematica, senza pertanto che l’ipotesi del soprannaturale implichi l’abdicazione all’irrazionalismo. L’asserto 2+2=4 resta vero a prescindere dalla cosmologia al cui interno tale asserto viene interpretato. Nella cosmologia della Tecnica esso è posto all’interno di un’interpretazione aritmetica della realtà dove la somma serve ai fini del calcolo e della misura di quantità, che rappresentano gli enti essenziali nel mondo della Tecnica (non a caso, come intuiva Lewis, è in questa cosmologia che si può sostenere che se l’universo è incommensurabilmente più grande della Terra ciò significa che Dio non esiste perché non s’interesserebbe di cose così minuscole come il nostro pianeta; ragionamento che presuppone che il più grande abbia in sé valore superiore al più piccolo, come accade nella società contemporanea in cui chi possiede quantità di denaro maggiori è in sé superiore a chi ne possiede di meno). In una cosmologia alternativa, come quella che Weil attribuiva ai pitagorici, 2+2=4 è invece un rapporto attraverso il quale l’Unità – l’ente soprannaturale da cui la realtà deriva – si diffonde in modo simile all’opera che Dio compie nell’universo per il tramite del Verbo (logos). E in effetti logos, termine che nel Vangelo di Giovanni viene attribuito al termine che traduciamo come Verbo (Gv 1,1), sta per “ragione” (Weil lo traduce anche come “rapporto”): una ragione che rende intellegibile l’universo, ma in modo diverso da quanto fa la Tecnica, che non riconosce ai numeri alcuna essenza ma solo una posizione strumentale. Per questo Weil riteneva rivoluzionaria la scoperta degli incommensurabili attribuita ai pitagorici: la possibilità che non si possa trovare un rapporto tra due numeri esprimibile in termini di quantità, ma che tale rapporto nondimeno esista, rappresentava per la filosofa francese una prova dell’esistenza di una logica che supera quella puramente matematica.

  1. Magia

Si tratta dunque di individuare la possibilità, come suggerisce Campagna, di una «diversa metafisica fondamentale, pur seguendo le regole della metafisica e della cosmogonia». Vasto programma, senza dubbio, le cui premesse il filosofo italiano recupera dall’opera di Ernesto De Martino, che non a caso in questi anni sta ritornando di attualità. Il mondo magico (1948) di De Martino aveva per sottotitolo “Prolegomeni a una storia del magismo”, che riecheggia quello del libro di Lewis pubblicato un anno prima (che De Martino quasi certamente non conosceva). Tutta l’opera si fondava infatti sul tentativo di rispondere a una domanda che l’antropologo italiano riconosceva essere stata scartata a priori dagli studiosi e che invece andava posta preliminarmente a un rigoroso studio del magismo: i poteri magici sono possibili? Anche se quello studio si basava principalmente su rapporti di altri antropologi, in seguito De Martino avrebbe avuto modo di toccare con mano il problema durante le ricerche etnografiche compiute nel Sud Italia, in particolare in Basilicata. Lì il confronto con quella che De Martino definiva la «bassa magia cerimoniale lucana» lo spingeva a suggerire trattarsi di un relitto di un più ampio “momento magico” che l’irrompere dell’«alta cultura moderna» avrebbe infine spazzato via, a partire dai grandi centri dell’Illuminismo, per poi diffondersi con più lentezza nelle periferie (come nel caso dei paesini lucani). Due cosmologie in conflitto di cui De Martino coglie gli effetti proprio agli estremi confini in cui l’una cede il posto all’altra.  

Bisogna però rispondere alla domanda preliminare di De Martino: quanta realtà c’è nel magismo? La grande intuizione dell’antropologo italiano fu di mettere in discussione la tesi dominante riguardo al problema dei poteri magici, quella della suggestione. Certamente la suggestione che porta a credere nell’efficacia dei poteri magici gioca un ruolo determinante, come lo stesso De Martino scoprirà nella ricerca etnografica sulla cosiddetta “fascinazione” in Basilicata (le conseguenze anche fisiche che produce la convinzione di aver subito il malocchio). Tuttavia, il paradosso è che, se si accetta che «per la forza della suggestione si può morire o guarire o diventare insensibili al dolore, si accenna implicitamente a una reale estensione dei poteri volitivi in una sfera che “normalmente” è loro preclusa»: vale a dire che, se si ammette che la suggestione sia in grado di generare effetti sensibili, come tali empiricamente verificabili, si sconfina nel terreno del controllo scientifico dei poteri paranormali. Cosa comporti tale ammissione è forse più chiaro a noi che ai contemporanei di De Martino: si pensi a tutto l’enorme calderone New Age fondato sull’idea della legge di attrazione, ossia sulla possibilità che la mente possieda poteri in grado di agire sul mondo fenomenico e mutarlo a propria volontà. Se affermassimo che la legge di attrazione (che somiglia molto alla fascinazione demartiniana) “funzioni” solo in virtù di un processo di autosuggestione, non faremmo altro che ammettere la sua possibilità di agire sulla realtà sensibile. De Martino replicava invece che la scienza sperimentale si fonda sull’assunto di «una natura purificata da tutte le “proiezioni” psichiche della magia», e pertanto a priori non può ammettere che sia possibile una proiezione psichica – anche frutto di suggestione mentale – in grado di produrre effetti sensibili e misurabili nel mondo naturale. Escludendo dunque ogni tentazione di indagare i fenomeni paranormali con gli strumenti della scienza, dal momento che il mondo magico si pone in antitesi rispetto alla scienza sperimentale, De Martino proponeva al contrario una «comprensione storica e culturale dei poteri magici, attingibili solo mercè la ricostruzione dell’età magica e del dramma esistenziale che la caratterizza»

Per capire la portata di questa proposta, basterà riflettere sulla seguente considerazione di De Martino. Quando il medium sostiene che il suo potere non sia registrabile attraverso strumenti scientifici e quindi venga meno in presenza di osservatori “scettici”, ciò significa assumere che l’osservazione possa influire sul fenomeno osservato, fino a farlo scomparire. Esistono tre possibili spiegazioni di ciò: quella oggi dominante, di tipo psichico, si affida alla teoria della suggestione affermando che il potere paranormale “funzioni” solo in presenza di soggetti suggestionabili (e abbiamo già visto la replica di De Martino a tale spiegazione); quella che potremmo definire pseudoscientifica cerca di fondarsi sulla stessa cosmologia su cui basa il mondo moderno, ossia la scienza, ma interpretata in chiave alternativa: è l’idea tratta dalla fisica quantistica secondo cui «attraverso il dispositivo di misura l’osservatore può influire sul fenomeno osservato» (e sappiamo quanto sbagliata sia questa tipologia di spiegazione); e infine quella storico-culturale, che si fonda sul principio «in sé assolutamente scandaloso per la scienza, che il piano di realtà su cui l’osservatore si muove non è ancora abbastanza dato, onde sembra compromesso tutto quell’ulteriore processo di risoluzione razionale del dato che costituisce il compito del sapere naturalistico».

La tesi di De Martino è dunque che il magismo possa essere compreso solo all’interno di un quadro interpretativo storico-culturale diverso da quello del mondo moderno, e nel quale ciò che noi definiamo “potere paranormale” assume un significato razionale. Perché tale tesi sia ammissibile occorre abbandonare il presupposto che il mondo – inteso come ciò che esiste al di fuori della coscienza umana – sia dato e garantito una volta per tutte, e assumere piuttosto che non solo il singolo essere umano ma la società umana in quanto complesso culturale che conferisce significato al mondo sia costantemente impegnata in un processo di definizione della realtà. Occorre, insomma, ammettere che «la magia possa essere nata come espressione di un rapporto presenza-mondo diverso da quello che caratterizza la nostra civiltà». Tale proposta era certamente troppo eretica perché potesse piacere al clima positivista dell’epoca, e infatti De Martino fu costretto a ridimensionarla negli studi successivi (ma l’avrebbe poi ripresa convintamente negli appunti destinati all’opera postuma La fine del mondo). La sua riproposizione oggi – come nel caso di Campagna – risponde invece a una mutata sensibilità: mettere in discussione l’idea che “il mondo è tutto ciò che esiste” significa spostare sul piano cosmologico-esistenziale la battaglia contro il there is no alternative neoliberista, ossia l’esigenza sempre più avvertita di aprire brecce nell’universo murato della Tecnica. 

  1. Logica

L’espansione della cosmologia tecnica sembra ormai inarrestabile, in forza della sua innegabile capacità di funzionare. Si pensi alla psicoanalisi: l’interpretazione freudiana, junghiana, lacaniana della psiche gode ancora di ampia diffusione e discreto consenso, ma non sfugge il fatto che si tratti innanzitutto di filosofie, non di teorie scientifiche né tantomeno di terapie mediche, benché siano in grado di produrre effetti. Sulla misurabilità di tali effetti il dibattito è però aspro; si potrebbe sostenere che anche l’esorcismo operato da preti appositamente istruiti alla pratica esorcistica nei confronti di soggetti apparentemente “indemoniati” produca effetti, il che viene generalmente ascritto alla suggestione (ma Gesù opera numerosi esorcismi di guarigione all’interno di una cosmologia nella quale numerose patologie psichiche possono effettivamente essere guarite in tal modo). Non è lontano il momento in cui l’accusa di Karl Popper contro la psicoanalisi porterà al suo definitivo accantonamento. Di recente, per esempio, l’epistemologo Gilberto Corbellini non ha esitato a definire la psicoanalisi una pseudoscienza, dal momento che non è possibile stabilirne l’efficacia «in quanto non si possono fare trial clinici randomizzati in doppio cieco stante la tipologia di trattamento». Ci muoviamo dunque probabilmente verso un suo superamento a favore di un sempre più diffuso uso di medicinali per la cura delle patologie mentali, i cui effetti sono invece quantificabili e misurabili.

È chiaro dunque quanto fragile sia la proposta di «immaginare un sistema di realtà alternativo» avanzata da Campagna, ossia «uno spazio in cui gli esseri umani [possano] vivere, agire e fiorire, salvi da ogni annichilente riduzione (…) alle loro dimensioni economiche, produttive, mediche, etniche, identitarie, ecc.». Nulla funziona meglio della Tecnica. Ma è proprio in questo suo successo che è possibile scorgere la strada che può condurre verso un’altra realtà. Essa funziona in quanto è in grado di raggiungere un fine; la sua validità si situa all’interno di una logica volitiva, ossia di una propensione continua al conseguimento di un utile strumentale. La medicina funziona meglio di una preghiera per curare una malattia, perché è stata sviluppata con il fine di curare; ogni tentativo di utilizzare il soprannaturale (inteso, conviene ribadirlo, nel senso di Lewis) per agire sulla natura è destinato inesorabilmente al fallimento e scade nella pseudoscienza, che prende le mosse da un tentativo mal posto di “reincantare” la scienza. Per immaginare una cosmologia alternativa è invece necessario scardinare il perno intorno a cui ruota quella di cui siamo parte: l’agire in vista di un fine. Simone Weil lo intuì perfettamente, annotando nei suoi Quaderni che l’atteggiamento più antitetico al continuo sforzo della volontà è l’attesa, espressa dall’idea cristiana per cui non si viene salvati perché si opera il bene ma perché Dio gratuitamente – dunque non per nostri meriti – giunge a salvare l’Uomo: «Significa sapere che non si può nulla, e tuttavia esaurirsi in sforzi riconosciuti come inutili, nell’attesa umile del giorno in cui forse questo sarà notato dalla Potenza che non si osa implorare». Ciò, secondo Weil, risponde a una “logica della ragione soprannaturale” superiore alla stessa ragione naturale. 

Anche lei, dunque, come pochi anni dopo C.S. Lewis, giunse a comprendere la possibilità di associare al soprannaturale una ragione. Intuizione talmente importante che la sottolineò ulteriormente nel suo quaderno, scrivendo al margine: «La verità più importante». E tale verità è questa: «Ciò che è contraddittorio per la ragione naturale non lo è per quella soprannaturale, ma questa dispone solo del linguaggio dell’altra. Tuttavia la logica della ragione soprannaturale è più rigorosa di quella della ragione naturale». Ecco perché, scrive ancora Weil, la ragione naturale considera “scandalo” l’incommensurabilità della matematica che invece a suo dire i pitagorici accolsero come prova dell’esistenza di una ragione superiore a quella fondata sulle quantità; così come considera scandalosi i paradossi della Trinità, della duplice natura di Cristo in una sola persona, della transustanziazione, del problema del male. Tutto ciò è la prova che una ragione soprannaturale è possibile, ma che la sua logica assume un senso solo all’interno di una cosmologia che rinuncia alla strumentalità, che non fa del mondo una dimensione dove, come scrive Campagna, «ogni cosa è meramente un mezzo per un fine», ma proprio in forza di questa rinuncia riesce a raggiungere la piena verità. 

La possibilità di una ragione soprannaturale non implica dunque il più sfrenato relativismo, il disancoraggio da ogni elemento di verità indipendente dal soggetto, ma si basa sulla convinzione che la verità sia stata offuscata dal sovrapporsi di una sfera di significato che ne ha corrotto completamente il senso ultimo, perché ne ha negato l’esistenza sostituendola con l’utilità. Per rimuovere questo filtro che ci impedisce di raggiungere la verità autentica occorre pertanto superare la ragione strumentale a favore di un’altra ragione, che possiamo definire soprannaturale se ammettiamo che la ragione “naturale” è quella che è orientata al dominio tecnico sulla natura. Sul piano teologico è quello che ha proposto Joseph Ratzinger in una delle sue opere più importanti, l’Introduzione al cristianesimo, scritta poco prima della sua svolta conservatrice:

La fede cristiana in Dio comporta innanzitutto la decisione per il primato del Logos sulla pura materia. L’affermare ‘Io credo che Dio esiste’ include l’opzione in favore dell’idea che il Logos, ossia il pensiero, la libertà, l’amore non stanno soltanto alla fine, ma anche al principio; che il Logos è la potenza che dà origine e abbraccia ogni essere. In altri termini: la fede implica la decisione che pensiero e significato non costituiscano solo un prodotto secondario e casuale dell’essere, ma che tutto l’essere sia prodotto del pensiero, anzi che nella sua stessa più intima struttura sia pensiero.

Ma è un’idea che conserva la sua validità anche in una cornice più laica, che postula un modus vivendi radicalmente opposto a quello oggi dominante e che trae la sua validità da una sfera di senso perfettamente antitetica a quella su cui oggi si basa la nostra civiltà. È quella semplice ma profonda verità che il critico francese Jacques Rivière rintracciò nell’opera di Marcel Proust, in un testo penetrante a lui dedicato dal titolo Alcuni progressi nello studio del cuore umano (1927): «Non esistono altri modi per veder chiaro oltre a quello di non volere. Non esiste altro strumento di verità oltre a quella sinuosità che animava il nostro Proust. Non esiste nient’altro che permetta di passar dietro le apparenze del sentire. Chi vuole, chi si raccoglie, chi si oppone, chi si afferma, non vede più nulla».


ROBERTO PAURA (1986) È GIORNALISTA E SAGGISTA SPECIALIZZATO IN COMUNICAZIONE DELLA SCIENZA. COLLABORA O HA COLLABORATO CON DELOS, ESQUIREFANPAGEIL TASCABILEMOTHERBOARDNOTQUERY. È DIRETTORE DELLA RIVISTA FUTURI E VICEDIRETTORE DI QUADERNI D’ALTRI TEMPI. È DOTTORE DI RICERCA IN COMUNICAZIONE DELLA FISICA ALL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA. HA PUBBLICATO FINORA CINQUE LIBRI.

1 comment on “Logica della ragione soprannaturale

  1. Maria Giovanna

    Kierkegard afferma che ” credere è come stare sulla soglia di un abisso oscuro con la consapevolezza che, se ti lanci, ci sono braccia che ti accolgono”
    La fede non è una scienza, ma nasce dalla decisione di accettare ciò che non si può spiegare.

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