Lolita aveva capito che il sesso può essere transazionale. E anch’io.



Tamara MacLeod, attivista e sex worker, ci parla dell’importanza di distinguere il lavoro (sessuale) dalla schiavitù, e tra ciò che facciamo per piacere e ciò che facciamo per sopravvivere. Le due cose possono a volte intersecarsi senza essere le stesse.


In copertina: Mimmo Rotella, Idrolitina (1963) – Asta pananti di Dicembre

(Questo testo è la traduzione italiana di un articolo precedentemente uscito su Aeon)


di Tamara MacLeod

traduzione di Francesca Anelli (RompiBolle)

C’è un momento nel film di Adrian Lyne Lolita (1997) che resterà  impresso per sempre nella mia memoria. Avevo credo 12 anni, ero rimasta sveglia fino a tardi e lo stavo guardando in tv. Lolita e il suo tutore, amante o carceriere si spostano da un motel squallido all’altro, l’estetica romantica va sfumando e si ritrovano a litigare tra lenzuola sdrucite in una stanza buia. Il letto è coperto di monete. Humbert ha scoperto che Lolita sta nascondendo i soldi che “si è abituato” a pagare per lei, e improvvisamente teme che li stia raccogliendo per scappare, una possibilità che non gli era ancora passata per la testa. Le inquadrature sono intime, violente e stridenti, rotte da una scena successiva in cui Lolita grida: “me li sono guadagnati quei soldi!” Capiamo così che Lolita ha imparato che gli atti sessuali hanno un valore monetario.

La mia personale epifania è avvenuta in circostanze diverse. Come Humbert, alcuni degli uomini che hanno sfruttato la mia vulnerabilità erano probabilmente inconsapevoli del ruolo che stavano giocando nella relazione di potere tra una giovane donna senza soldi e gli uomini che potevano offrirle delle risorse. Humbert la sfrutta. Ma crede anche che ci sia dell’amore tra lui e Lolita. Per lui, l’aspetto transazionale della loro relazione è la vera perversione. Questa cosa lo sconvolge, rendersene conto (o il semplice fatto che Lolita stessa se ne renda conto) lo fa sentire talmente minacciato che la colpisce dritta in faccia. Se ne pente immediatamente e si lascia colpire a sua volta, insistendo però che lei stia zitta.

La violenza di Humbert, il suo rifiuto di accettare “la puttana”, ha origini antiche. Da* fondamentalist* religios* a certi tipi di femminist* radicali, sono in tant* a concordare sul fatto che il lavoro sia rispettabile e persino nobile, e che il lavoro sessuale sia invece degradante e criminale. A dire il vero, il lavoro sessuale a volte è degradante, a volte non lo è. A volte è illegale, spesso è giuridicamente complesso; ma perché non viene inteso come lavoro?

Io so che il lavoro sessuale è lavoro perché è il lavoro che faccio. Ho guardato Lolita molto prima di diventare una sex worker, ma non molto tempo prima di iniziare a scambiare il sesso con altre cose: qualcosa da mangiare, qualcosa da fumare, un posto per dormire, un’opportunità di lavoro. Mi identificavo con Lolita, e sapevo anche di simpatizzare per Humbert. Dopo tutto, questo è il talento di Vladimir Nabokov, che ancora, nel XXI secolo, ci lascia combattut*. Vedo la mostruosità dell’uomo che rapisce Lolita, ma sono più interessata a Lolita la sew worker. Ho letto il libro (originariamente pubblicato nel 1955) quando avevo 14 anni e mi ha messo a disagio, ma mi sono sempre sentita a mio agio nell’essere messa a disagio. Il romanzo che ho letto riguardava una giovane ragazza le cui sfortunate circostanze l’hanno costretta a crescere troppo in fretta, come si suol dire; una ragazza che era tanto intraprendente quanto vittima. La critica di Lolita ci chiede spesso di prendere una posizione binaria: Lolita è una vittima o una puttana? Humbert è un eroe tragico o un mostro? Perché non possono essere vere entrambe le cose? Dopo tutto, sono cresciuta in un mondo che insisteva perché occupassi un corpo sessualizzato, e poi mi ha punito per averlo fatto senza vergogna.

La prima volta che ho notato un interesse sessuale nei miei confronti da parte di un uomo adulto avevo 11 anni. Quel giorno si è svegliato qualcosa in me e ho imparato a flirtare. Ho vissuto gli anni successivi sapendo che avrei potuto avere in cambio qualcosa se avessi smesso di arrossire e accettato il mio ruolo di corpo sessualizzato. Ho vissuto alla periferia della povertà più assoluta, e ogni sguardo prolungato, ogni molestia per strada è diventata un’opportunità. Ho capito che c’era un mondo di uomini desiderosi di offrirmi denaro, conforto e una via di fuga in cambio di ciò che avevo: bellezza e giovinezza. Forse se avessi avuto un padre o una casa stabile, la presa di coscienza legata a quel flirt si sarebbe fermata lì, ma non è stato così. Le circostanze mi hanno fatto diventare una giovane donna con la ferma consapevolezza del fatto che la mia attrattività sessuale poteva procurarmi ciò di cui avevo bisogno per sopravvivere. Avevo anche una buona dose di miei personali desideri sessuali, ma in forma duplice: quella, appunto, di desiderio, e quella di moneta di scambio.

Il femminismo sex positive (N.d.T con un approccio positivo e non giudicante nei confronti della sessualità) mi ha aiutato a difendermi dalla vergogna più corrosiva, ma non sono neanche all’oscuro delle ragioni strutturali che mi hanno portato, in prima battuta, a vendere sesso. In un mondo ideale, non dovrei fare alcun lavoro di tipo sessuale, non dovrei fare proprio nessun lavoro che non abbia voglia di fare. Ma siamo molto lontani dall’Eden. È perfettamente coerente essere molto critici nei confronti delle disuguaglianze economiche e di genere che danno origine al lavoro sessuale e continuare a difendere le lavoratrici del sesso. Il modo per affrontare questa dissonanza cognitiva è guardare la questione da un’altra prospettiva.

 

Mimmo Rotella, Idrolitina (1963) – Asta pananti di Dicembre

Nel 2018, l’attrice statunitense Ashley Judd, insieme ad altre ricche celebrità, si è schierata con il movimento per la criminalizzazione del lavoro sessuale. Si tratta di una posizione che si fa beffe delle opinioni della stragrande maggioranza delle vere sex worker o di Amnesty International e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Judd ha rilasciato una dichiarazione su Facebook che è rappresentativa di un tipo di femminismo che generalmente non si applica alle donne della classe operaia: “non si può acconsentire al proprio sfruttamento”. La dichiarazione equipara il consenso alla soddisfazione, e lo sfruttamento a qualcosa come “avere meno di ciò che mi merito”. La realtà, in un mondo capitalista, è che la maggior parte di noi acconsente al proprio sfruttamento per sopravvivere. È così che funziona il lavoro nell’epoca del capitalismo. La preoccupazione per come le donne usano il proprio corpo non dovrebbe renderci ciechi di fronte al fatto che il lavoro sessuale è come tutti gli altri lavori.

È importante distinguere il lavoro (sessuale) dalla schiavitù, e quello che facciamo per piacere da quello che facciamo per sopravvivere. Dobbiamo capire che queste cose possono intersecarsi a volte senza essere le stesse. Questa visione ci permette di vedere le richieste delle vere sex worker (che generalmente è essere lasciate in pace a lavorare nelle proprie comunità senza alcun intervento di regolamentazione o criminalizzazione) come giuste e urgenti, riconoscendo allo stesso tempo che è importante trovare modi efficaci per combattere il traffico sessuale.

Nel suo libro Playing the Whore (Fare la puttana) (2014) , Melissa Gira Grant offre un’eccellente analisi dei modi in cui la lotta delle femministe del XX secolo per distruggere i confini tra il mondo della casa e quello esterno, riconoscendoli entrambi come luoghi di lavoro, hanno posto le basi per una miriade di iniziative a difesa dei diritti dei lavoratori. Lo stesso vale per l’impegno delle femministe per far sì che il lavoro delle donne – in gran parte confinato alla casa e bistrattato – venisse equiparato a quello retribuito degli uomini e come tale legittimato. Tuttavia, penso sia stata la coscienza borghese del femminismo liberale ad aver  escluso il lavoro sessuale dalla propria piattaforma. Dopo tutto, le donne più ricche non avevano bisogno di fare lavoro sessuale comunemente inteso; operavano all’interno dei confini transazionali del matrimonio, così come vengono sanzionati dallo stato. L’insoddisfazione della casalinga del XX secolo è stata codificata come una lotta per la libertà e l’indipendenza una volta soddisfatti i requisiti dell’esistenza materiale, rendendo il discorso femminista sul lavoro meno incentrato sul fatto che è qualcosa che dobbiamo fare, e più sulla ricerca di ciò che vogliamo fare. È emersa una distinzione nell’ambito del lavoro femminile: se non ti piace fare sesso con tuo marito, c’è un problema nel tuo matrimonio. Se non ti piace fare sesso con un cliente, è perché non si può acconsentire al proprio sfruttamento. È una visione binaria del sesso e del consenso, del lavoro e del non-lavoro, mentre la realtà è più sfumata. Si tratta di un rifiuto ostinato della complessità delle relazioni umane, e forse della stessa psicologia umana, che discende dagli assolutismi radicali e ossessionati di Andrea Dworkin.

La casalinga che si è sposata per soldi e poi finge i suoi orgasmi, la madre single che fa sesso con un uomo che non le piace molto perché le offre un attimo di tregua: dove sono i confini tra consenso e sfruttamento, sesso e dovere? La prima volta che ho scambiato del sesso con un guadagno materiale, avevo delle scelte, ma erano limitate. Ho scelto di essere sfruttata da un uomo con le risorse di cui avevo bisogno, ho preferito la sua casa al non avere alcuna casa. Lolita era una bambina, ed era sfruttata, ma era anche consapevole della funzione che  aveva il suo corpo in un’economia patriarcale. Dal punto di vista filosofico, la maggior parte di noi acconsente di fatto al proprio sfruttamento.

Juno Mac e Molly Smith forniscono un’analisi interessante nel loro libro Revolting Prostitutes (Prostitute che si ribellano) (2018). Le voci delle persone all’interno del loro libro non devono essere ignorate; ma soprattutto, sappiamo che gli scambi di tipo sessuale sono complessi, che spesso le persone hanno motivazioni poco chiare e, forse più di ogni altra cosa, che l’economia globale ci sta danneggiando. Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con la libertà, il consenso, il piacere e il lavoro.


Tamara MacLeod è lo pseudonimo di una scritttrice freelance, sex worker e attivista con sede in Inghilterra.
 
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