L’orrore dell’arte: un dialogo tra Enrico Baj e Paul Virilio


Baj, pittore, e Virilio, urbanista, si interrogano reciprocamente sullo statuto e la percezione dell’arte e dei luoghi che la ospitano e la espongono. Il destino attuale dell’arte, la sua evoluzione, sembrano essere una delle dimensioni privilegiate per cogliere lo spirito dei tempi, anzi il mercato dell’arte ha preannunciato la New Economy e molte altre virtualità.


In copertina: Enrico Baj, tre personaggi, courtesy Pananti

(Questo testo è un adattamento tratto da “Discorso sull’orrore dell’arte“. Ringraziamo Eleuthera per la gentile concessione)


di Tiziana Villani

L’espressione artistica, l’estetica nel tempo della Modernità sono investite da un profondo processo di trasformazione teso a indebolirne la portata critica al fine di inserirle nel processo di mercificazione e smaterializzazione proprio del capitalismo finanziario. L’opera d’arte, non solo ha perso la sua aura come indicava già Walter Benjamin, ma ha trasmutato completamente la sua funzione, attraverso il mercato dell’arte e gli odierni sistemi mediatici, per divenire uno dei principali dispositivi dei processi di finanziarizzazione.

Paul Virilio non è stato solo un urbanista, un filosofo o uno studioso di media, è stato soprattutto uno studioso di estetica e dromologia, che ha messo al centro della sua ricerca la trasformazione dei processi estetici all’interno di una narrazione funzionale ai processi di mercificazione in corso. Di tale sensibilità testimoniano non solo molti suoi libri, ma anche le esposizioni e i diversi lavori condotti con artisti, fotografi, cineasti e pittori tra cui Baj. Nel loro dialogo, Baj e Virilio riflettono anche sui diversi meccanismi, luoghi, strategie che hanno realizzato la costruzione di una nuova grammatica dominante dell’agire creativo, volta a instaurare il regime di un’estetica mortuaria.

Come tutto ciò sia potuto accadere è un quesito che deve chiamare in causa quei processi di accelerazione che attraversano il piano politico e sociale contemporaneo e ai quali Virilio ha dedicato numerosi studi negli ultimi decenni della sua vita.

L’accelerazione è connessa con le tecnologie e il loro diffondersi sempre più pervasivo, ma le tecnologie attuali sono anche e soprattutto tecnologie estetiche, tecnologie del «primato della visione». Ecco perché l’arte e i luoghi a essa deputati svolgono un ruolo fondamentale nell’«estetica della sparizione»:

L’estetica della sparizione contiene anche la possibilità di sparizione dell’estetica. Si tratta di una possibilità reale, non di un semplice capovolgimento di parole.

Ed è in questo senso che va intesa la convergenza tra Baj e Virilio, entrambi provengono da formazioni scientifiche, entrambi hanno attraversato le avanguardie, entrambi assegnano alla valenza politica del loro operare una funzione di impegno, ma di impegno libero dagli schematismi delle tendenze, delle narrazioni, degli adeguamenti degli ultimi decenni in cui arte e filosofia si sono spesso trovate a svolgere un ruolo decorativo, consolatorio, e soprattutto hanno funzionato come dispositivi di comunicazione atta a favorire la cancellazione dell’agire critico in favore dei processi sempre più violenti di mercificazione.

L’arte, la comunicazione e la guerra

È sicuro che quel che si è chiamato l’inflazione del mercato dell’arte è un delirio che non ha più niente a che vedere con l’espressione artistica, ma piuttosto con le multinazionali, con la possibilità di riciclare denaro del narcocapitalismo al punto da partecipare proprio alla creazione del narcocapitalismo.

Nel libro La pensée exposée, realizzato dalla Fondation Cartier [2012], Virilio raccoglie tutta una serie di interventi dal 1988 al 2008 in cui compaiono artisti con i quali Virilio ha lavorato allestendo esposizioni molto provocatorie dedicate a temi di urgenza politica; tra tutti il tema della catastrofe. Catastrofi non solo naturali, ma più di sovente incidenti provocati dalla tecnica, la «tecnica che serve a fare la guerra», ed è così che le grandi migrazioni, la sparizione di popoli interi, delle loro lingue, viene rappresentata in allestimenti che non vogliono un pubblico quanto dei complici attivi nel comprendere la portata di «ciò che ci accade».

L’incontro con Baj riguardo all’orrore dell’arte si inscrive in questa sensibilità comune a entrambi. Tecnica e comunicazione appaiono alleate nel farsi di un percorso distruttivo che molte avanguardie avevano talora condiviso come nel caso del futurismo italiano evocato di sovente da Virilio. È un’estetica della guerra quella che dispone di mezzi sempre più articolati e pervasivi. L’arte non solo racconta la guerra, le guerre, ma ne attualizza la realtà virtualizzandola e spesso distanziandola dalle corporeità. Anche nella denuncia la resa virtuale è rapidamente riassorbita dal meccanismo di moltiplicazione della visione che riesce ad anestetizzare ogni sentimento. Forse è questo il motivo per cui, a partire dal «postmoderno», l’arte e la filosofia si ritirano e cercano consolazione nella narrazione della propria insufficienza, della propria «debolezza».

Dice Baj:

Ma, paradossalmente, l’eccesso di comunicazione produce un cortocircuito nella comunicazione stessa e nei rapporti tra le persone, che si conoscono tramite uno schermo freddo senza mettere in gioco i propri corpi, i propri sguardi. Così ognuno può presentarsi come vuole tranne che come se stesso. C’è solo autoreferenzialità della comunicazione, della rete, dell’individuo.

Gran parte dell’arte contemporanea attraversa questo percorso di autoreferenzialità cieca, i motivi sono molteplici anche se in massima parte determinati dal susseguirsi delle mode e delle esigenze di mercato. L’agire artistico si adegua alle tendenze, perché intorno alla tendenza si costruisce un mercato, un gusto pretestuoso che disegna una filiera di accadimenti e investimenti che legittimano la tendenza stessa. Ecco in che modo si profila l’estetica mortuaria della smaterializzazione. Si smaterializzano corpi e creazioni poiché ritenuti eccedenti rispetto alle esigenze della mercificazione.

La recente crisi economica, iniziata nel 2004 ma poi deflagrata nel 2007, ha visto fuoriuscire dal collasso finanziario in primo luogo il mercato dell’arte. Questo mercato semplifica movimenti e transazioni finanziari, in questo mercato gli artisti sono semplicemente dei certificatori di una procedura in cui il vedere si dispone a essere il movimento effimero della cancellazione estetico-politica dell’atto di creazione. Quando Deleuze, amico e filosofo-complice di Virilio, nella sua conferenza Che cos’è l’atto di creazione (tenuta nel 1987 nell’ambito dei martedì della fondazione Fémis) evocava Paul Klee per chiarire quale fosse l’agire specifico dell’arte, diceva che «si crea ciò che manca». E che cosa manca? «Il popolo manca». Ma di quale popolo parlano allora Klee, Deleuze, Virilio e anche Baj? «Il popolo minore, la razza bastarda, nomade».

È in questo modo che l’estetica del lutto è costretta a disvelarsi. «La razza bastarda» ha corpi, fabbrica eccedenza, e questa eccedenza riesce a non farsi sempre catturare. Ancora una volta questa eccedenza, questa materialità deve fare i conti con i meccanismi di accelerazione che sono prima di tutto visuali, distopici, nientificanti.

«Il cinema appone l’uniforme all’occhio» avvertiva Kafka. Oggi, con il video e l’infografia delle immagini digitali, la minaccia si conferma al punto di rendere subito necessario una sorta di comitato dell’etica della percezione, in mancanza del quale scivoleremmo negli eccessi di un addestramento oculare, di un conformismo subliminale otticamente corretto che porterebbe a compimento quello del linguaggio e della scrittura.

L’eccesso della visione trasforma i sistemi di comunicazione, sostituisce la parola e dunque le forme di produzione del pensiero.

L’arte come evento è completamente recuperata nel sistema del depotenziamento dell’azione creativa, in favore della sua rappresentazione come codice di immagine omologata e omologante. C’è una volontà prescrittiva in questa dimensione operativa dell’arte contemporanea incalzata certo dalle mode, ma evenemenziale come il capitale nel suo incessante movimento di autogenerazione dogmatica in cui il campo aperto delle possibilità cela in realtà il meccanismo dispotico delle gerarchie, dell’esclusione e dell’intimidazione. A ben guardare un meccanismo religioso in cui i processi di estetizzazione svolgono un ruolo decisivo. I dispositivi artistici, gli eventi, e le installazioni, le forme social della comunicazione colonizzano l’immaginario e la fantasia e al contempo agiscono materialmente sulle soggettività, i corpi, i territori che si trasformano in funzione di un valore di scambio di grande efficacia, nel quale arte, finanza e marketing si alleano.

L’arte è sempre più connessa all’emozione piuttosto che al sentimento e all’immaginazione. È proprio la visione, il primato del vedere che agevola questa trasformazione, questa nuova relazione con il potere, poiché da sempre il connubio arte e potere ha scritto le principali metamorfosi dell’opera d’arte. Oggi, però, i margini di libertà di espressione possibile appaiono molto ridotti, la visione deve sollecitare le emozioni che per loro natura sono effimere e transitorie, pertanto la soglia emozionale deve essere costantemente innalzata, diventando così pornografica e ottenendo come risultato l’anestesia totale, il depotenziamento dell’immaginario, lo svilimento dell’utopia, dell’altrove, di una possibilità di esprimersi altra.

Scrive Virilio in Un paysage d’événements:

La natura stessa delle tele-tecnologie dello schermo si oppone alla messa in memoria, e dunque alla condivisione della riflessione… essendo l’arte del telecomando parte dell’ordine del riflesso condizionato, e giammai di una qualsivoglia «saggezza» democratica condivisa.

In tal senso l’«orrore dell’arte» si delinea nella velocizzazione dei processi di assoggettamento, che trovano nella mediatizzazione degli eventi la loro più efficace forma di controllo. Baj in questo libro affronta in modo diretto la questione quando pone a Virilio la seguente osservazione:

Oggi con l’emergenza dell’industria del divertimento artistico promossa dai pubblicitari e dalle varie marche, e con l’invasione del campo dell’arte contemporanea da parte degli uomini della pubblicità, ci troviamo di fronte a una sorta di eutanasia passiva dell’arte.

La sottolineatura di Baj è importante poiché il superamento dell’arte nella politica, al modo auspicato dai situazionisti, non è avvenuto, piuttosto l’incidente che si è prodotto riguarda il completo assorbimento di entrambe nel campo della comunicazione.

Baj e Virilio hanno operato in direzione contraria, hanno insistito creativamente e politicamente nel voler creare spazi di criticità, squarci e fratture capaci di sovvertire la vulgata dominante. Arte ed estetica hanno ancora la necessità di produrre azioni di liberazione. Forse occorre superare l’idea che l’agire artistico possa essere in sé compiuto, un esito, valorizzando invece il processo di creazione, lo slancio della fantasia quando riesce a esprimersi al di fuori delle imposizioni del circuito della mercificazione. Per poter operare in questo senso, bisogna saper resistere ai codici e agli apparati di cooptazione. Non tutto è irrimediabilmente recuperabile dal sistema delle mode, e soprattutto nel prodursi del processo creativo molte sono le resistenze con le quali ci si deve confrontare.

I modi in cui l’arte si esprime, i luoghi che abita, i soggetti che vi sono implicati, possono sempre costruire relazioni altre, se vogliamo utopiche, minori nel senso del «lavorare ai margini come mute». Insomma il nodo consiste nella capacità di saper mettere sempre in discussione l’alleanza con il potere.

Gli artisti sono i creatori della realtà attraverso una nuova visione del mondo. L’incidente in questo caso è costituito da una visione che ne rimpiazza un’altra. È questa l’arte, essa rinnova la visione del mondo. Ma l’incidente passa anche attraverso una realtà che è scomparsa, dunque la visione è scomparsa.

Per il troppo vedere non siamo più capaci di guardare, questo movimento è connesso alla virtualizzazione del reale, alla dematerializzazione dell’esperienza. Inoltre questa situazione si manifesta in modo accelerato favorendo illusioni distopiche e afasia della mente. L’incidente è così dovuto all’abitudine di ripetere comandi passivi che non sono capaci di interrogazione, che si adeguano a una realtà preconfezionata. La visione del mondo che ne deriva non può che essere allora stereotipata, l’arte non strappa più una nuova visione, ma resta intrappolata dalla grammatica dominante di una visione addomesticata. Eppure l’atto di creazione può sovvertire questo addomesticamento, in molte opere di Baj, in tante esposizioni curate da Virilio, la percezione dell’incidente, della catastrofe, torna a produrre realtà, restituisce quella realtà volutamente occultata dal troppo mostrare, dal troppo vedere. Spesso è la lingua «barbara» di questa creazione che aiuta il sovvertimento di senso, la cessazione di ogni complicità, e i corpi, gli eventi, tornano a turbare, costruiscono spazi di soglia in cui è possibile di nuovo esprimere un sentire che sembrava dissolto. I molti materiali che Baj impiega nelle sue opere sono appunto materialità che strappano il velo di una visione pacificata del mondo, patafisica senza ritorno, annuncio di un conflitto permanente nei confronti della resa del discorso dominante.

 

I corpi, le soggettività, l’espressione

L’arte e il corpo sono indistinguibili perché l’arte è un’azione, una manifestazione del corpo. Il corpo costituisce un’eccedenza, un continuo movimento di deviazione, di disposizioni creative. I corpi, infatti, sono stratificati poiché incrociano, attraversano; sono territori, sono ambienti, animalità, inclinazioni creative e tecniche al contempo. Il corpo come l’arte eccede ed è proprio per questo che diviene territorio di caccia, sperimentazione, cattura. Ciò che eccede è molto concreto, materiale come la fantasia che esprime un continuo inverarsi della creazione che inventa altri mondi possibili, ossia altri modi di esistere, potenze di desiderio e di vita. Per questo motivo i dispositivi della comunicazione, le narrazioni delle mode, i tecnosistemi del controllo sono accanitamente alla ricerca di nuove forme di comando, queste eccedenze sono «linee di fughe» che bisogna sempre recuperare.

Bisogna riprendere corpo. Non è una lezione di morale, ma di corporeità. Riprendere corpo attraverso la parola, la danza, l’associazione, attraverso tutto quello che fa corpo. Il corpo è minacciato. Tutti i corpi sono minacciati. Il corpo territoriale è minacciato. Il corpo sociale è minacciato dal grande mercato. Il corpo animale e il corpo umano sono minacciati dalle sperimentazioni genetiche.

Il corpo occupa in modo centrale tanta produzione artistica, dalla performance al teatro, alla pittura, all’architettura, ecc.; il corpo è dunque minacciato perché ogni sperimentazione, gabbia, limitazione non riesce a vincerlo del tutto, ciò che non si riesce pienamente a soggiogare è proprio la sua plasticità, la sua capacità di variazione. Vanno intesi in questo senso tutti i tentativi che operano sul corpo al fine di renderlo piano cosale di sperimentazione.

Ancora una volta, ciò che l’arte restituisce, a volte anche in termini di orrore, è la creazione del corpo tecnicamente performante, modificato, adattato alle prestazioni e alle mode.

Scrivere sui corpi, meglio scrivere i corpi, vuol dire risignificarli nel senso dell’adeguamento, l’intervento estetico si rivela così violento. La produzione delle identità si accompagna al pensiero dell’uomo-meccanizzato, geneticamente modificato che si strappa dalla sua carne, dal suo essere animale. Sono corpi questi che attualizzano la morte nel tentativo di sconfiggerla o di negarla. È questo l’incidente dei corpi, la cancellazione di ogni pietas, poiché ciò che interessa è il corpo produttivo, il corpo estetizzato, mercificato.

L’orrore estetico è rintracciabile anche nella confusione tra arte e genetica, che poi è un fenomeno legato alla body art, con artisti come Stelarc, Orlan e molti altri. La body art, proponendo modificazioni corporali, si associa alla genetica.

L’arte contemporanea si rivolge alla scienza, alle biotecnologie, alle neuroscienze nella spasmodica ricerca di nuovi stimoli capaci di aiutare la comprensione della mutazione accelerata che stiamo vivendo. Ce qui arrive, come suggerisce Virilio. Dalla body art alla body performance il corpo appare sempre più come una «macchina stremata» dall’uso e dall’abuso delle mutazioni che si esercitano su di esso. Il corpo appare sempre meno inventivo, le azioni compiute sono ripetizioni di schemi e codici di una narrazione che ha i suoi imperativi: corpo/protesi, corpo/muscolo, corpo/abito, corpo/residuo. In un campo simile, difficile evocare la «creazione di ciò che manca». Forse, l’umiliazione peggiore è quella del corpo replicante didascalico che emula le ferite del presente smaterializzando così i corpi materiali sofferenti, lacerati, eliminati.

Ancora una volta l’arte finisce per amplificare il dispositivo della comunicazione la cui forza critica appare depotenziata dall’evocazione di un materiale/reale che non coinvolge nessuno, poiché inabissato nella siderale distanza dell’indifferenza. Questa funzione consolatoria si costituisce così come un mito riparatore per le false coscienze, l’arte comunica il gesto riparatore ma non scalfisce nulla, non riesce a superare il limite della resa estetizzante del suo discorso.

L’esercizio critico evocato da Baj e Virilio rimanda allora alla valenza politica dell’agire artistico che non può limitarsi alla denuncia ma deve aprire squarci di nuova sensibilità, di un altro sentire. Il virtuale, in quanto produzione di realtà, deve operare in direzione di una rottura con la comunicazione, per incontrare la propria capacità di esprimere l’esistere nelle sue molte declinazioni. Non è l’aura che manca e nemmeno la firma dell’artista, ciò che manca è un agire libero che non si voglia né omologato, né didascalico, un agire che si riferisca alle potenze umiliate e dematerializzate dei corpi.

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