In un remoto passato, il nostro pianeta non ospitava alcuna vita vegetale, ed è dalle piante che dipende ogni altra forma di vita. Questa è la loro storia.
In copertina un’opera di Henri Rousseau
Questo testo è tratto da La storia della vita in 25 fossili, di Donald R. Prothero. Ringraziamo Aboca edizioni per la gentile concessione.
di Donald R. Prothero
Ammirando le meravigliose foreste e praterie della Terra, non si può evitare di rendere onore ai vegetali che dimorano sul ‘pianeta verde’, sostenendo tutta la vita animale. Ma non è sempre stato così. Per la maggior parte dei suoi 4,5 miliardi di anni, la Terra è stata un luogo brullo e ostile. Non c’erano piante in grado di vivere sulle sue aspre superfici, le rocce spoglie erano esposte a violente reazioni geochimiche e rilasciavano i loro costituenti organici nell’oceano senza che alcun essere vivente li utilizzasse. Le prime forme viventi con capacità fotosintetica furono dei cianobatteri, circa 2,3 miliardi di anni fa: dimoravano in acque marine poco profonde e hanno lasciato depositi biosedimentari fossilizzati, le stromatoliti (v. Capitolo 1). I primi indizi della presenza di organismi eucariotici, invece, risalgono a circa 1,8 miliardi di anni fa; da essi si sono evoluti i primi eucarioti vegetali monocellulari, le alghe. Queste avevano nucleo delimitato da membrana e altri organelli, come i cloroplasti. Sia i cianobatteri che le alghe continuarono a crescere come enormi tappeti bentonici in acque poco profonde.
Le temperature estreme, l’intensità dei temporali, i processi di meteorizzazione dovuti alla mancanza di coperture, l’assenza di uno strato di ozono (l’ossigeno libero in atmosfera era ancora troppo scarso) hanno fatto sì che poche piante riuscissero ad avventurarsi fuori dall’acqua e arrivare sulla terraferma. Senza lo scudo dell’ozono, le cellule vegetali e animali erano bombardate da dosi massicce di radiazioni ultraviolette, che potevano causare mutazioni genetiche e portare alla morte. L’unico modo di proteggersi era stare immersi nell’acqua.
Basandosi su prove chimiche, sembra che i primi organismi abbiano iniziato a colonizzare la terra circa 1,2 miliardi di anni fa. Probabilmente erano semplici aggregati di batteri, alghe e funghi, le cosiddette croste crittogamiche, molto simili a quelle che si trovano sulle superfici indisturbate dei deserti. I licheni aggrappati alla nuda roccia ne sono un esempio, poiché non sono veri e propri organismi, ma associazioni simbiotiche di alghe e funghi. I suoli crittogamici erano probabilmente l’unica forma di vita sulla superficie asciutta del pianeta, ma i loro processi di fissazione e stabilizzazione di particelle minerali e detriti sono serviti a limitare l’erosione, e hanno inoltre permesso ad alghe e cianobatteri di immettere ulteriore ossigeno in atmosfera grazie alla fotosintesi.
Ovviamente, senza significative risorse alimentari, sulla terraferma non c’era nemmeno vita animale. La vita animale ha bisogno non solo di nutrienti, ma anche di ossigeno per respirare, che a quanto pare non iniziò ad accumularsi nell’atmosfera prima di 530 milioni di anni fa. La combinazione tra condizioni ambientali avverse, mancanza di riparo e cibo, ed erosione incontrollata rendeva la terraferma un habitat pericoloso, che la maggior parte delle creature non era ancora in grado di affrontare.
-->Le prime piante terrestri
Il pianeta verdeggiante che diamo per scontato, quindi, per molto tempo non è stato tale. Perché le piante iniziassero a conquistare la terra, dovevano diventare qualcosa di più che tappeti di alghe a lento sviluppo immerse nell’acqua. Le alghe vegetavano se immerse, ma sulla terra avrebbero dovuto trovare ambienti a elevata umidità o sarebbero scomparse.
Nella riproduzione sessuale, i gameti flagellati hanno bisogno dell’acqua per raggiungere e fondersi con altri gameti o cellule uovo (oogoni). Le alghe verdi e le altre piante primitive, ad esempio (Fig. 7.1), alternano cicli sessuali (con produzione di gameti aploidi e uova) a cicli vegetativi (moltiplicazione per divisione, frammentazione o produzione di spore). La forma diploide (con due serie di cromosomi) è chiamata sporofito, e all’interno dello sporangio, tramite meiosi, genera spore aploidi che danno origine ai gametofiti.

Il gametofito è l’individuo aploide (derivato da cellule aploidi, con una sola serie di cromosomi), e sviluppa gameti con categorie sessuali differenti all’interno di strutture specializzate e distinte. L’alternanza delle generazioni è un meccanismo riproduttivo comune in molti gruppi di piante e in alcuni animali primitivi, ad esempio celenterati (coralli, anemoni di mare e meduse), tunicati (alcuni) e foraminiferi.
Nelle piante terrestri meno evolute (ad esempio le felci) lo sporofito è la parte aerea. Si riproduce mediante il rilascio di spore aploidi (prodotte per meiosi) che vengono trasportate dall’aria e germogliano in zone a elevata umidità, dando origine a minuscoli gametofiti (alti meno di 1 centimetro). I gametofiti portano i gametangi, strutture specializzate che producono gameti (spermio e oosfere), che possono incontrarsi solo in ambienti umidi. Questa limitazione alle loro opzioni è un ‘punto debole’ che ne ha impedito la diffusione in habitat più aridi.
L’eventuale disidratazione, o essiccamento, è un’altra sfida che hanno dovuto affrontare le piante terrestri. Se non c’è acqua l’epidermide si asciuga e si secca (come avviene nelle alghe arenate), a meno che non sia protetta da una sorta di rivestimento ceroso, o cuticola, in grado di conservare l’umidità dei tessuti. Ma la cuticola riduce anche gli scambi gassosi e la traspirazione, e ne derivano maggiori difficoltà ad assorbire anidride carbonica, a rilasciare ossigeno e a eliminare vapore acqueo.
Sulla cuticola sono presenti piccoli stomi, ossia fessure attraverso le quali le piante possono efficacemente regolare gli scambi di acqua e gas. Ciò nonostante, nel processo di apertura degli stomi vengono persi anche dei liquidi.
Cosa mostrano le testimonianze fossili sulla conquista della terra da parte delle piante? I reperti più ancestrali sono spore provenienti da briofite (muschi ed epatiche), organismi vegetali di dimensioni ridotte ancora presenti nella maggior parte degli habitat. Le spore fossili risalgono all’Ordoviciano (circa 450 milioni di anni fa), sebbene non venga ancora esclusa l’esistenza di spore nel Cambriano medio (circa 520 milioni di anni fa). Esistono circa 900 generi e 25.000 specie viventi di queste rudimentali piante terrestri, distribuite su tutto il pianeta, perfino sui litorali freschi e umidi dell’Antartide. Non possono però vivere in acque salate. Presentano una serie di efficaci adattamenti che le aiutano a sopravvivere sulla terraferma, inclusa la capacità di arrestare il metabolismo in caso di condizioni avverse, come siccità o temperature estreme, la tendenza a crescere a macchie, la possibilità di propagarsi per via vegetativa attraverso frammenti che diventano nuovi individui e la capacità di colonizzare aree sterili come le rocce esposte, o di crescere sulla superficie di altri organismi, come gli alberi.
Pioniere in verticale: le piante vascolari
Affinché le piante possano dimorare sul terreno e svilupparsi in altezza necessitano di complessi apparati in grado di trasportare i fluidi vincendo la gravità, compiere scambi gassosi, rimuovere gli scarti del metabolismo e fungere da sostegno. Le alghe brune come il kelp (o laminaria) possono avere strutture filamentose lunghe diversi metri ma, essendo costantemente immerse nel mare, non necessitano di apparati deputati al trasporto dell’acqua da un’estremità all’altra. Le piante vascolari, invece, sono dotate di un sistema di vasi conduttori che trasportano fluidi e nutrienti all’intera pianta, proprio come il sistema cardiovascolare umano porta il sangue a tutti i tessuti del corpo.
Una volta sulla terraferma, di fatto, le piante hanno dovuto affrontare due problemi. In primo luogo, umidità e sali minerali dovevano essere raccolti dagli apici radicali nel terreno, quindi essere spostati nella parte superiore della pianta, fino alle foglie, dove l’energia luminosa permette la fotosintesi (assorbimento di anidride carbonica e rilascio di ossigeno, insieme a una certa quantità di acqua). In secondo luogo, l’assetto della pianta doveva essere eretto e rigido, in modo da vincere la forza di gravità, che tira tutto verso il basso. La soluzione stava nell’evoluzione delle tracheidi, cellule conduttrici allungate impregnate di lignina, un polimero organico che conferisce resistenza e sostegno, e in più è idrofobo: impermeabilizza le tracheidi la cui superficie respinge l’acqua anziché assorbirla, accelerandone il transito nel vaso. Il tessuto conduttore formato dalle tracheidi si presenta come un singolo cilindro centrale all’interno dello stelo. Nelle piante più avanzate questi vasi sottili possono ammassarsi per formare fusti legnosi più grandi. Per questo motivo le piante vascolari sono definite anche tracheofite.
La scoperta di Isabel Cookson
Le ancestrali tracheofite fossili sono minuscole e molto rare; il fatto di essere costituite soprattutto di materia organica molle e poco lignificataha inoltre compromesso le loro possibilità di conservazione. Non sono noti fossili risalenti all’Ordoviciano, mentre dal Siluriano (circa 433393 milioni di anni fa) esistono reperti di piante semplici che nel 1937 furono classificate come Cooksonia (Fig. 7.3A–B) dal paleobotanico William Henry Lang, in onore della collega Isabel Cookson che trovò i primi esemplari a Perton Quarry, in Galles.
Cooksonia rappresenta la forma più semplice di pianta vascolare. Quasi tutti i reperti, nel complesso non più lunghi di 10 centimetri, sono appiattiti e mostrano un semplice fusto (di solito meno di 3 millimetri di diametro) che si biforca in due rami più piccoli. Molti degli steli ramificati sono sormontati da strutture che sembrano piccole sfere, dove si suppone si formassero le spore (sporangi). In tempi più recenti, tuttavia, il ritrovamento di esemplari migliori e un lavoro più dettagliato hanno dimostrato che gli sporangi non erano piccole bolle tonde, ma presentavano una forma a imbuto o a trombetta, con un’apertura conica al centro e un ‘coperchio’ sulla parte superiore che si disintegrava per rilasciare le spore (Fig. 7.3C).
Dato che Cooksonia non aveva foglie, la fotosintesi avveniva probabilmente su tutta la sua superficie. Ovviamente non erano presenti né fiori né semi. L’apparato radicale non era isolato, ma faceva parte di un sistema interconnesso di brevi fusti sotterranei ad andamento orizzontale, da cui germogliava la parte aerea della pianta; in questo modo, simile a quanto avviene con le gemme dei rizomi, si verificava la riproduzione vegetativa (clonazione). Esistono aree scure lungo questi esemplari appiattiti che potrebbero essere tracce di tessuto vascolare, ma la loro pessima conservazione impedisce di esserne certi. Inoltre, almeno qualche esemplare presenta strutture simili a stomi, ulteriore conferma che in Cooksonia tutta la superficie esterna era coinvolta nella fotosintesi.
Almeno quattro tipi di spore vengono oggi associati a Cooksonia, pertanto la maggior parte dei paleobotanici considera il genere come una sorta di ‘cestino’ tassonomico per molteplici linee evolutive di piante primitive. In attesa di reperti meglio conservati e con dettagli più chiari, per ora Cooksonia non può essere ulteriormente suddiviso in altri generi, come richiederebbe la sistematica. Un giorno, comunque, il processo di revisione riuscirà ad attribuire gli esemplari a gruppi distinti.

L’inverdimento del pianeta
Quasi chiunque, a parte un paleobotanico, potrebbe trovare poco esaltante una pianta così semplice e minuscola. Ma Cooksonia e l’origine delle piante vascolari rappresentano una svolta ecologica ed evolutiva monumentale. L’esistenza di vegetali e di habitat verdi sulla terraferma ha aperto il panorama a ulteriori possibilità, soprattutto per gli animali. Nei paleosuoli dell’Ordoviciano superiore esistono tracce fossili di tane realizzate probabilmente da animali vermiformi simili ai millepiedi, forse i primi a conquistare i continenti. Dal Siluriano compaiono fossili di altri artropodi terrestri, fra cui scorpioni, ragni, altri miriapodi e insetti senza ali. I suoli non erano più sterili: stava iniziando a svilupparsi una complessa rete trofica di organismi consumatori di piante e di artropodi predatori, che si cibavano sia di erbivori che di altri predatori. Circa 100 milioni di anni dopo la colonizzazione degli artropodi, infine, strisciarono fuori dall’acqua i primi anfibi (v. Capitolo 10). Da allora le terre emerse non furono mai più completamente brulle, ma costantemente coperte da un manto vegetale.
Durante il Siluriano superiore si amplificò la varietà di piante vascolari primitive, e nel Devoniano, successivamente, ci fu una moltiplicazione esponenziale di specie (radiazione), tanto che alla fine di quel periodo geologico comparvero le prime foreste preistoriche. Oltre a muschi ed epatiche (briofite), si evolvettero forme ben più avanzate come le felci (pteridofite). Nel Siluriano superiore o nel Devoniano apparvero altri due importanti gruppi di piante. Le Lycophyta (licofite o licopodiofite) erano caratterizzate da fusti eretti o striscianti sul terreno; questi ‘fossili viventi’ sono oggi vegetali relativamente piccoli e simili a muschi, ma i loro antenati del Paleozoico superiore formavano estese foreste di alberi alti più di 36 metri, esemplari che il mondo non aveva mai visto fino a quel momento (Fig. 7.4A–B).
L’altro nuovo gruppo importante era quello delle Sphenophyta (sfenofite), corrispondenti agli odierni equiseti (Fig. 7.5A–B). Oggi, queste piante arcaiche (pressoché indistinguibili dai loro antenati del Carbonifero) vegetano felicemente su substrati sabbiosi e ghiaiosi in prossimità dell’acqua; lungo il fusto fibroso, l’epidermide esterna contiene minuscole particelle di silice, che le ha rese poco appetibili agli animali ma preziose per i vecchi pionieri, che le usavano come abrasivo per pulire le pentole di rame. La morfologia degli equiseti è peculiare: il fusto è cavo e scanalato, suddiviso da nodi in segmenti (internodi) che presentano costolature, o creste, per tutta la lunghezza, sfalsate tra un segmento e quello adiacente. Sui nodi sono inseriti i verticilli di foglie o di ramificazioni. Ogni fusto germoglia da un rizoma sotterraneo, che dà origine a molti cloni per moltiplicazione vegetativa. L’equiseto è una pianta notoriamente rustica e nel giusto habitat cresce rapidamente colonizzando le zone umide. Dato che i fusti sotterranei sono quasi impossibili da eliminare, però, diventa anche invasiva: un equiseto, quindi, rispunta fuori qualunque cosa gli accada. Le sfenofite estinte del Carbonifero includevano la gigantesca Calamites, alta più di 20 metri (Fig. 7.5A).

Oltre a tutte queste forme più primitive in cui la riproduzione avviene tramite spore, nel Devoniano superiore apparvero anche i primi semi, che erano dotati di un rivestimento duro per facilitarne la germinazione svincolata dall’acqua. Erano portati dalle pteridosperme, esemplari arborei ad alto fusto (fino a 12 metri) e simili a felci, oggi estinte.
Alle foreste devoniane di pteridosperme con semi subentrò, nel Carbonifero (da 360 a 303 milioni di anni fa), una enorme differenziazione che le coinvolse insieme a felci, muschi, licopodi ed equiseti. Le vaste aree acquitrinose in cui crescevano ospitavano enormi volumi di vegetazione nelle regioni tropicali e subtropicali di Nord America, Europa e Asia. Quando le piante morte sprofondavano nel fango non venivano decomposte rapidamente, come accade oggi nelle paludi: batteri, funghi e animali quasi non esistevano e nulla era in grado di digerire i duri tessuti impregnati di lignina. Il loro accumulo le sottoponeva a processi di compressione ad alta temperatura in assenza di ossigeno, e la degradazione incompleta tramutò questi depositi legnosi in carbone. L’enorme volume di materia organica imprigionato nella crosta terrestre finì per trasformare l’atmosfera e il clima del pianeta, poiché questa biomassa derivava in sostanza dalla captazione di biossido di carbonio dall’atmosfera. Ben presto, il clima da ‘serra’ del Carbonifero inferiore (poli senza ghiaccio, alte concentrazioni di anidride carbonica ed elevato livello dei mari, che invadevano la maggior parte dei continenti) passò a un clima da ‘ghiacciaia’ nel Carbonifero superiore (calotta glaciale al Polo Sud, bassi livelli di anidride carbonica e ritiro dei mari dovuto alla formazione dei ghiacci). La Terra rimase in questa morsa per quasi 200 milioni di anni, ossia fino al Giurassico medio (Era dei dinosauri), quando virò di nuovo da ‘ghiacciaia’ a ‘serra’ a causa di significativi cambiamenti nel mantello e nei bacini oceanici.
Il ciclo serra/ghiacciaia e ritorno è avvenuto più volte negli ultimi miliardi di anni della storia del pianeta. In effetti, l’esistenza di piante e animali è il motivo per cui la Terra è abitabile, e non un calderone sfuggito al controllo come Venere, o una landa assiderata come Marte. I sistemi viventi della Terra captano e immagazzinano il biossido di carbonio nella crosta terrestre sotto forma di calcare (soprattutto via animale) e carbone (via vegetale), fungendo in sostanza da termostato. Sfortunatamente questo ciclo naturale è stato involontariamente alterato dall’inizio della Rivoluzione industriale, e il pianeta sta cambiando. Lo sfruttamento di milioni di tonnellate di carbone e altri combustibili fossili e il rilascio dell’anidride carbonica che era bloccata al loro interno ha innescato un effetto serra indotto e incontrollato, che ha una dinamica mai vista nel passato geologico. Senza saperlo, abbiamo sconvolto il delicato equilibrio del carbonio nell’atmosfera, negli oceani e nella crosta terrestre, rompendo il termostato planetario. Si stanno già manifestando eventi meteorologici estremi che derivano dal cambiamento climatico e i nostri discendenti pagheranno il prezzo di questa sconsiderata irresponsabilità.
Donald R. Prothero è un ricercatore di Paleontologia e Geologia. Insegna Scienze geologiche alla State Polytechnic University della California, a Pomona, e lavora come ricercatore al Museo di Storia Naturale di Los Angeles. Prothero è stato uno dei primi paleontologi a utilizzare il concetto di paleomagnetismo nello studio delle rocce continentali, che consente di studiare queste rocce nella scienza e nell’evoluzione del clima. È autore o editore di più di 30 libri e oltre 300 articoli scientifici, inclusi almeno 5 libri di testo di geologia. Per Aboca edizioni ha pubblicato Fossili fantastici e chi li ha trovati. La storia dei dinosauri in 25 scoperte straordinarie (2020).
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