Ludwig Wittgenstein era un mistico mancato?

Non immagineremmo mai il famoso filosofo e logico come una persona influenzata dalla mistica, eppure, in un certo modo, farlo non è così sbagliato. Anzi.


IN COPERTINA opere dall’antico testo “Kitab al-Bulhan”

Questo articolo è un estratto da Religione e ribellione, pubblicato da Carbonio Editore, che ringraziamo.


di Colin Wilson

Ludwig Wittgenstein nacque a Vienna nel 1889. La sua era una famiglia piuttosto importante: il padre era un ingegnere che divenne una sorta di magnate dell’industria siderurgica austriaca, un uomo alla Undershaft, intelligente e dal carattere forte. La madre aveva il temperamento di un’artista: sensibile, dotata di una spiccata musicalità. Amica intima di Brahms, rese la casa dei Wittgenstein uno dei centri culturali di Vienna. Ludwig era il più giovane di una famiglia di otto persone, tutte di talento. Studiò a casa fino all’età di quattordici anni, poi andò a scuola a Linz per tre anni. Si era interessato alla scienza sin dall’infanzia e, quando finì la scuola, decise di studiare ingegneria. Aveva sempre mostrato un’ottima abilità manuale (quando era ragazzino, aveva costruito da solo una macchina da cucire) e durante l’adolescenza sviluppò un interesse per gli aeroplani. (I fratelli Wright avevano effettuato il primo volo a motore della storia nel 1903, quando Wittgenstein aveva quattordici anni). A diciannove, terminati gli studi di ingegneria a Berlino, andò in Inghilterra e si iscrisse al dottorato di ingegneria all’Università di Manchester. Rimase lì per tre anni e condusse molti esperimenti di aeronautica, anche sul motore a reazione. Ben presto il suo interesse si concentrò sui problemi matematici legati alla progettazione dell’elica, e da lì passò alla matematica pura. Brevettò alcune delle sue invenzioni sul design degli aeroplani. Eppure, nonostante il suo interesse per i problemi scientifici, gli anni di studio non furono felici. Il suo amico von Wright (al cui articolo biografico sono debitore per le pagine seguenti) sostiene che Wittgenstein probabilmente viveva al confine della malattia mentale e aveva sempre paura di valicarlo. È possibile che il suo interesse per la scienza e la matematica fosse un tentativo deliberato di controbilanciare certe tendenze morbose della sua mente. La grande chiarezza di tutti i suoi scritti principali sembra sottendere una vera e propria paura dell’oscurità e dell’indefinitezza. Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer lo ha influenzato molto da giovane e ha incoraggiato in lui lo stesso tipo di visione romantica che aveva ispirato a Nietzsche. E, come Nietzsche, anche Wittgenstein guardò ai contorni netti e precisi della conoscenza scientifica come antidoto (Nietzsche, come sappiamo, studiò filologia). 

Ma una delle maggiori influenze sullo sviluppo di Wittgenstein fu la lettura dei Princìpi della matematica di Bertrand Russell. Russell aveva concepito l’idea che la matematica e la logica fossero alla fine la stessa cosa. Questo lo portò alla nozione che la filosofia un giorno potrebbe essere ridotta a un insieme di simboli matematici. Kierkegaard, naturalmente, aveva già attaccato un’idea del genere mezzo secolo prima, perché se la verità è soggettività – cioè intensità di intuizione – è ovviamente impossibile arrivarci con la sola logica. Tuttavia, Wittgenstein non sapeva nulla di Kierkegaard, ed era inebriato dall’idea di Russell. Andò a Jena per incontrare un altro filosofo che aveva la stessa convinzione – Frege – e gli fu consigliato di studiare con Russell a Cambridge. 

Nel 1912 fu ammesso al Trinity College. Cambridge brulicava di attività intellettuale. Russell e Alfred North Whitehead avevano appena terminato il loro immenso Principia Mathematica, e G.E. Moore stava vivendo il suo momento d’oro. C’erano G.H. Hardy, uno dei migliori matematici dell’epoca, e J.M. Keynes, l’economista, che, secondo Russell, aveva “uno degli intelletti più acuti che abbia mai incontrato”. Con la sua serietà teutonica e la tendenza all’oscurità e all’introspezione, Wittgenstein trovò Cambridge difficile da capire: traboccava di un’atmosfera di fiducia nel progresso e nel libero pensiero. Si racconta che Wittgenstein una volta stava prendendo un caffè con Russell e Moore, quando Russell improvvisamente si rivolse a quest’ultimo dicendo: “Non ti piaccio, Moore, vero?”. Quello ci rifletté per un momento e rispose: “No”. La discussione si spostò poi su altri argomenti. Wittgenstein trovò l’intera faccenda un po’ folle. Questa divisione della mente in compartimenti stagni era al di là della sua comprensione. 

Non si dedicava interamente alla matematica. La musica rimaneva ancora uno dei suoi interessi principali – vi era stato immerso per tutta l’infanzia – e così conduceva anche esperimenti sul ritmo, sperando che gli servissero a gettare un po’ di luce sui problemi dell’estetica. Nel 1913 andò in Norvegia e visse in una fattoria per un anno. Come per il suo connazionale Lenau (poeta romantico, che morì pazzo nel 1850), era quasi commovente la sua fiducia nella ‘vita semplice’ (anche se non arrivò mai al punto di considerare le foreste dell’America come il luogo adatto per un filosofo). Durante la guerra del 1914-18, combatté sul fronte orientale e successivamente nell’Italia settentrionale. Quando venne fatto prigioniero nel 1918, aveva con sé nello zaino il manoscritto del suo libro più famoso, la LogischPhilosophische Abhandlung, il Tractatus logico-philosophicus (il titolo in tedesco significa letteralmente “Discussione logico-filosofica”, la più impegnativa definizione come tractatus venne data nella traduzione inglese su suggerimento di Moore). Il manoscritto fu inviato a Russell, e anche a Keynes e Frege. Russell ne pubblicò una traduzione in inglese (con un’introduzione che fece infuriare Wittgenstein) nel 1922. Farò un tentativo di riassumere gli argomenti del libro quando avrò terminato di parlare della vita di Wittgenstein. 

Quando Wittgenstein lasciò l’esercito nel 1919, una delle prime cose che fece fu dare via tutti i suoi soldi. La morte del padre nel 1912 lo aveva reso erede di una considerevole fortuna (ci fu un momento in cui donò del denaro a Rilke – in forma anonima – sebbene professasse di non ammirare la sua poesia, ritenendola artificiale). Decise a quel punto di diventare un maestro di scuola, e insegnò per sei anni in diversi villaggi remoti dell’Austria. 

È difficile capire compiutamente il processo psicologico che si cela dietro questa azione; forse un giorno potrebbero essere pubblicate delle lettere che ci daranno una visione completa al riguardo. Una ragione è sicuramente che durante la guerra Wittgenstein perse la fede nella “filosofia logica” di Russell, e iniziò a rimuginare sui problemi della personalità, del libero arbitrio e del significato della vita e della morte (la conseguenza è che il Trattato è diviso in due tipi di pensiero, e solo le prime parti si occupano di logica). Ma Wittgenstein aveva anche letto le ultime opere di Tolstoj, da cui era stato fortemente influenzato, e aveva iniziato a studiare i Vangeli. Nel Trattato era giunto alla conclusione di aver risolto tutti i problemi della filosofia. Senza dubbio sentiva che la fase successiva era l’esercizio spirituale, un’autodisciplina semireligiosa. La ragione che l’aveva spinto a diventare maestro di scuola doveva avere qualcosa in comune con l’ingresso di T.E. Lawrence nella raf. 

Sei anni come maestro gli dimostrarono che, dando via la propria fortuna, si era solo privato del tempo libero. Il suo esperimento di vita tra gli abitanti del villaggio non istruiti non ebbe successo quanto non lo ebbe quello di Van Gogh quando andò a vivere nel Borinage. Doveva avere a che fare con persone banali e fastidiose, e nel 1926 Wittgenstein abbandonò per sempre l’insegnamento. Ora era senza soldi e mezzi per mantenersi. Uno dei suoi primi pensieri fu di entrare in un monastero, un desiderio che sperimentò molte volte nella vita. Arrivò anche a lavorare come assistente giardiniere in un monastero vicino a Vienna, ma decise che la sua vocazione non era per la vita religiosa. Ora era davvero un outsider, non sapeva cosa fare né quale fosse il suo posto nel mondo. Fortunatamente, una delle sorelle gli giunse in soccorso e gli chiese di progettare e costruire una casa per lei a Vienna. Wittgenstein trascorse due anni a lavorare al progetto, e il risultato fu una struttura incredibilmente bella, in cemento, vetro e acciaio. Durante questo periodo, Wittgenstein si interessò anche alla scultura e sviluppò una notevole abilità nella modellazione di busti. 

Nonostante il suo isolamento auto-imposto, Wittgenstein non fu del tutto escluso dalla vita filosofica del suo tempo. Un giovane studente di Cambridge, Frank Ramsey (che aveva scritto una brillante recensione del Tractatus) andò a trovarlo, e un professore viennese, Moritz Schlick, fu profondamente influenzato dal Tractatus e dall’incontro con Wittgenstein; Schlick apparteneva al “Circolo di Vienna”, i positivisti logici originari. Ma Wittgenstein non era mai stato un positivista logico. (Il positivismo logico – dovrei precisare per i lettori non informati – è una sorta di materialismo marxista applicato alla filosofia). 

Una conferenza di Brouwer, il matematico “intuizionista” (l’intuizionismo potrebbe essere approssimativamente descritto come positivismo logico matematico), ravvivò l’interesse di Wittgenstein per la filosofia e nel 1929 egli tornò a Cambridge. Qui conseguì un dottorato di ricerca presentando il Tractatus come una tesi e nel 1930 venne nominato fellow del Trinity. 

Negli anni successivi ritrattò molte delle idee del Tractatus e iniziò a elaborare una teoria del linguaggio completamente nuova. Questa, come il Tractatus, divenne la base della scuola di filosofia nota come “analisi linguistica”. Wittgenstein ha la particolarità di essere il fondatore di due delle tre scuole di pensiero più importanti degli ultimi trent’anni. La terza, naturalmente, è l’esistenzialismo; e, come cercherò di dimostrare, la sua intera prospettiva era molto più vicina a quest’ultima che alle altre due. 

Nel 1935 prese in considerazione l’idea di stabilirsi in Russia, ma presto l’abbandonò, forse a causa delle purghe di Stalin. Tuttavia, visitò la Russia, e poi di nuovo la Norvegia, dove trascorse un anno vivendo da solo in una capanna. Iniziò a scrivere il suo secondo libro, le Ricerche filosofiche. Fece diversi tentativi di dare un impianto logico a questo testo, ma alla fine vi rinunciò e lo lasciò sotto forma di una serie di note e aforismi (pubblicati postumi nel 1953). È interessante ricordare che la filosofia romantica tedesca del XIX secolo tendeva a esprimersi in questo modo (i frammenti filosofici di Novalis, per esempio), e che Kierkegaard scelse il titolo Frammenti filosofici (o Briciole) per uno dei suoi scritti per sottolineare quanto non gli piacessero i grossi libri sistematici. 

Nel 1937, Wittgenstein succedette a Moore alla cattedra di filosofia a Cambridge. Ma era un professore molto poco ortodosso. Teneva le sue lezioni a casa e, a detta di tutti, non erano lezioni, bensì discussioni che lui si limitava a moderare. Non portava mai la cravatta, ma di solito indossava una vecchia giacca di tweed, o una giacca di pelle con la cerniera sopra una camicia morbida. Non gli piaceva Cambridge e la vita artificiale che vi si conduceva (una volta disse a Karl Britton che quando sentiva uno studente universitario esclamare: “Oh, davvero?”, si rendeva conto di essere tornato a Cambridge). Non mangiava mai alla mensa, perché non sopportava tutte quelle chiacchiere intelligenti; nell’unica occasione in cui gli capitò di passarci, se ne andò con le mani sulle orecchie, gemendo: “E non si divertono nemmeno!”. Il suo appartamento a Whewells Court era a malapena arredato; c’erano un letto, un tavolino e una sedia a sdraio, e non aveva libri (riteneva che la lettura semplicemente impedisse alle persone di pensare da sole). Moore e Russell non provavano ancora grande simpatia per la sua ‘serietà teutonica’ e Moore partecipava sempre ai suoi gruppi di discussione con un’espressione di disappunto (in seguito, ammise di aver capito molto poco di quel che veniva detto). Stava sviluppando la sua idea che ciò che di solito viene chiamato filosofia è in realtà un malinteso del linguaggio. Nelle Ricerche filosofiche, dice: “La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio”201. Ciò che stava cercando di fare in filosofia aveva qualcosa in comune con ciò che James Joyce stava cercando di fare in letteratura. Joyce non voleva semplicemente scrivere romanzi limitandosi a creare situazioni narrative diverse: voleva trovare un nuovo modo di scriverli, e sentiva che la trama e le situazioni narrative gli sarebbero state di impedimento; stava sperimentando con il linguaggio. Così era per Wittgenstein. Il Tractatus era il suo Ulisse: una specie di mitragliatrice con cui falciava tutte le precedenti tecniche filosofiche. Sarebbe stato un anticlimax per lui iniziare a filosofare sulla stessa linea di Russell, o anche di Whitehead. Invece, si concentrò sul problema di un nuovo modo di fare filosofia, un nuovo e rigoroso uso del linguaggio, che rivitalizzasse quello della filosofia. Nelle Ricerche filosofiche sta ancora gettando le basi che precedono l’atto di filosofare. 

Non era felice del suo lavoro di docente a Cambridge; meditò se rinunciare alla propria posizione sognando una carriera come direttore d’orchestra. Quando scoppiò la guerra, la prese come un’occasione per essere sollevato dall’impegno delle lezioni e andò a Londra durante il cosiddetto Baedeker Blitz*. Lì, accettò un lavoro come portantino al Guy’s Hospital. In seguito, andò a Newcastle e trovò impiego in un laboratorio medico. (C’era stato un periodo negli anni Trenta in cui aveva deciso di lasciare la filosofia e studiare medicina, ma poi abbandonò l’idea). 

Nella Pasqua del 1947 tenne le sue ultime conferenze a Cambridge, e di nuovo volle ritirarsi in isolamento. Questa volta scelse l’Irlanda, la costa occidentale, vicino a Galway. Là visse in un cottage e continuò a lavorare alle Ricerche filosofiche. Le persone che lo conoscevano parlano del suo curioso potere sugli uccelli; un abitante di Galway mi ha detto di aver visto Wittgenstein con la testa e le spalle ricoperte di uccelli, che erano volati via appena lui gli si era avvicinato. 

La vita nel cottage si dimostrò troppo faticosa con l’arrivo dell’inverno e, alla fine del 1948, Wittgenstein si trasferì in un hotel di Dublino, dove terminò le Ricerche. Nel 1949 andò in visita negli Stati Uniti e poi tornò a Cambridge. Lì scoprì che era malato di cancro. Morì nell’aprile del 1951; gli ultimi anni della sua vita li trascorse immerso in un lavoro costante, che continuò fino a pochi giorni prima della sua morte. A oggi (1957) è stato pubblicato solo un altro volume oltre alle Ricerche

Ho già detto come Wittgenstein ritenesse che il suo Tractatus avesse risolto tutti i problemi della filosofia. Un breve esame del libro mostrerà perché la pensasse così. 

Ci sono due linee di pensiero nella sua analisi. La prima è il risultato del suo studio su Russell e Frege. Non avrebbe senso cercare di riassumere qui questo aspetto, ma le sue conclusioni possono essere espresse brevemente. Tutte le proposizioni significative, sostiene, sono “funzioni di verità” di proposizioni elementari. (Una “funzione di verità” di una proposizione semplice è una proposizione la cui verità dipende solo dalla verità della proposizione semplice: cioè, se la proposizione semplice è “Hitler è morto”, allora la “funzione di verità” è una frase come “non c’è nessun Führer della Germania ora che Hitler è morto”). Ciò portò Wittgenstein a definire la “verità logica” come tautologia. 

Tuttavia, tale aspetto del Tractatus non è importante in questo contesto, e lo menziono solo per amore di completezza. Ciò che è fondamentale nel Tractatus è che esso pone dei limiti alla filosofia. 

Wittgenstein lo fa definendo il linguaggio come un’immagine della realtà. In altre parole, ciò che non è reale non può essere detto. Poi chiede: che cosa è reale? E risponde: tutti i fatti dell’universo. Inizia il libro con: “Il mondo è tutto ciò che accade” (cioè il mondo è tutto ciò di cui si può dire “Questo è vero” il mondo è tutti i fatti nell’universo). Poi prosegue (proposizione 6.41 – la discussione è divisa in proposizioni numerate per chiarezza): 

Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. […]
Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto. […] È chiaro che l’etica non può formularsi. 

6.423 Della volontà quale portatore dell’etico non può parlarsi.

In altre parole, il linguaggio non ha nulla a che fare con il tentativo di esprimere proposizioni sull’etica, la volontà o la vita e la morte. Se il significato del mondo si trova al di fuori di esso, allora non può essere espresso in un linguaggio, che esprime solo ciò che è nel mondo. Wittgenstein prosegue con alcuni pensieri sulla morte, l’immortalità e argomenti affini: 

La morte non è evento della vita. La morte non si vive.
Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente.

Con queste ultime parole, il Tractatus si sposta nel regno del mistico. “Vivere nel presente” non significa epicureismo; indica quei momenti vissuti dai personaggi di Dostoevskij, in cui un singolo istante sembra essere un milione di anni. Wittgenstein continua a negare il concetto di immortalità dell’anima (nel senso cristiano), e chiede: “Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno?”204. Ovviamente, sta attaccando solo quel che può essere chiamato un ‘cristianesimo ingenuo’, l’idea spiritualista che la vita continui inalterata in un altro mondo dopo la morte. Quando Dante confessa che è del tutto impossibile esprimere a parole la visione beatifica, dice qualcosa con cui Wittgenstein sarebbe stato completamente d’accordo. Oppure, come l’ha espresso un certo positivista logico: “Ciò che non si può dire non si può dire, e non lo si può nemmeno fischiettare” (John Tanner, si ricorderà, pone la stessa questione con Enry Straker nel secondo atto di Uomo e superuomo). Wittgenstein chiede: 

Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. […]
Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è.

Questo è il misticismo di Kirillov ne I demoni: la mera esistenza di qualsiasi cosa è un fatto mistico; una foglia, un granello di sabbia. Wittgenstein continua: 

Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.
D’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. 

L’enigma non v’è.
Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta.
[…]
Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse per questo che degli uomini ai quali il senso della vita divenne […] chiaro, non seppero poi dire in che cosa consistesse questo senso?)
Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico. 

[Notare questa dottrina del mistico che si mostra sebbene non possa essere espresso.] 

Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare –, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo la filosofia –, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto. 

Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare via la scala dopo essere asceso su essa.) 

Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo.
Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

Questa è l’ultima frase del Tractatus. Ho citato le tre pagine finali in modo abbastanza completo, ma omettendo di numerare i paragrafi. Non è un libro lungo, sono appena ottanta pagine. In queste ottanta pagine, tuttavia, Wittgenstein è riuscito a dire più di quello che avrebbe potuto dire la maggior parte dei filosofi impiegandone ottocento. Il suo paragrafo sul “gettare via la scala” è ovviamente un tentativo di anticipare un’obiezione: se tutte le affermazioni sul significato del mondo sono senza senso, le affermazioni di Wittgenstein nel Tractatus non sono anch’esse senza senso? La sua ammissione che in effetti sia così non suona vera. Se un’affermazione fosse davvero senza senso, sarebbe come una scala senza pioli, e comunque non ci si potrebbe salire. E se si può raggiungere uno stato più elevato di saggezza, allora non è certamente senza senso, non come Wittgenstein ritiene senza senso la metafisica. La sua affermazione ha una certa somiglianza con la pratica buddista di ripetere i Sutra fino a quando il loro significato non è abbastanza chiaro, e poi non ripeterli più. Sicuramente, come professore di filosofia, Wittgenstein ha cercato di fare quello che Nietzsche si era prefisso come scopo: indurre le persone a pensare, non semplicemente ad accettare ciò che viene detto loro. 

Permettetemi di riassumere brevemente l’argomentazione di Wittgenstein nel Tractatus per cercare di chiarire questi paragrafi. Il linguaggio è un’immagine della realtà, proprio come l’immagine della cicogna su una pubblicità della Guinness è una rappresentazione di una vera cicogna. Pertanto, la lingua può solo immaginare qualcosa che effettivamente è. E che cosa ‘è’? Tutti i fatti del mondo: cioè, non solo tutte le cose che esistono nell’universo, ma ogni possibile combinazione di queste cose. 

Se c’è un significato della vita, deve trovarsi al di fuori della vita stessa; cioè, deve risiedere nella vita considerata nel suo insieme. 

ertanto, tutta la metafisica (che parla di Dio, scopo, bene e male, e così via) è priva di significato: non può essere espressa in linguaggio. Questo non significa che ‘Dio non esiste’ o ‘non esiste il peccato’. Significa solo che se si usa la parola ‘Dio’ in una frase logica, questa viene automaticamente privata di logica e resa senza senso. 

La frase “l’enigma non esiste” (cioè l’enigma della vita) è stata accolta con gioia dai positivisti logici come giustificazione per considerare insensate tutte le domande sul significato della vita. Stanno ignorando il fatto che, due paragrafi prima, Wittgenstein parla dell’enigma in modo abbastanza chiaro: “Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma […] si trova al di fuori dello spazio e del tempo”. E la sua ultima frase implica che, come dice Dante, arriva un punto in cui non si possono più usare le parole. Un positivista logico ha citato quest’ultima frase: “Di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere” e ha aggiunto: “Va bene, a condizione che siamo d’accordo sul fatto che non c’è nulla di cui tacere”. Ora Wittgenstein ha affermato molto chiaramente che qualcosa su cui tacere c’è. Il positivista logico stava semplicemente facendo un’affermazione in base al proprio temperamento – un temperamento insider – e cercava di affermare che la frase poteva applicarsi al mondo intero. (Questo argomento è considerato in modo approfondito da William James in Le varie forme dell’esperienza religiosa). 

L’interpretazione logica positivista del Tractatus, quindi, insiste nell’ignorare la semplice affermazione di Wittgenstein secondo la quale il mistico esiste. Ma che dire dell’altra interpretazione, quella esistenzialista? Si adatta meglio al Tractatus

Sì, non appena diventa evidente che ci sono alcune frasi che devono essere aggiunte al Tractatus. Il Tractatus riguarda lo scopo del linguaggio. (Per inciso, Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche cambiò idea sul fatto che il linguaggio fosse un’“immagine della realtà”). Il libro sostiene che la filosofia possa essere condotta solo per mezzo del linguaggio e che ci siano alcune cose che il linguaggio non può esprimere. In questo, Wittgenstein ovviamente in parte ha ragione. Per esempio, Kierkegaard decise di attaccare l’arduo sistema di Hegel ritenendolo disumano e freddo, ma scrisse sull’argomento un libro altrettanto arduo e disumano (la Postilla conclusiva non scientifica), tradendo così i propri scopi. Heidegger ha cercato di sistematizzare l’esistenzialismo, e ha creato un’anomalia, un sistema esistenzialista che è più illeggibile di Hegel. 

Di fatto – ed è questo che sto cercando di sottolineare – l’unico modo in cui si può parlare dei problemi del ‘significato’ nella vita è mostrarli in termini di persone viventi. Jaspers è un esistenzialista migliore di Heidegger, perché almeno mantiene la sua attenzione concentrata su uomini come Van Gogh, Nietzsche e Dostoevskij. Cercherò di essere ancora più esplicito: non si può parlare dei veri problemi della vita, li si può solo mostrare. Il linguaggio critico, il linguaggio discorsivo, non hanno altro significato che quello logico. Ma si consideri Kubla Khan di Coleridge, I sonetti a Orfeo di Rilke, Il mercoledì delle ceneri di Eliot. Questa lingua ha un significato del tutto diverso dalla sintassi logica delle frasi. “La vera poesia può comunicare prima di essere compresa” ha scritto Eliot nel suo saggio su Dante. E si potrebbe andare oltre e dire: ciò che la vera poesia può comunicare non può essere espresso con un linguaggio ordinario. 

Ma c’è un punto ancora più importante da sottolineare qui, ed è questo: la poesia può presentare alcune questioni mistiche, ma non può indagarle. Può mostrarle solo nel modo in cui un lampo illumina un paesaggio. Ora Dostoevskij riesce a trasmettere molte più questioni di questo genere in Delitto e castigo e I fratelli Karamazov di quante persino Dante fosse in grado di esprimere nella Commedia, semplicemente perché, seguendo nelle sue opere la parabola di un certo numero di outsider, è in grado di mostrare al lettore intuizioni che non avrebbe potuto esprimere se avesse scritto un trattato filosofico. 

Il vero esistenzialismo non può essere comunicato con un linguaggio logico ordinario; trova espressione solo nel dramma, nella poesia (e non è un caso che Eliot abbia affermato che tutta la grande poesia è in sostanza drammatica) e nel romanzo. Il vero esistenzialismo è l’indagine drammatica della natura umana attraverso il mezzo dell’arte. Il vero filosofo esistenzialista è l’“artista-filosofo” di cui Shaw ha parlato in Uomo e superuomo

Per chiudere il cerchio di questo argomento è necessario aggiungere solo un’affermazione: una filosofia che non è esistenzialista è solo per metà una filosofia; è filosofia senza braccia né gambe. Tutta la filosofia europea dal XVII secolo è stata a metà. Un filosofo astratto è un uomo a metà. 

Tutto questo è chiaramente sottinteso nel Tractatus. È ironico, date le circostanze, che esso sia diventato il libro di riferimento della più gelida mezza-filosofia del XX secolo. 

In parte fu colpa di Wittgenstein, che non comprese appieno le implicazioni del suo libro. Si consideri, ad esempio, la sua frase sul significato della vita che sta al di fuori della vita, ed è quindi inconoscibile. Cosa significa veramente? Si potrebbe dire, con assoluta verità, che la forma di un gasometro è visibile solo dall’esterno. La forma del gasometro non può essere nel gasometro. Nemmeno il significato della vita può essere nella vita. Questo è abbastanza vero. Ma non significa che un uomo in un gasometro dovrebbe uscire per vedere la forma del gasometro. Tutto quello che dovrebbe fare sarebbe accendere la luce all’interno. La forma sarebbe visibile dall’interno così come dall’esterno. Allo stesso modo il significato della vita può essere percepito per intuizione mistica dall’interno. 

È un luogo comune di qualsiasi filosofia religiosa che si arrivi a un punto in cui si deve smettere di parlare e iniziare a sottomettersi alla disciplina. Wittgenstein giunse alla maturità sotto l’influenza di Russell, che ha sempre portato avanti l’innocente convinzione che si possa discutere l’universo fino nelle sue profondità, che la logica sia sufficiente. Il Tractatus era la rivolta di Wittgenstein contro questa visione, come, in effetti, lo fu la sua stessa vita, con tutta l’insoddisfazione e il cambiamento costante, la paura della malattia mentale, il desiderio infinito di provare nuovi modi di autoespressione. Ingegnere, scienziato, matematico, insegnante, monaco, architetto, scultore, medico, musicista, operaio… Wittgenstein dimostra perfettamente che il problema dell’outsider è l’autoespressione. Alla fine del Tractatus, sapeva che era ora di smettere di parlare e di iniziare a fare, sottomettendosi alla disciplina dell’outsider. Ma come Van Gogh, Lawrence e Nižinskij, il suo ‘agire’ non fu soddisfacente. 

Wittgenstein era un creatore manqué. Questo era il suo problema. Se fosse passato dal Tractatus a scrivere I fratelli Karamazov, a disciplinare se stesso fino a raggiungere il samādhi come Ramakrishna, a sforzarsi di raggiungere uno stato di ricordo di sé, come Uspenskij, avrebbe seguito la strada dell’autoespressione. Egli sapeva, con la stessa chiarezza di Gurdjieff, che l’unico scopo della conoscenza è essere qualcosa di più. Esprime questa idea nelle Ricerche filosofiche, dove si rifiuta di ‘filosofare’, ma conduce invece un lungo e scrupoloso esame del linguaggio, lo strumento della filosofia. Sapeva che arriva un punto in cui un uomo può usare le parole in modo brillante, ma non può cambiare se stesso. La conoscenza, come l’arte, ha un solo scopo: mostrare all’uomo il proprio volto. Quando uno scolaro impara per la prima volta a usare la sua mente, lo fa in modo statico; si gode il potere del suo intelletto. In questa fase, l’uso libero del suo intelletto aiuta a cambiarlo, a svilupparlo. Tuttavia, se rimane uno scolaro intelligente, brillante, ma immaturo, emotivamente e fisicamente, sta peggio di uno che lavora sui campi, che perlomeno conduce una vita equilibrata. 

Il XX secolo ha prodotto in abbondanza questo tipo di scrittori sul modello dello ‘scolaro intelligente’ (Bertrand Russell, Arthur Koestler e Aldous Huxley sono solo alcuni esempi, ma sarebbe ingiusto fingere che siano gli unici). E lo ‘scolaro intelligente’ è un’immagine adatta per la civiltà occidentale: brillante nella mente, ma immaturo in tutte le altre cose. Siamo troppo ‘intelligenti’, nella peggior connotazione della parola. Quando Shakespeare elogiò Bruto con le parole: “Quello era un uomo”, capì la condizione di base della vita, che deve essere completa ed equilibrata. E per sopravvivere, anche la civiltà deve essere completa ed equilibrata. La filosofia astratta è un simbolo della civiltà occidentale. L’outsider è l’uomo che si ribella istintivamente contro l’astrazione, contro la nostra civiltà del bambino-prodigio. L’outsider è l’uomo che desidera ardentemente un ritorno agli standard antichi, gli standard che riconoscono che l’intelligenza è solo a uso dell’intelletto, che la saggezza invece è un insieme che comprende intelligenza, emozioni e corpo.

Wittgenstein, come tutti gli outsider che abbiamo analizzato, deve in ultima analisi essere considerato un fallimento. La misura di quanto abbia fallito sta nel fatto che le due scuole associate a questo insegnamento sono il positivismo logico e l’analisi linguistica. L’analisi linguistica si dedica a ciò che hanno detto i filosofi del passato e obietta: “Ma non puoi dire questo”, oppure “Questo non ha senso”. Riconoscere che la filosofia astratta è fondamentalmente una mezza misura risparmierebbe ai filosofi analitici tutto questo sforzo. Non ha senso frustare un cavallo morto. Ma lo stesso Wittgenstein fallì perché non riuscì a resistere alla tentazione dell’intelletto. L’intelletto non lo soddisfaceva mai completamente ed era sempre irrequieto, eppure doveva tornare a filosofare, ad analizzare, perché era la via a cui la sua mente opponeva meno resistenza. 

L’intelletto da solo è una banalità. Wittgenstein non si arrese mai completamente a quella banalità, ma non ebbe mai la forza e l’intuizione di lasciarsela alle spalle. Dopo aver ammesso che non si può parlare di cose veramente importanti, continuò a parlarne per la maggior parte della sua vita. 

Ma questo non vuole essere un modo per minimizzare l’importanza di Wittgenstein. È uno dei massimi teorici europei dai tempi di Cartesio. Come Nietzsche, ha sempre pensato di scrivere per un nuovo tipo di uomo. È certamente vero che il suo significato non è stato ancora pienamente sviscerato, e non lo sarà fino a quando tutto ciò che ha scritto non sarà pubblicato e non sarà prodotta una biografia esaustiva.


Considerato uno degli scrittori più originali del XX secolo, Colin Wilson (Leicester, 1931-Cornovaglia, 2013), è autore di oltre un centinaio di libri, a cominciare dal celebre saggio L’Outsider, che gli diede la fama a soli 25 anni. Intellettuale eclettico e irriverente, si è cimentato nei campi più disparati, dalla filosofia alla letteratura, dalla psicologia all’archeologia, dall’arte all’esoterismo, all’occulto. Di Wilson Carbonio ha pubblicato La gabbia di vetroUn dubbio necessario e i primi due libri della trilogia di Gerard Sorme: Riti notturni e L’uomo senza ombra – Il diario sessuale di Gerard Sorme. Amato da autori del calibro di Stephen King e Philip Pullman, è stato d’ispirazione per varie personalità del mondo dell’arte, tra cui Groucho Marx, David Bowie e Julian Cope.

 

Ti è piaciuto questo articolo? Da oggi puoi aiutare L’Indiscreto a crescere e continuare a pubblicare approfondimenti, saggi e articoli di qualità: invia una donazione, anche simbolica, alla nostra redazione. Clicca qua  sotto

1 comment on “Ludwig Wittgenstein era un mistico mancato?

  1. Bell articolo. Non conoscevo , se non di nome , Wittgenstein. Sì, in effetti, le sue conclusioni avrebbero dovuto portarlo a passare ai fatti e cominciare ad operare , non empiricamente, su se stesso, veramente, ma avendo, di fatto, tagliato il ramo su cui era , per lui era impossibile tornare al tronco. In questo senso, credo, sì, un fallimento; sforzo titanici e prometeici provenienti da una individualità che non si trascende e che, per questo, di fatto, tenta nell impossibile di voler di contenere l Assoluto . Un mistico mancato, credo di sì, almeno l apparenza dice questo; mancato perché gli mancava la fede dichiarata in Dio con tutto quello che ciò avrebbe coerentemente comportato in termini di vita nella sua totalità: per questo che il popolano che viveva nel sacro in ogni aspetto della sua vita era , o sarebbe, di gran lunga più realizzato nella sua vita, anche senza , e soprattutto, tale astratto filosofare , senza tale intelligenza che frusta un cavallo morto , giustamente ; e questa è la cifra del mondo moderno, nel suo insieme. Grazie.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *