Storia della storia del cosmo

Dalla cosmologia alla mitologia, il filosofo ci porta in un viaggio attraverso la storia e attraverso prospettive disciplinari diverse, per presentare una visione del mondo e del pensiero umano complessa, creativa, in evoluzione.


In copertina e nel testo: Athos Ongaro, Santorini (2002)

(Questo testo è tratto da “Evoluzione senza fondamenti” di Mauro Ceruti. Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione)


di Mauro Ceruti

I corpi celesti ancora cinque secoli fa si riducevano ai sette “pianeti” (Luna, Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno), e le stelle fisse erano incastonature nel contenitore estremo che segnava i limiti dell’universo. Lo sgretolamento del “mondo chiuso”, cioè di un universo finito con al centro, immobile, la Terra, ha condotto alla scoperta e all’esplorazione dello spazio profondo. Questa esplorazione fu iniziata da Galileo, che volse il suo cannocchiale verso i satelliti di Giove: oggi è continuata dagli astronomi che con i loro telescopi e radiotelescopi scrutano il cielo alla ricerca di quasar, di stelle di neutroni, di buchi neri. La scienza parla ormai di milioni e di miliardi di stelle, riunite in galassie, in ammassi di galassie, in ammassi di ammassi di galassie.

Quanto alla storia dell’universo, ancora alla fine del XVIII secolo si riteneva che avesse avuto luogo negli stretti margini dei 6.000 anni della narrazione biblica, una quantità di anni che pareva perfettamente consona alle testimonianze disponibili sulla storia della natura e delle civiltà umane. Lo sgretolamento della “storia chiusa”, nella quale la specie e l’intelligenza umane erano la suprema vetta di una gerarchia naturale immutabile, ha condotto alla scoperta e all’esplorazione del tempo profondo. Questa seconda esplorazione fu iniziata dai naturalisti che alla fine del Settecento disseppellirono i primi resti fossili di mammuth e di dinosauri: oggi è continuata dai cosmologi che studiano un resto fossile ben più remoto, la radiazione a 3° K, ultimo residuo di quell’esplosione originaria (Big bang) da cui pare abbiano avuto origine il nostro universo, il nostro spazio e il nostro tempo. La scienza si riferisce a scale temporali immense: di milioni di anni, per quanto riguarda le origini della specie umana; di centinaia di milioni di anni, per le origini degli animali e delle piante pluricellulari; di miliardi di anni, per le origini del nostro pianeta e della vita sul nostro pianeta; di decine di miliardi di anni, per le origini del cosmo…

L’abisso che separa le dimensioni spaziali e temporali dell’universo medievale dalle dimensioni spaziali e temporali dell’universo attuale è davvero enorme. Nel corso dell’età moderna, l’umanità ha vissuto una vertiginosa esperienza di decentrazione della sua collocazione cosmica.

Tuttavia, l’esplorazione dello spazio profondo e l’esplorazione del tempo profondo non sono semplicemente tappe successive di una medesima esplorazione, l’una conseguente all’altra. Al contrario, sono due scene distinte, in cui si sono sviluppate forme di conoscenza, visioni del mondo, metafisiche, cosmologie divergenti e discordanti, il cui conflitto e la cui ibridazione hanno conferito alla nostra tradizione scientifica un significativo carattere polifonico.

Nel Settecento, mentre la cronologia biblica era ancora condivisa da tutte le società occidentali, fisici, astronomi e matematici avevano già posto le basi di quella scienza che sarà poi definita classica: una scienza basata sui moti archetipi di pianeti, pendoli e palle da biliardo, ardito tentativo di ordinare le immense profondità dello spazio nel quale gli esseri umani si erano improvvisamente trovati immersi.

Nell’Ottocento e nel Novecento, la scoperta e l’esplorazione della storia degli esseri viventi hanno mostrato l’impossibilità di fondare le scienze evolutive su alcuni presupposti che la scienza classica ha considerato generali e generalizzabili.

Nella scienza di fine millennio la cosmologia emersa dall’esplorazione delle profondità temporali del nostro pianeta e dell’universo stesso ha messo in discussione la cosmologia che aveva guidato le prime esplorazioni delle profondità spaziali.

Un ordine nascosto

Agli albori della tradizione scientifica moderna, una profonda crisi e un grande disorientamento accompagnarono l’esplosione dei confini (fisici e simbolici) del cosmo medievale. Le scoperte astronomiche di Copernico e di Tycho Brahe, di Keplero e di Galileo fecero presagire un’inopinata profondità ed estensione spaziale dell’universo. La rivoluzione celeste provocò la disgregazione di un cosmo, il venir meno di un ordine univoco e gerarchico. E mise in discussione risonanze e simmetrie fra l’architettura del sapere e l’architettura dell’universo.

Le origini del pensiero filosofico e scientifico moderno furono segnate dalla necessità di ricostruire un cosmo, di riscoprire un ordine.

Qualunque cosmologia, qualunque immagine dell’universo è vincolata all’origine antropocentrica della conoscenza dei processi e dei sistemi del cosmo. Le conoscenze della specie umana (la quale è un esito particolare della storia naturale in un pianeta altrettanto particolare) nascono centrate su scale spaziali e temporali assai precise e limitate, commensurabili alle esperienze sensoriali e alle strutture naturali dell’intelligenza. Ogni estensione delle conoscenze è quindi sempre inevitabilmente problematica.

Nella storia della scienza moderna, queste estensioni sono state molteplici e ricorrenti. Quasi ogni nuovo dominio di indagine si è accompagnato a una discontinuità nelle tecniche sperimentali (dal cannocchiale ai radiotelescopi, dal microscopio ottico al microscopio elettronico, ecc.), o a una discontinuità negli apparati concettuali considerati ammissibili (il ricorso ai numeri “immaginari” per la soluzione delle equazioni algebriche, ecc.)…

La riuscita di queste estensioni è stata giustificata sulla base di un postulato di continuità della realtà. Si è in altri termini assunto che i differenti livelli di realtà fossero raggiungibili attraverso generalizzazioni ed estrapolazioni dalla parte al tutto.

Ciò equivale ad asserire che non possano esistere ordini ontologici autonomi, cioè ordini che si diano la propria forma (legge), che abbiano cioè in se stessi principio di creazione di forma. Ovvero: l’universo sarebbe il risultato di un piano unitario, e predeterminato nel suo sviluppo.

La negazione dell’esistenza di ordini ontologici autonomi era già stata una caratteristica della prospettiva che portò a delineare il cosmo aristotelico-tomista. Gli enti di tale cosmo erano ordinati secondo una gerarchia classificatoria compiuta e chiusa, che definiva contemporaneamente l’ordinamento delle conoscenze e l’ordinamento dei valori. L’etica si intrecciava con l’epistemologia, e i limiti del cosmo corrispondevano ai limiti del pensiero. Era esclusa la possibilità di una trasformazione delle gerarchie, e quindi dell’evoluzione del cosmo stesso, perché ciò avrebbe significato l’allontanamento dalla perfezione del piano divino definito prima del tempo e al di fuori del tempo.

Nel corso dell’età moderna, la delineazione di un nuovo cosmo, che pure si andava caratterizzando per innumerevoli aspetti come alternativo al cosmo aristotelico, è stata anch’essa guidata da un postulato di continuità della realtà. Le rivoluzioni cosmologiche e fisiche che fecero esplodere la finitezza e i confini del cosmo aristotelico resero presto concepibile un universo indefinitamente estensibile, senza confini apparenti, forse infinito. Per controllare e dominare un tale universo, fu esplorata la via che portava a filtrare l’infinito nel finito, a ridurre il diversificato all’omogeneo, a determinare una mappa che riproducesse i tratti essenziali di un territorio sempre più frastagliato. Questo programma si tradusse nella ricerca di un nucleo finito di leggi, di presupposti, di metodi che consentissero di accedere a scale spaziali e temporali remote, non importa quanto lontane dalla collocazione degli osservatori umani, e di omologare le molteplici dimensioni del cosmo. Prese corpo la convinzione che un ordine invisibile e semplice fosse nascosto dietro alla complessità del mondo visibile. La conoscenza di quest’ordine nascosto avrebbe consentito di ridurre la molteplicità e la varietà degli oggetti e dei processi naturali a poche leggi (formulabili in modi semplici, economici e astratti), in grado di definire le condizioni necessarie e sufficienti per spiegare ogni fenomeno, celeste o terrestre, passato o futuro, reale o possibile.

Per molti sistemi del nuovo universo newtoniano, dominato dalle orbite ripetitive dei corpi celesti e dai moti idealizzati studiati dalla meccanica, semplificazioni e previsioni risultarono possibili. Sulla base di questi successi, la grande scommessa della scienza classica divenne quella di ottenere il controllo, attraverso semplificazioni e previsioni riuscite, di ambiti spazio-temporali sempre più ampi.

Athos Ongaro, Santorini (2002)

Una scienza dell’eternità

La ricerca di un ordine invisibile e semplice, nascosto dietro la complessità dei fenomeni, ha posto l’esigenza di distinguere fra rilevante e accessorio, fra permanente e transitorio, fra essenziale e superfluo… Isabelle Stengers ha analizzato molto bene il tipo di razionalità che ha definito la scienza classica e che è stata alla base dei suoi straordinari successi. È la razionalità dello sperimentatore, volta a costruire un laboratorio quanto più possibile purificato da ogni elemento parassita, in modo che i fatti possano “in modo immediato, ateorico, dettare la propria lettura a condizione che nessun pregiudizio venga a oscurare la mente del lettore”. In questa prospettiva, i “fatti” sono quelli ottenuti in condizioni sperimentali perfettamente controllabili e controllate. La ripetibilità dell’esperimento è condizione indispensabile: può darsi scienza soltanto del ripetibile, e quindi soltanto delle regolarità generali. Ma per essere ripetibili e controllabili intersoggettivamente, i processi rilevanti devono venire isolati da una miriade di effetti episodici e contingenti. Diventano cruciali la scelta del sistema da isolare e da sottrarre al gioco delle influenze parassite e la scelta dunque delle procedure da mettere in atto per isolarlo. Di questa razionalità Newton diede una formulazione pregnante: si deve andare alla ricerca delle cause necessarie e sufficienti per spiegare i fenomeni, perché la natura è semplice e non abbonda di cause superflue. La pratica della scienza classica, come ha bene argomentato Heinz von Foerster, è stata regolata dall’ipotesi che, una volta compiuto l’opportuno rituale di laboratorio, la massima parte dell’universo (quella situata oltre il confine tracciato dallo sperimentatore) non conti più per lo studio del sistema in questione.

La convinzione che i sistemi definiti nella scena del laboratorio siano completamente isolabili è diventata un’ipotesi molto forte rispetto agli spazi e rispetto ai tempi dell’universo. La distinzione fra cause necessarie e sufficienti ed effetti parassiti, la separazione delle cause pertinenti dalle cause non pertinenti, si è prolungata nella distinzione fra le poche cause giudicate responsabili di grandi effetti e le innumerevoli cause considerate irrilevanti. Una volta definite le cause “primarie”, e una volta separate queste da quelle “superflue”, diventerebbe possibile determinare con esattezza il decorso temporale e gli stati futuri dei sistemi oggetto di studio, per tempi non importa quanto lontani dal presente.

Questa epistemologia è mirabilmente riassunta nella figura del demone onnisciente di Pierre Simon de Laplace. Per un tale demone, la conoscenza della posizione e della quantità di moto delle particelle che compongono l’universo è condizione necessaria e sufficiente per abbracciare con un solo sguardo tutto il futuro e tutto il passato dell’universo. Ai suoi occhi, il passato e il futuro si comprimerebbero in un eterno presente.

La scienza classica ha esplorato la possibilità di avvicinarsi a questo punto di vista ideale in molti domini dell’universo: anzitutto la dinamica celeste, ma anche l’acustica, la dinamica dei fluidi, l’idrodinamica… Oltre che dell’universo fisico, questo ideale ha guidato l’esplorazione di un nuovo mondo incognito: il mondo vivente. Questo ideale ha poi guidato anche le prime esplorazioni scientifiche della storia e delle società umane. È diventato corrente parlare di “leggi della storia” e di “meccaniche sociali”.

Una collocazione eccentrica

Verso la fine del XIX secolo, Jacques Hadamard, Pierre Duhem, Henri Poincaré iniziarono a scoprire proprio nella dinamica celeste le prime falle in questa “ontologia dell’eternità”, i primi limiti agli ideali dell’onniscienza, della previsione, del controllo, della completezza e del calcolo. Per quanto dettagliata possa essere la conoscenza del sistema solare e dei moti dei corpi che lo compongono nel momento presente, sulla base di questa conoscenza non è possibile prevedere se il sistema solare possa restare stabile per sempre.

Quasi contemporaneamente, le due grandi rivoluzioni delle scienze fisiche del XX secolo, quella relativista e soprattutto quella quantistica, hanno messo in discussione il postulato di continuità della realtà che aveva guidato gli sviluppi della tradizione scientifica moderna. Le nozioni tradizionali di spazio, tempo, materia, particella, causalità, determinazione, separabilità si sono rivelate adeguate soltanto per una piccola regione dell’universo, per quella fascia di mezzo in cui sono situate le matrici biologiche e le prime esperienze cognitive della specie umana. Lungi dall’essere privilegiata, lungi dall’essere la misura di tutte le cose, la collocazione della specie umana si è rivelata assai limitata e particolare, e anche eccentrica e periferica rispetto a nuove dimensioni spaziali e temporali dell’universo. Fra il mondo dell’esperienza umana e il micromondo dell’atomo, fra il mondo dell’esperienza umana e il macromondo delle galassie, si interpongono soglie che introducono a differenti ordini di realtà.

In tutto il nostro secolo, i fisici si sono dedicati a delineare le vie e gli strumenti concettuali attraverso cui accostarsi a queste soglie, e hanno identificato princìpi di corrispondenza per mettere in relazione la fascia di mezzo, fascia di collocazione privilegiata della specie umana, con le regioni e le dimensioni spazio-temporali più remote dell’universo.

I sorprendenti effetti relativistici sono apparsi essere rilevanti soltanto a velocità assai prossime a quelle della luce o in presenza di enormi masse gravitazionali: per la quasi totalità degli effetti pratici, nelle regioni più immediatamente adiacenti alla nostra fascia media, il mondo continua a essere quello newtoniano.

Ancora più intricate si sono subito rivelate le relazioni fra il mondo dell’esperienza quotidiana e il micromondo quantistico. Molti prodotti della tecnologia contemporanea, come i laser e i superconduttori, ci fanno toccare con mano come gli effetti quantistici e la nostra conoscenza degli effetti quantistici abbiano un diretto impatto macroscopico. E taluni scienziati sono giunti a ipotizzare che il funzionamento stesso della nostra mente e della nostra intelligenza abbia qualcosa a che vedere con il micromondo quantistico.

Ma è nella seconda metà del nostro secolo che le grandi rivoluzioni delle scienze fisiche hanno investito direttamente la stessa scala dell’esistenza umana e della vita quotidiana.

Determinismo e previsione, nella tradizione scientifico-filosofica moderna, sono stati considerati praticamente inscindibili, e la loro quasi completa identificazione ha costituito una sicura legittimazione per l’estrapolazione dalla teoria all’azione.

Oggi le scienze fisiche hanno scoperto che sul comportamento futuro di molti sistemi dinamici deterministici non può essere fatta alcuna dettagliata previsione quantitativa. In tutti questi casi, le leggi che regolano lo sviluppo temporale di un sistema possono venire rappresentate da poche e semplici equazioni. Tuttavia, per conoscere con un certo grado di precisione lo stato del sistema in un particolare momento futuro sarebbe necessaria una conoscenza infinitamente precisa dello stato del sistema nel momento presente. Dati due sistemi assai simili, minime differenze nelle condizioni iniziali sono in grado di generare enormi divergenze fra i loro sviluppi futuri.

Lo studio del comportamento dei sistemi dinamici di questo tipo, estremamente sensibili a fluttuazioni infinitesimali, ha fatto sorgere un nuovo ramo della fisica, in pieno sviluppo: la dinamica del caos. L’ideale della previsione e del controllo del decorso futuro dei sistemi fisici, che già era stato sottoposto a una revisione dalla scoperta dei sistemi indeterministici del micromondo quantistico, oggi incontra i suoi limiti (forse ancora più radicali) anche nel quadro di un mondo macroscopico e deterministico.

Una scienza delle qualità

L’intera esperienza della fisica del XX secolo, ulteriormente intensificata dai nuovi campi di ricerca aperti negli ultimi decenni, indica che non è possibile raggiungere e definire la varietà degli oggetti e dei sistemi che popolano l’universo per semplice composizione ed estrapolazione delle proprietà di quegli elementi idealizzati sui quali la scienza moderna aveva inizialmente rivolto il proprio sguardo. Questi, appunto, sono apparsi elementi idealizzati: i sistemi semplici e stabili, i moti ciclici che si ripetono identicamente e indefinitamente, sono casi limite, che riguardano particolari regioni spazio-temporali dei transiti celesti, o che sono definibili nella scena purificata del laboratorio. La tipologia dei sistemi naturali è molto più estesa e molto più diversificata. I sistemi caotici sono piuttosto la regola che l’eccezione. E molti sistemi esibiscono un comportamento caotico soltanto rispetto a una particolare gamma di condizioni iniziali.

La dinamica del caos acquista un significato paradigmatico che va al di là dei semplici confini dello specialismo fisico, perché mostra come si possano ristrutturare i problemi della spiegazione e della previsione. Certo, a partire dal qui e dall’ora, è impossibile prevedere il decorso futuro di un particolare sistema caotico. Ma riconoscere questa impossibilità di formulare dettagliate previsioni quantitative conduce ad affrontare un vasto spettro di nuovi problemi, che riguardano le previsioni qualitative. Conduce a elaborare criteri diagnostici che distinguano un sistema caotico da un sistema non caotico, a ricercare per quali condizioni iniziali un dato sistema esibisca un comportamento caotico, oppure ancora a costruire quadri probabilistici che definiscano i possibili decorsi futuri di una particolare classe di sistemi caotici…

La dinamica del caos indaga leggi, regolarità e invarianti del caos determinista. A prima vista, questa espressione può apparire paradossale. Ma è tale soltanto qualora si consideri che obbiettivo della scienza sia purificare la storia e l’esistenza dal disordine e dalla contingenza. Le leggi del caos sono una via per espandere il contesto scientifico, per poter affrontare anche i cambiamenti qualitativi, le discontinuità, le instabilità, le singolarità, le probabilità, le irreversibilità, le novità, le emergenze…

Incertezze e indeterminazioni non sono sempre interpretabili come misure dell’ignoranza, della lontananza dal punto di vista della conoscenza e del controllo “completi”, della distanza dal punto di vista di un dio (o di un demone) onnisciente. Al contrario, possono essere anche indici rivelatori del fatto che il “reale” e il “possibile” non sono domini immutabili, ma processi in continuo divenire. Dal cuore delle stesse scienze fisiche scaturisce la possibilità di un futuro aperto, luogo di effettive innovazioni e creazioni, non completamente determinato dal presente e dal passato.

La dinamica del caos pone a oggetto di scienza le grandi forme che regolano il comportamento dei sistemi, che costituiscono vincoli globali anche se non determinano il singolo comportamento in una singola situazione spazio-temporale. Ciò pone le basi per una scienza delle qualità che pare risuonare con antichi interrogativi del Rinascimento, presto caduti in disuso in concomitanza con gli straordinari successi degli approcci quantitativi della prima età moderna.

Un cosmo incompiuto

Siamo spinti a interrogarci nuovamente sui postulati di continuità che hanno tenuto insieme l’ordine del cosmo e l’ordine delle conoscenze. Ripensiamo alla domanda: esistono ordini ontologici autonomi? Accanto alla tradizionale risposta negativa, una risposta alternativa si rivela plausibile: gli ordini ontologici divengono, e questo divenire trasforma il cosmo, lo dota di una storia in senso proprio. In altri termini: il cosmo, inteso nel senso di universo ordinato e interconnesso, non è definito da sempre e per sempre, ma diviene esso stesso. Il problema chiave di gran parte della tradizione cosmologica dell’età moderna, quello dell’infinità del cosmo, si ridefinisce nel problema della sua indeterminatezza, della sua incompiutezza.

Attraverso queste rinnovate interrogazioni sulle radici del problema cosmologico, si delineano nuove concezioni della natura, delle regolarità, delle leggi, della storia della natura e della storia della specie umana. Si delinea, in particolare, una storia naturale delle forme che richiede una scienza che superi le contrapposizioni fra natura e storia, fra invarianza e cambiamento, fra leggi ed eventi.


Mauro Ceruti è fra i pionieri nell‘elaborazione del pensiero complesso. I suoi libri sono tradotti nelle più diffuse lingue del mondo e hanno segnato il dibattito filosofico degli ultimi trent‘anni. Tra gli altri: Il vincolo e la possibilità (2009), La nostra Europa (2013) con Edgar Morin e Il tempo della complessità (2018).

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