Ma – incredibilmente – è la cultura, diventata ormai un apparato conservatore senza possibilità di critica. Tra chi fa cultura ci si conosce e ci si riconosce, e anziché approfondire la realtà si partecipa a una serie di riti di appartenenza. A pensarla così è Goffredo Fofi, filosofo e autore di L’oppio del popolo.
In copertina, e lungo il testo, Opere dello scultore polacco Krzysztof Bednarski
di Matteo Moca
Operando uno spostamento rispetto alla celebre citazione di Marx riguardo alla religione, il nuovo libro di Goffredo Fofi (pubblicato da Eleuthera) che si intitola L’oppio del popolo, individua nella cultura il nuovo strumento di controllo e di intorpidimento di massa.
La tesi, non recente ma lungamente riflettuta, a sottolineare la lungimiranza e l’accortezza di Fofi, è che «la cultura, come oggi il Potere la intende e come noi abbiamo accettato che sia, non è più conoscenza», bensì un «raffinato strumento per ottundere le coscienze e renderci conniventi con il mondo così com’è»: sta in questa definizione il nuovo oppio del popolo da cui siamo continuamente pervasi e sommersi per essere pian piano trasformati in «giocondi lotofagi». Un’argomentazione forte e provocatoria com’è nello stile di Fofi, ma leggendo questo libro che si interroga sulla situazione della cultura in Italia, sul ruolo della pedagogia e sulla funzione del sociale, e quindi, più in generale, sulla funzione pubblica e politica della cultura, ci si accorge di come l’autore dipinga, a tinte fosche, ma con realismo, quello che è lo scenario contemporaneo in cui ci si muove, dove il grande recipiente della cultura si è trasformato in un dispensatore in grado di alleggerire la nostra percezione del mondo, smussarne gli angoli e le complessità e indorare gli orrori quotidiani. Come annota Fofi nel libro il mondo della cultura comprende oggi moltissime persone: «Non so quanti siamo in Italia a campare di cultura, ma siamo milioni, la più grande fabbrica è quella, non è l’automobile, è la comunicazione, la cultura, la scuola, i musei, i giornali, l’editoria, il cinema, il teatro, la musica, il turismo». È forse anche legato a questo aspetto pervasivo l’incapacità di riconoscere questa gabbia, una comunanza in larga scala di situazioni che porta a un offuscamento della percezione: sono allora tanti i destinatari di questo libro, che si apre a interrogazioni che esulano immediatamente dal saggio stesso e si trasformano in domande urgenti e non rimandabili, perché è «la cultura la vera grande industria del nostro tempo, nel mondo occidentale» e come ogni grande industria deve oggi essere studiata e valutata (e basti pensare, per farsi un’idea dei possibili coinvolti nella discussione, a insegnanti, giornalisti, amministratori, funzionari, cinema, teatro, festival, radio).
Leggendo il libro torna alla mente un episodio di quel memorabile affresco dell’umanità che è la Commedia umana; Balzac in uno dei volumi che la compongono, Illusioni perdute, pone la propria attenzione proprio sul mondo della cultura, certo diverso per caratteristiche rispetto a quello di oggi, ma tanto sorprendentemente simile per le dinamiche e i meccanismi che ne guidano il funzionamento, un libro capace quindi di parlare con efficacia ancora oggi a chiunque si trovi a lavorare o frequentare questi ambienti.
Protagonista della vicenda è il grandioso e tragico protagonista Lucien Rubempré, un giovane scrittore di provincia mosso da un insaziabile desiderio di gloria che decide di trasferirsi a Parigi per trovare soddisfazione. Lì tenterà di pubblicare i suoi romanzi ma incontrerà solo insuccessi, finché, decidendo di ripiegare sul giornalismo politico e culturale, conquisterà una certa fama. Ma anche questo momento è destinato a durare molto poco, perché i mezzi che utilizza per raggiungerlo, su tutti un disinvolto trasformismo politico e una cieca obbedienza alle leggi del mercato, sono gli stessi che lo porteranno alla rovina e al ritorno nella provincia da cui era venuto. Lucien, nell’arco dei suoi giorni di gloria, impara molti segreti per farsi benvolere, come quando l’editore Lousteau gli spiega quali siano le motivazioni, assolutamente non estetiche, che possono portare a stroncare un libro, a ignorarlo oppure osannarlo; è facile ravvisare in quelle pagine le strutture e i vizi di molte recensioni odierne. Già solo raccontando questi piccoli aspetti del romanzo, il riferimento all’oggi appare abbastanza scontato, con recensioni che sempre più assomigliano a omaggi, la sorprendente notizia che non esistono libri che possono essere valutati insufficienti (vedere le recensioni del week-end di Repubblica per fare un esempio immediato), dinamiche editoriali segrete che non sono più tali e la consapevolezza dell’esistenza di un forte fenomeno di appartenenza, che porta a riconoscersi, ed essere riconosciuti, come parte di un gruppo ben definito. Non c’è, in linea di massima, qualcosa di negativo nell’unione in gruppi, anche se esiste la possibilità che questi si trasformino pian piano in ambienti totalmente chiusi e autosufficienti, dove dunque non esiste alcun bisogno di opporsi alle presenti condizioni e, di conseguenza, non c’è necessità di valutare o di fare distinzioni, basta accettare le cose così come sono. È a questo meccanismo che Fofi fa riferimento nel suo libro, dove mostra come questo modo di pensare non sia solo la prassi nel mondo della cultura, ma anche negli ambienti politici e sociali, sottolineando come ci sia stato un assopimento collettivo: la cultura come forma di potere diventa allora un simbolo da sventolare in festival e raduni di intellettuali, svuotata della sua natura più radicale e offerta come fenomeno di emancipazione culturale (tra le pagine di Fofi si possono ravvisare spesso le idee di Dwight MacDonald e del suo fondamentale Masscult e Midcult). Tra i molti riferimenti di L’oppio del popolo, oltre al sociologo Lasch le cui opere rappresentano un importante faro per i nostri giorni, c’è anche August Strindberg: il drammaturgo svedese scrisse, tra l’altro, un aureo articolo, perfetto per ridimensionare maître à penser o presunti tali, Sopravvalutazione del lavoro culturale (pubblicato dalle Edizioni dell’asino). In quell’articolo Strindberg invitava scrittori, drammaturghi, giornalisti e poeti a tornare con i piedi per terra e a riconoscere il vero valore delle cose, a «non sopravvalutare, né se vediamo dei passi avanti né delle cadute, perché in tal modo ci risparmiamo dalle illusioni, il cui infrangersi paralizza la nostra forza» perché «è un brutto periodo quello in cui viviamo, ma è tremendamente utile! Non sopravvalutiamo gli effetti del nostro lavoro, in modo che i nostri figli non diventino disillusi e fiacchi quanto noi».
-->Per riuscire a sbloccare questo circolo vizioso è però necessario, oltre che ridimensionare lo sguardo, cercare di procedere a un lavoro di riorganizzazione del proprio Io: anche su questo le parole di Fofi sono abbastanza precise e penetranti, andando ad attaccare il narcisismo (fondamentale resta un altro libro sempre di Lasch che reclama da tempo una doverosa ristampa, La cultura del narcisismo), responsabile nel portare l’io a uno stato di «malattia» che si riversa soprattutto in chi ha delle ambizioni intellettuali, costretto in uno sfrenato individualismo: «io penso, io scrivo, io recito, io filmo, io disegno, io canto, o ancora, io mi faccio un blog, io apro un sito e mi basta questo per illudermi di essere qualcuno, di esistere in quanto IO».
Si tratta ovviamente di un problema annoso e ben radicato nell’animo umano, se già Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani si interrogava, così come anche in altre sue opere, sulla solitudine dell’intellettuale, soprattutto quando si decide a esprimere le proprie idee assecondando solo l’amore per la verità e non quello per le conventicole. In un recente pezzo su “Il Foglio”, Alfonso Berardinelli ha sottolineato la modernità del Discorso di Leopardi e la sua importanza in relazione alle figure degli intellettuali oggi, «i quali fanno società felicemente e mondanamente tra loro a forza di sorrisi complici e di omertà (io non ti critico affinché tu non critichi me), l’intellettuale non può essere altro che una piccola star mediatica, o un esperto settoriale, o una nullità sociale». La nuova edizione del Discorso pubblicata recentemente da Nino Aragno (accompagnato dai Detti memorabili di Filippo Ottonieri, altro testo dove riconoscere ancora il Leopardi pensatore radicale, il quale, come il suo Filippo Ottonieri, «parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini») è arricchita da un bel saggio di Giulio Bollati sul rapporto tra intellettuali, politica e potere dove il critico descrive un cambiamento in atto (tra gli anni Settanta e Ottanta) nella natura della cultura, per cui gli spazi iniziano a diminuire e lo statuto inizia a sfumare in qualcosa di molto simile a quello che Fofi descrive nel suo libro: «Ricordo – scrive Bollati in questo saggio – il discorso scherzoso ma non tanto (come poi si è visto) che mi fece un alto dirigente comunista dopo il successo elettorale del 1976, sostenuto, tra l’altro, da una massiccia adesione di uomini di cultura e delle professioni: “E adesso come faremo a intrattenere tutti questi intellettuali? Bisognerà organizzare un bel numero di convegni”».
Nel suo libro, e come in tutta la sua lunga esperienza culturale, Fofi riesce però a non scivolare mai in un nichilismo senza via di uscita («è compito di tutti, e in particolare di chi si dice intellettuale, cercare forme di resistenza e modi per contrastare la china e l’abulia, l’amoralità e la violenza che dipendono anche dalla nostra assenza») e a proporre con spirito battagliero degli strumenti e delle idee di resistenza, in un capitolo finale, dal titolo tolstojano Che fare?, che contribuisce a lasciare nel lettore un’ulteriore e importante mole di riflessioni. Innanzitutto è auspicabile «non lasciarsi fregare da questo mare di ricatti, rompere le scatole» e ripartire dalle grandi domande, quelle che Tolstoj diceva fatte dai bambini, come «perché sono al mondo, perché il mondo è, o è diventato, quello che è», domande rispetto alle quali la cultura di oggi, quella contro cui si scaglia Fofi, ha distrutto la necessità, concedendo risposte facili e semplici da accettare. L’altro luogo da preservare, descritto in alcuni passaggi dove il ragionamento di Fofi è molto facilmente condivisibile, è la scuola come luogo di conflittualità positiva, un campo dove la pedagogia deve riacquisire il suo valore e cancellare l’appiattimento su numeri e competenze, dove gli studenti possano provare le difficoltà della crescita, le idiosincrasie della realtà; fuori dal muro di ovatta che sembra ormai appartenerle la scuola deve tornare a rappresentare un’isola felice rispetto all’asservimento culturale imperante.
Adriano Prosperi, nel suo ultimo e appassionante libro, La vocazione, analizza la nascita della Compagnia delle Opere e la figura del gesuita, mettendo in luce la forza di un gruppo capace di far seguire ai propri valori una forte azione pratica e in grado di difendere gli oppressi, anche quelli culturali. Secondo Goffredo Fofi è questo quello di cui necessita il nostro presente: dei nuovi gesuiti, nuovi «esploratori della realtà, attenti tanto alla novità che alla diversità», in grado di leggere con successo il nostro tempo presente, «avanguardie di una nuova umanità e di una nuova convivenza, tra gli uomini e con le creature».
Concordo .
Parole sante. Chi conosce il mondo del teatro, dell’arte, della scuola e compagnia bella, sa benissimo di cosa si sta parlando. In Italia c’è un’enorme mare di “fuffa” alimentato per interessi petsonali, economici, politici, di prestigio e quant’altro e che non fa altro che allontanare sempre più le giovani generazioni dalla realtà e favorire solo una chiacchiera infinita che uccide la cultura invece che alimentare un autentico spirito critico e la ricerca della verità. Se poi si aggiunge che questa cultura clientelare, dove tutti reciprocamente “se la cantano e se la suonano”, è spesso la quasi unica alternativa a una devastante cultura di massa desolatamente trash, si comprende bene perché questo paese sta così tristemente languendo.
Il cammino che ha portato ad una classe culturale non eccelsa e autoreferenziale inizia con un’ubriacatura ideologica che spaccia per cultura anche la più assoluta superficialità.
La mia convinzione è però che in tempi di grandi distorsioni cognitive ognuno abbia il suo compito su cui deve impegnarsi se non vuole arrendersi al nulla che avanza.
Per adesso, il mio tentativo è di creare un gruppo su un social network perché è proprio tra i suoi frequentatori che si evidenzia la vastità del problema. L’atteggiamento supponente riguardo al problema – la critica di Eco, segnatamente – non serve a nulla.
Spero in futuro di aggiungere altri modi per servire chi meglio di me e con più sapienza può battersi per un problema che nel nostro Paese a me pare enorme.
Per adesso, quel che faccio è tutto qui:
https://m.facebook.com/groups/2345513339036604
A mio avviso, comunque, il problema nasce ancor prima di quanto ho detto, l’esito moderno era già ampiamente contenuto nel passato. Ma non voglio adesso debordare scrivendo a mia volta del problema.
“Che fare?” era tolstojano o non piuttosto il titolo di un’opera di Lenin?
Comunque, buona recensione e interessanti spunti di Fofi.
Giusto, anche a me sembrava una citazione stonata. Comunque dalla recessione sembra un libro interessante.
é entrambe le cose. Il libro di Tolstoj è precedente (1886) rispetto a quello di Lenin.
Scrive il filosofo Goffredo Fofi in “L’OPPIO DEL POPOLO”«la cultura, come oggi il Potere la intende e come noi abbiamo accettato che sia, non è più conoscenza», è invece un «raffinato strumento per ottundere le coscienze e renderci conniventi con il mondo così com’è»
Questo è il nuovo oppio del popolo che ci pervade e ci sommerge e ci trasforma pian piano in «giocondi lotofagi».
A mio avviso la domanda che dobbiamo porci è:”Da dove si origina quest’oppio?”Marx pensava che l’origine dell’ottundimento delle coscienze risiedesse nella religione che non permetteva una critica profonda e serrata allo stato di soggezione e sfruttamento dei lavoratori e delle classi subalterne.
Oggi invece, secondo le mie riflessioni, le cause di questo intorpedimento e ottundimento delle coscienze, di questa mancanza di volontà di criticare il sistema vigente sono due.
La prima è la paura di perdere il relativo grado di benessere economico raggiunto dalle masse occidentali e in parte dai lavoratori che fa accettare lo stato attuale.
La seconda è l’incapacità di saper criticare lo stato attuale delle cose esistenti.
Questa seconda ragione discende direttamente dall’incapacità critica della cultura ufficiale mass-mediatica e degli intellettuali che sembrano avere come scopo preminente quello di autoincensarsi e autocompiacersi per far parte di un gruppo di privilegiati che a vicenda riesce a garantire visibilità e vendite.
All’interno di questa seconda ragione convivono due aspetti essenziali strettamente legati l’un con l’altro. Il primo aspetto è quello di assicurarsi visibilità, aspetto governato dal terrore di non poter apparire e potenziato all’inverosimile dal narcisismo di presunti scrittori e presunti intellettuali. Una vera e propria malattia sociale e individuale come è stato messo ben in luce dal sociologo Lasch e dal drammaturgo svedese August Strindberg nel suo articolo “Sopravvalutazione del lavoro intellettuale”. Una malattia pericolosa che induce a guardare sè stessi come il centro del mondo, a credere di detenere la verità e a non avere più bisogno del punto di vista degli altri ma ad aver bisogno soltanto dell’approvazione e delle lodi di coloro che fanno parte del nostro stesso gruppo.
Ci si chiude consapevolmente o inconsapevolomente nei propri pregiudizi e in un solipsismo deleterio cercando in tutti i modi di nutrire il proprio io solipsistico che ci fa considerare gli altri come strumenti da utilizzare ai nostri fini.
Il secondo aspetto è quello economico, il bisogno di vendere che con l’assicurarci il benessere economico ci permette di essere conosciuti e famosi. Da quanto detto segue che la critica allo stato attuale delle cose non solo è considerata inopportuna e totalmente inutile agli scopi che si prefiggono i pretesi intellettuali ma addirittura altamente dannosa. Se è questa la debolezza intrinseca del ceto intellettuale non c’è alcuna meraviglia che la cultura critica e feconda di risultati e progressi che non siano solo tecnologici ma scientifici, filosofici e umanistici non possa esistere ai livelli medi, i livelli per intenderci che pertengono alla scuola e all’università.
Prof. Sebastiano Dell’Albani,cultore non ufficiale di scienze filosofiche, Università di Catania.