Il racconto che segue, tradotto da Ilaria Mazzaferro, fa parte dell’antologia “Ponte di storie”, pubblicazione del progetto di scritture emergenti omonimo organizzato dagli Istituti italiani di cultura di New Delhi e Mumbai. I curatori del progetto sono stati Matteo Trevisani e Sumana Roy.
In copertina: Giampietro Cavedon, Interno, courtesy Pananti Casa d’Aste
di Muddasir Ramzan
Cullata tra due montagne, con le case illuminate dallo scintillio delle lampadine elettriche, Nundpur sembrava la Via Lattea. Quasi tutti gli abitanti della città stavano guardando uno speciale in TV per il capodanno del 1990, su una televisione a colori, l’unica in città. Gli anziani più religiosi lo accusavano di aver portato in città la bambola di Satana, la causa dell’immoralità diffusa fra i giovani. Nonostante tutto, Masterji annoverava la TV fra i suoi beni più preziosi.
Quella notte, una grande esplosione – la prima di quelle incursioni – colpì l’accampamento dei soldati, alle porte della città. Alla detonazione seguì uno scontro a fuoco che sembrava non dovesse finire mai. Era la prima volta che gli abitanti di Nundpur sentivano i colpi di un’arma da fuoco. Quell’incertezza e la paura di essere colpiti dai proiettili costrinse le famiglie a gettarsi a terra, riunendosi tutti insieme in qualche angolo della casa.
Al momento dell’esplosione, Farooq era già uscito dall’abitazione di Masterji insieme ad alcuni amici. Farooq andò di corsa in cucina, dove si trovava il resto della famiglia; erano paralizzati dalla paura. Temevano più che altro per Fatima, la sorella di Farooq, ormai prossima al parto.
Quando lo scontro a fuoco finì, dall’altoparlante si alzò la voce di Jalal-ud-Din, un muezzin rispettato in città. Trattennero tutti il fiato in attesa di ascoltare l’annuncio: «Raduniamoci nella moschea. È meglio morire insieme» disse.
A quelle parole, Farooq cominciò subito a infilare in un borsone qualche bene di prima necessità e una coperta. Disse ai familiari di sbrigarsi. «Non è sicuro restare qui» aggiunse. Bubb, suo padre, si oppose: «Ma perché non capisci la gravità della situazione? Non è sicuro uscire di casa».
«Ma neanche restare qui lo è. È meglio se raggiungiamo gli altri alla moschea. Insieme è più facile affrontare il pericolo» rispose Farooq.
Intervenne Moji, sua madre: «E come pensi di arrivare alla moschea? Continuano a sparare. Fidati di quello che ti diciamo, i soldati qui non ci vengono».
-->«No, Moji. Saranno qui a breve. Ce la faremo. Non è il caso di aspettare. Il pericolo si avvicina ogni minuto sempre di più».
I suoi genitori non erano convinti, ma in ogni caso Farooq si allontanò con Fatima.
Fu difficile correre nel freddo gelido. Le strade erano deserte. Le ombre dell’albero spoglio del chinar, proprio in mezzo alla strada, davano l’impressione che stessero proteggendo la zona nella quale si apriva un vialetto che portava alla moschea. Nel buio, rilucevano i colpi d’arma da fuoco nella parte alta della città, come se qualcuno stesse lanciando tizzoni ardenti da un kangri. Furono sorpresi nel vedere che dentro la moschea avevano già trovato riparo quasi tutti gli abitanti della città. Le pareti verdi della moschea riflettevano la luce tenue delle lampadine gialle, mescolando le ombre delle persone che apparivano sul muro, sembravano schizzi, alcuni grandi e altri minuscoli, a seconda del loro movimento e dell’angolazione della luce.
Fra i gemiti delle donne, gli uomini in preda all’agitazione e i bambini che piangevano per il sonno, Nundpur era la moschea, e la moschea era Nundpur. Molti di loro stavano raccontando cosa stavano facendo al momento dell’esplosione. Gli anziani della città cercavano di calmare la gente. Avevano preparato kangri e coperte per resistere al freddo della notte, e chiesero di rispettare la sacralità del luogo.
Qualcuno fece battute sulla presenza di Masterji nella moschea, qualcun altro gli fece eco: «Sì, è la prima volta che lo vedo nel masjid da quando è tornato dall’Haji».
Il primo lo corresse: «In realtà è da parecchi mesi che prega regolarmente da quando è tornato dal pellegrinaggio. Di solito lo vedevo anche alle preghiere del mattino. Ma guarda com’è ridotto adesso». Un uomo anziano, che sentì che cosa stavano dicendo quegli uomini sul conto di Masterji, disse loro che non era il momento di scherzare. Ma i due continuarono a ridacchiare fra loro senza farsi vedere.
La notte portò con sé l’insonnia. Nessuno osava dormire, nemmeno i bambini. Pregavano che Dio li salvasse. Un attimo dopo, calò un silenzio assoluto. In quella calma, Fatima si sentiva irrequieta, e ben presto si ritrovò in preda ai dolori. Sul lato sinistro della moschea si trovava un ripiano semivuoto di libri religiosi, perlopiù copie del Corano; Fatima era distesa proprio lì sotto. Ben presto alcune donne accorsero in suo aiuto. Era giunto il momento per Afzal di uscire dal mondo del grembo materno. Qualcuno accompagnò Rahat Maas, la levatrice del posto, seduta nell’angolo lì vicino. Mentre guardavano ciò che stava succedendo, gli uomini coprirono quel lato della moschea con qualsiasi cosa tornasse utile allo scopo. Erano tutti preoccupati: per il pericolo imminente e per Fatima. Bashir, il marito di quest’ultima, che in passato aveva avuto qualche problema con la famiglia di lei, colse quell’opportunità per lasciarsi il passato alle spalle. Prese un piccolo tappeto e lo spinse sotto la schiena della moglie. Dopo tanti sforzi e il dolore insopportabile di Fatima, Afzal giunse in questo mondo. Fatima aveva già pensato a dei nomi per il bambino che stava per arrivare: Zoon se fosse stata femmina, e Afzal per il maschio. Non voleva dare ai propri figli nomi legati alla religione, solo nomi culturali.
Subito dopo il taglio del cordone, Afzal si ritrovò fra le braccia di Bashir, suo padre. Chiamarono l’imam locale, che per l’agitazione aveva indossato il copricapo nel verso sbagliato e si era dimenticato di togliersi le scarpe all’interno della moschea. Dopo aver ricevuto parole di rimprovero dagli anziani, l’imam si alzò in piedi per recitare l’azaan al suo orecchio.
Uomini in divisa e armati, che avevano perso molti compagni sotto i pesanti bombardamenti, si avventurarono in città per dare la caccia agli aggressori. La gente non sarebbe rimasta nascosta ancora per molto. Preso dalla paura, Jalal-ud-Din si era dimenticato di spegnere l’altoparlante. Non se ne accorse nessuno, forse perché il microfono si trovava di fianco al mihrab e loro erano seduti lontani da quel punto. D’impeto, i soldati individuarono il rumore e circondarono la moschea. In preda a una furia cieca, cercavano gli insorti: «Dove li avete nascosti?». Gli insorti erano scappati dopo aver inflitto pesanti bombardamenti all’accampamento. Quasi tutti gli uomini, giovani o anziani che fossero, furono picchiati con il calcio dei fucili e bastoni. Accanto all’ingresso della moschea, vi era una stanza che veniva usata per le abluzioni; i soldati, accecati dal furore, usavano quello spazio come una sala interrogatori. La prima cosa che fece Afzal, dopo aver bevuto le prime gocce di latte, fu salvare suo padre dalle percosse e dall’interrogatorio e riunì le due famiglie che erano ormai a un passo dal tagliare i ponti. Bashir fu risparmiato perché aveva fra le braccia Afzal, appena nato.
Gli abitanti sottoposti alle violenze attendevano con ansia la luce del giorno. Avevano la sensazione che per loro quella fosse la notte più buia e più lunga nella storia di Nundpur. La gente, già spaventata dalle torture e dalla presenza dei soldati nella moschea, subì un altro duro colpo quando si rese conto che l’ora delle preghiere del mattino era già passata ormai da parecchio tempo. Fu la prima e l’ultima volta che successe una cosa del genere a Nundpur; gli anziani della città consolavano gli altri dicendo che Dio li avrebbe perdonati perché Lui vede tutto. Molti giovani, tra cui Farooq, ritenuti dei sospettati, furono portati all’accampamento e sottoposti a ulteriori interrogatori.
Una volta superata la notte fatale, anche se solo in apparenza, la gente aveva il terrore di tornare nelle proprie case, pur sapendo che i soldati se n’erano andati. La paura sui volti della gente era accentuata dalla mancanza di sonno. Passando accanto a Fatima, le persone non riuscivano a nascondere la pietà nei propri occhi e le rivolgevano parole di incoraggiamento. Quasi tutti si dicevano dispiaciuti per le condizioni incresciose in cui aveva dovuto dare la vita ad Afzal; altri si limitavano a guardare senza dire una parola prima di farsi forza e rientrare nelle proprie case. Sfiniti dalle atrocità senza fine del terrore, Bashir e Farooq stavano decidendo che cosa fare come se la nebbia del mattino avesse ottenebrato le loro facoltà. Sarebbe stato meglio mandare Fatima in un’altra città, o sarebbe stato più ragionevole restare a casa e prestarle tutte le cure necessarie? Dopo aver trascorso la notte a casa, Bubb e Moji arrivarono alla moschea. Qualcuno li aveva informati delle atrocità e della nascita del nipote. Erano su tutte le furie, ma quando videro il nuovo arrivato, la rabbia scomparve. Erano felici di vedere il nipote fra le braccia di Fatima. Erano arrabbiati con Farooq perché non aveva permesso a Fatima di restare a casa. Alla fine, i soldati non erano passati da casa loro. Tutti i membri della famiglia stavano dalla parte di Farooq perché sapevano che, se Fatima fosse rimasta a casa, non avrebbe potuto ricevere alcun aiuto. Moji suggerì con determinazione che avrebbe dovuto essere lei a prendersi cura della figlia a casa; Bubb confermò le parole della moglie, e nessuno osò ribattere. Quando uscirono dalla moschea, ringraziarono la gente. Erano onorati, in particolare per la generosità di coloro che avevano assistito Fatima.
La nebbia si dissolse con le luci del mattino del nuovo anno, ma le strade di Nundpur erano tutt’altro che invitanti. Mentre tornavano tutti di corsa nelle proprie case, uno strano dolore si diffuse nell’aria. Molte abitazioni erano state saccheggiate. In città si diffuse la notizia che i soldati avevano fatto a pezzi il televisore di Masterji. Masterji si disperava davanti ai frammenti sparsi per la stanza del suo bene più prezioso che si confondevano con gli altri oggetti rotti. La distruzione della TV suscitò le reazioni più disparate: alcuni erano felici di sapere dell’annientamento della bambola di Satana, altri erano dispiaciuti per aver perso quell’unico intrattenimento e per Masterji.
Nel frattempo, si sparse la voce che il personale addetto alla sicurezza aveva detto a qualcuno appena rientrato in città, dopo essere stato portato all’accampamento per ulteriori interrogatori, che i soldati avrebbero setacciato Nundpur palmo a palmo fino a quando non fossero stati catturati tutti gli insorti. La gente in città non aveva coraggio a sufficienza per affrontare quella situazione. Era la prima volta che quei soldati, un tempo amichevoli, di punto in bianco dimostravano la loro crudeltà. Prima di quell’incidente, i soldati entravano in città solo quando avevano bisogno di una mano per portare provviste all’accampamento o per qualche lavoro di costruzione. In molti avevano già lasciato la città. Quelle voci si rincorsero per tutta Nundpur e nei villaggi circostanti e amplificarono il terrore già diffuso. In quel clima di paura, la gente del posto che ancora non era fuggita riparò in altri luoghi per scampare l’ira dei soldati.
La nebbia della paura era ricomparsa troppo presto. Mentre tornava verso casa, la famiglia di Afzal incrociò alcuni abitanti diretti verso altre città. Temendo per la propria vita, avevano abbandonato tutto e si erano messi in viaggio caricandosi sulle spalle i beni più preziosi. Bubb, un capo popolare di Nundpur, provò a farli desistere, invano.
Non fosse stato per quella situazione in città, la famiglia di Afzal avrebbe organizzato una grande festa per dare il benvenuto al piccolo arrivato; ci sarebbe stato wazwan in abbondanza per tutti. Poiché quell’attacco non aveva precedenti, gli abitanti nei dintorni di Nundpur erano preoccupati per i bombardamenti e gli scontri a fuoco che avevano sentito la notte precedente. Mentre alcuni abitanti di Nundpur si spostavano in altri luoghi, raccontando aneddoti della fuga che li aveva sottratti alla morte agli abitanti delle altre città, che non aspettavano altro che di sapere qualcosa di più, giunse loro anche la notizia di Fatima che aveva dato alla luce un bambino nella moschea. Di lì a poco, grandi gruppi di persone provenienti da diversi villaggi e cittadine osarono andare in visita a casa di Bubb. E tutti, senza eccezione, li implorarono di lasciare Nundpur invitandoli a stare da loro.
Bubb decise di restare in città mentre tutti gli altri se ne andavano. Anche Bashir si trasferì a casa di Bubb. Trascorsero la giornata in preda alla paura, che talvolta lasciava spazio al sollievo portato dagli ospiti. Bubb chiese al tassista (l’unico a Nundpur) di andare in un’altra città a prendere pesce e agnello per cena. Quella sera, quando Moji andò a offrire del cibo ai vicini della porta accanto – che li avevano accompagnati nel ritorno a casa dalla moschea e che avevano promesso che non avrebbero lasciato la città – trovò la porta chiusa a chiave. Andò alla ricerca di altri conoscenti ma trovò solo pochissimi uomini e donne in città. Tornò a casa spaventata. Bashir la consolò, dicendole che quelle erano solo voci che giravano, e che non avevano nulla da temere perché non avevano fatto niente di male. Moji aveva preparato per tutta la famiglia del pesce con dell’haakh in un recipiente di terracotta, e un agnello speciale per la figlia. La famiglia unita condivise la felicità che aveva da tempo dimenticato.
Le temperature precipitarono di colpo, preannunciando neve. Stanchi dopo la notte appena trascorsa, chiusero a chiave la porta di casa e andarono a letto. Al pensiero della città deserta e delle voci che circolavano, Bubb non riusciva a prendere sonno. Si appoggiò a un cuscino con un kangri nella mano sinistra posizionato tra le cosce e una coperta che gli copriva le gambe. Bubb si trovava nel salotto al piano di sopra. Sentì dei rumori. Appallottolò la coperta, lasciò andare il kangri e andò dritto a una finestra per vedere se ci fosse qualcuno in strada. Ben nascosto dietro le tende, nella luce tenue della neve vide un gruppo di uomini, armati fino al collo. Con una violenza inaudita, stavano prendendo a calci il portone, poi le finestre, spostandosi anche sugli altri lati della casa, per tornare infine all’ingresso principale, prendendosela di nuovo con la porta d’ingresso. Il cuore di Bubb batteva all’impazzata, e a passo felpato andò a svegliare Farooq.
Bubb ordinò al figlio di fare silenzio. I due scesero al pianoterra, e all’ingresso trovarono gli altri membri della famiglia, spaventati come loro. Con molta cautela aprirono la porta della stanza di Fatima, e la trovarono seduta sulle gambe di Moji tremante di paura. Nel loro cuore, pregavano che Dio li salvasse. Pensarono che fosse meglio non aprire la porta. Temevano che Afzal si svegliasse e facesse rumore, perciò fecero molta attenzione a non disturbarlo. Fecero credere agli uomini armati che la casa fosse vuota, e quello stratagemma funzionò. Dopo un po’, gli uomini armati smisero di bussare alle porte e alle finestre. Tutti i membri della famiglia restarono nella stanza di Fatima fino a quando trapelò la debole luce del giorno. Al mattino, Bashir accompagnò fuori Bubb per vedere se vi fosse ancora qualche pericolo. Il biancore della neve ruppe gli argini della loro paura.
«Non è sicuro stare qui. Pensa se avessero rotto il vetro, forzato la porta e ci avessero trovati. Ci avrebbero sicuramente pestato, o addirittura ucciso». Farooq parlava mentre sorseggiava del nun chai, seguito da Bashir, che disse: «Sì, dovremmo andarcene anche noi come gli altri. Non sarà la neve a salvarci».
« Allah è stato misericordioso! Bevi del tè prima. Poi ci penseremo. Sarebbe difficile viaggiare con la neve» disse Bubb.
Bubb avrebbe dovuto chiudere a chiave il cancello esterno quando andarono a controllare fuori. I soldati tornarono per la seconda volta in città. Ora erano molto numerosi e arrivarono a bordo di un grande veicolo corazzato e una jeep, con le catene da neve. Si fermarono presso il grande albero del chinar e fecero scendere altri soldati, che si aggiunsero a quelli già presenti sul posto. In men che non si dica, i soldati circondarono la casa di Bubb, che si trovava sul lato sinistro della strada principale. Sembrava che i soldati fossero stati informati del fatto che i ribelli si trovassero in quella casa. Si aspettavano lo scontro da un momento all’altro. Alcuni di loro fecero irruzione nella cucina, dove tutta la famiglia aveva bevuto il tè. Moji era nella stanza di Fatima e le stava servendo la colazione.
I soldati fecero irruzione in casa con indosso lunghi stivali da neve bianchi e brandendo le armi. Diedero un calcio al samovar e il tè si rovesciò ovunque. Puntarono le armi contro Farooq e Bashir. Con la rabbia negli occhi e un tono imprevedibile, li interrogarono entrambi. Qualcuno voleva addirittura picchiarli, ma non arrivarono a tanto. Forse fu il pianto delle donne a fermarli. Chiesero dove fossero gli insorti. Si comportavano come se fossero sicuri di aver trovato i responsabili dell’attacco. Presero Bashir e Farooq come scudi umani e perquisirono ogni stanza e ogni angolo della casa. Misero a soqquadro tutto ciò che trovarono: indumenti, cibi, coperte e così via. Non risparmiarono nemmeno la stanza di Fatima.
Dopo che ebbero finito la perquisizione senza trovare traccia dei ribelli in casa, accusarono la famiglia di avere un nascondiglio segreto e li costrinsero ad aprire un varco nel muro di mattoni interno del ripostiglio. Quando non trovarono nulla, afferrarono Bashir e Farooq, li picchiarono trascinandoli alla jeep, e lasciarono la città. Le donne urlavano mentre cercavano di seguire la jeep dei soldati fino all’accampamento, ma Bubb le fermò. Le riportò a casa.
Come tanti altri in città, quell’episodio espose la famiglia alle paure più profonde di vivere in una zona di guerra. Quel luogo che da sempre trasmetteva loro pace e tranquillità da un momento all’altro era diventato ostile. Pensavano che avessero sbagliato a non aprire loro la porta la notte precedente. Ma quelle squadre violente non avevano fatto alcun riferimento a una loro visita precedente. “Allora chi erano quegli uomini armati?” pensarono.
«Forse erano quelli che hanno attaccato l’accampamento» disse Moji.
«I militanti! Ma ce n’erano tantissimi». Bubb alzò la voce. Capì che aveva sbagliato a chiedere alla famiglia di restare a casa.
«È possibile che i soldati avessero ragione. Magari qualcuno ha fatto loro una soffiata, magari gli hanno detto che nella nostra casa c’erano dei militanti. Forse qualche informatore ha visto quei ribelli venire a casa nostra di notte» aggiunse Fatima.
«Non è il momento di stare qui a rimuginare inutilmente. Rimettiamo in ordine e puliamo casa. E per prima cosa dobbiamo andare all’accampamento; altrimenti tortureranno i nostri figli fino ad ammazzarli» disse Moji.
Bubb cercò di infondere loro coraggio. «Andrà tutto bene. Basta piangere e pulite la casa. Li riporteremo indietro. Fatevi coraggio e non uscite».
Bubb radunò qualche altro anziano rimasto in città e, insieme, andarono all’accampamento.
Il Maggiore li ricevette nella sua stanza, li fece accomodare e chiese loro di riferire quello che sapevano sulle attività dei terroristi che avevano visto in città. Ma loro non li avevano visti, spiegò uno degli anziani. Bubb raccontò con sincerità l’episodio della notte precedente. Il Maggiore disse a Bubb e agli altri di tenere gli occhi aperti sui terroristi e sui loro intenti distruttivi. Chiese loro di tenerlo aggiornato nel caso avessero notato movimenti sospetti.
Un brivido corse lungo la schiena di Bubb alla vista di Bashir e Farooq. A pezzi, distrutti, sia fisicamente che emotivamente, prima di essere rilasciati dal campo di tortura fu chiesto loro di apporre la propria firma su un grosso registro, sul quale figuravano i loro nomi. Non riuscivano nemmeno a camminare senza l’aiuto di qualcuno. Quando videro in che condizioni erano ridotti Bashir e Farooq, tutti in famiglia scoppiarono in lacrime. Prepararono subito le loro cose e se ne andarono di casa. Ma Bubb e Moji restarono. Non se ne andarono mai da Nundpur.
Dopo aver trascorso diverse settimane lontano, fino a quando la situazione a Nundpur si normalizzò, le persone tornarono alle loro case. Farooq e Fatima erano molto emozionati di vedere Bubb e Moji. Quando arrivarono a casa, continuarono a bussare e a chiamare i genitori perché aprissero la porta, ma quando non ricevettero risposta, Farooq ruppe il vetro di una finestra ed entrò. Andò direttamente nella stanza di Bubb e ciò che vide lo fece strillare. Frettolosamente, Bashir e Fatima entrarono in casa e ciò che videro li pugnalò a morte. Bubb e Moji erano congelati sul pavimento, morti.
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