L’uomo artificiale

In questo saggio un luminare della fantascienza come Antonio Caronia fa il punto su cos’è un automa, sui replicanti, i robot e tutte le identità che sono “quasi come noi”. E che, oltre a somigliarci, dicono molto di cosa siamo veramente.


IN COPERTINA un’opera di JANNIS KOUNELLIS, “senza titolo 1961” oggi all’asta alla casa d’aste pananti.

Questo saggio è un estratto da Dal cyborg al postumano. Ringraziamo l’editore Meltemi per la gentile concessione.


di Antonio Caronia 

Eroi di metallo

Nel 1836 Edgar Allan Poe scriveva un articolo nel quale tentava di dare una risposta agli interrogativi suscitati dallapparizione in America del Turco Giocatore di Scacchi. Il Turco era un automa che giocava a scacchi con il pubblico, quasi sempre vincendo, ideato diversi decenni prima in Europa dal barone von Kempelen e portato in America da Maelzel. Ci si chiedeva naturalmente se lautoma fosse veramente una macchina o se ospitasse allinterno, abilmente dissimulato, un uomo. Poe argomenta in favore di questa seconda ipotesi, e lo fa non in modo induttivo, ma deduttivo, enunciando con lucidità un criterio di demarcazione fra uomo e macchina che vale la pena di riportare per intero. Confrontando lautoma di von Kempelen con la macchina calcolatrice di Babbage, da poco costruita, egli scriveva:

I calcoli aritmetici e algebrici sono per loro stessa natura fissi e determinati. Una volta immessi certi dati, ne conseguono necessariamente e inevitabilmente determinati risultati […] Possiamo facilmente concepire la possibilità di organizzare un congegno che, predisposto con i dati del problema da risolvere, dovrebbe procedere in modo regolare, progressivo e costante fino alla soluzione richiesta, poiché i suoi movimenti, per quanto complessi, non possono essere mai immaginati come indefiniti e indeterminati. Il caso, però, è completamente diverso con il Giocatore di Scacchi. In esso non c’è nessuna progressione determinata. Nessuna mossa negli scacchi segue necessariamente unaltra. [In questo gioco] c’è lincertezza di ogni mossa successiva […]. Non vi è dunque alcuna sorta di analogia tra le operazioni del Giocatore di Scacchi e quelle della macchina calcolatrice di Mr. Babbage […]. È assolutamente certo che le operazioni dellAutoma sono regolate da una mente e da nullaltro.

Poe naviga risolutamente – e non potrebbe essere altrimenti – sulla scia del pensiero moderno, inaugurata dal Cogito di Cartesio: luomo è irrimediabilmente e radicalmente separato dal resto del creato grazie al pensiero e al suo prodotto, il linguaggio. Dichiarando la necessità di una mente dietro alle mosse sulla scacchiera Poe ha potuto smascherare il Turco come un falso automa. Grazie allesistenza del pensiero e del linguaggio Cartesio poteva liberarsi da un dubbio che non ha comunque mai abbandonato luomo occidentale (basti pensare, in questo secolo, a Minnie la candida di Bontempelli, oltre che a R.U.R. di Karel Čapek e agli androidi di Isaac Asimov e Philip K. Dick): come essere sicuri che gli altri, che ci appaiono esseri umani come noi, lo siano davvero, e non siano invece macchine perfezionate che simulano un comportamento umano? Non c’è nessuna delle nostre azioni esterne che possa garantire a coloro che le esaminano che il nostro corpo non sia soltanto una macchina che si muove da sé, ma che, inoltre, ci sia in esso unanima che ha dei pensieri: nulla, se non le parole o altri segni fatti per qualsiasi cosa si presenti, senza riferirsi a nessuna passione”. Anche oggi che i progressi delletologia e dellIntelligenza artificiale rendono più problematiche le sicurezze cartesiane, ci accompagna la presenza discreta, a volte inquietante, a volte divertente, di un doppio meccanico, o elettronico, comunque artificiale, non umano come origine ma para-umano, a volte super-umano, dal punto di vista delle prestazioni.

Lautoma moderno, in Hoffmann come in Villiers de lIsle-Adam, in Jean Paul come in Mary Shelley, in Goethe come in Jarry fino alla fantascienza degli anni 30, 40 e 50, affonda la sua ragione dessere in quellinterrogativo e nelle inquietudini che esso suscita. È un dubbio squisitamente moderno”, nel senso che è inconcepibile senza la nascita della scienza moderna, senza il drastico taglio tra razionalità e irrazionalità, senza la separazione delluomo dal suo ambiente e la nascita della nostalgia per la Natura. E tuttavia sbaglieremmo se iscrivessimo le figure dellautoma e del robot, dellandroide e del cyborg (esseri a volte molto diversi, ma che per comodità di esposizione sono stati qui accomunati in una sola categoria) nei ruoli della modernità, come se fossero nati nel secolo dei lumi o, al massimo, alla fine del Medioevo. Moderna è la sensibilità con cui luomo si è rapportato con queste figure dellimmaginario: ma esse già esistevano, e anche la loro storia nelletà moderna e nella contemporaneità sarebbe incomprensibile se non ne cogliessimo i tratti che le connotavano nelle società antiche.

In condizioni così mutate, esse conservano qualche caratteristica arcaica, profonda e sedimentata nelle origini dellimmaginario collettivo: del tutto laicizzate, secolarizzate come la società che le ospita, recano ancora i segni del sacro che in altri tempi le attraversava. Ancora una volta la straordinaria sensibilità di Poe ci offre una traccia: il protagonista di un suo racconto umoristico sullalchimia si chiama proprio come il costruttore dellautoma Giocatore di scacchi (e lautore stesso suggerisce che si tratti della stessa persona).

Può sembrare a prima vista azzardato ricondurre alla categoria del sacro, a un atteggiamento religioso, per esempio la colomba di Archita (per citare il primo automa storico” di cui si abbia notizia nella Grecia classica) o le elaborate macchine semoventi, a corda o a vapore, di Erone alessandrino, che tanto interesse dovevano destare nel Rinascimento italiano. Ma una serie di altri dati attenuano il dubbio. Labilità dellartigiano, la sua capacità di costruire ordigni e macchine prodigiosi, è celebrata in quasi tutti i miti, simbolizzata nella figura di un fabbro celeste. Il più vicino a noi è il dio del fuoco e della fucinatura della mitologia greca, Efesto (Vulcano a Roma).

Efesto, figlio deforme di Zeus ed Era (Giove e Giunone), è un artigiano robusto e abilissimo. Fabbrica vergini semoventi e tripodi animati, doro, per i banchetti degli dei (come si legge nellIliade), è il costruttore della prima donna, Pandora, anchessa un essere artificiale (ne parla uno degli autori più misogini della Grecia classica, Esiodo). Spesso disprezzato dagli altri dei, persino da sua madre che se ne vergogna, (è questo un sintomo della scarsa considerazione in cui la cultura greca tiene le attività tecniche), Efesto mette le sue arti al servizio di una raffinata vendetta, come quando manda in dono a Era un trono semovente che incatena la madre e la porta in giro a suo capriccio, o quando immobilizza la moglie adultera Afrodite e il suo amante Ares (Venere e Marte) con sottilissime corde doro. In alcune pitture vascolari greche Efesto è indicato come Dedalo, labilissimo ingegnere umano costruttore del labirinto cretese e della vacca di legno nella quale si nasconde la regina Pasifae per congiungersi col toro: da questa unione nascerà il Minotauro. Dedalo fuggirà poi a volo dallisola col figlio Icaro, con le note tragiche conseguenze.

Nella mitologia germanica la figura di Volundr sembra fondere tratti dellEfesto e del Dedalo greci. Fabbro e orafo abilissimo, Volundr viene catturato da un re avido dei suoi gioielli, azzoppato e rinchiuso in unisola. Con linganno il fabbro riesce a vendicarsi: uccide i due figli del re, con i loro crani foggia splendidi monili che offre al padre ignaro, poi ne seduce la figlia e infine fugge a volo dallisola.

Nelle storie dei Narti, leggende raccolte presso la popolazione caucasica degli Osseti allinizio del secolo e nelle quali Georges Dumézil ha riconosciuto una struttura eccezionalmente ben conservata di antichi miti indoeuropei, esiste pure un fabbro celeste”, Kurdalaegon, il cui intervento ben presto esamineremo. Mircea Eliade, da parte sua, presenta in diverse occasioni figure di fabbri celesti nei miti di popoli africani e oceanici.

Più interessanti però, ai fini del nostro discorso, sono le vere e proprie figure di uomini artificiali presenti nei miti. Gli antichi progenitori, i protouomini, quando ne viene narrata la creazione, appaiono essi stessi come dei prodotti artificiali, esseri nati dal fango o dalla pietra. La creazione di Adamo narrata nella Genesi si collega alla trasformazione in uomini delle pietre che Deucalione e Pirra si gettano dietro le spalle dopo essersi salvati dal diluvio universale, o alluomo sapiente, Kvasir, di cui si parla nellEdda di Snorri, formato con lo sputo congiunto degli Asi e dei Vani, gli antichi dei germanici un tempo in guerra e proprio con quello sputo pacificati. Altre volte, come a suggerire una circolarità fra uomo e mondo, è la morte del primo uomo che dà luogo alla materia: nei miti mesopotamici è il seme di Gayomart, luomo primordiale, che colando a terra origina i sette metalli conosciuti.

Ma due figure meritano unattenzione particolare. La prima è il più colossale e prestante fra gli esseri metallici della mitologia greca, Talos, a cui anche Borges ha dedicato un paragrafo del suo Manuale di zoologia fantastica. Talos è un gigante di bronzo, guardiano dellisola di Creta, attorno alla quale gira tre volte al giorno, scagliando pietre contro gli stranieri e soffocandoli poi in un abbraccio arroventato. Egli è collegato ad altri esseri artificiali che custodivano il santuario di Zeus nellisola (un cane doro, per esempio). Creta è teatro dellinfanzia del re degli dei olimpici, e di alcune delle sue vicende più importanti, come il rapimento di Europa: e anche il nome del gigante ricorda quelli di antiche divinità solari, tanto che anche Zeus veniva chiamato sullisola Zeus Tallaios. È evidente, per questa via, anche il collegamento con Dedalo, il minotauro e il labirinto. Talos chiude la sua carriera di guardiano a opera di Medea e degli Argonauti, a cui aveva come il solito tentato di impedire lo sbarco sullisola: egli infatti aveva un solo punto vulnerabile, il malleolo, a cui giungeva una vena non metallizzata”: colpita questa, il gigante rovina al suolo con gran fracasso.

La fatale debolezza di Talos, del resto, ricorda quelle analoghe di eroi dei miti e delle leggende eroiche, come Achille o Sigfrido. Uguale destino spetta al più temibile e tempestoso degli eroi Narti, che Dumezil ha avvicinato al dio greco Ares: Batradz. Figlio di uno dei più eminenti guerrieri Narti, ma condannato dalle circostanze della sua nascita a uninfanzia segregata, da cenerentolo”, Batradz viene al mondo già con un corpo metallico: Un fuoco rosso passò… era, la metà superiore in acciaio, la metà inferiore in acciaio di Damasco, un bambino che schizzava fuori e andava a cadere in mezzo al mare! La bella acqua blu non fu che una nuvola al di sopra del fondo prosciugato”. Ma il suo corpo metallico non gli basta, lo vuole temprato, e allora ricorre al fabbro celeste, Kurdalaegon, che riesce a portare a termine lopera solo usando carbone di serpenti-draghi, tenendo il fanciullo nella fornace per una settimana e poi lanciandolo in mare, che ancora una volta si asciuga completamente. Tutto il corpo di Batradz fu di puro acciaio azzurro, salvo un budello, che non fu temprato perché il mare si era asciugato troppo in fretta”. Come è facile immaginare, sarà questo budellino a essergli fatale, dopo una vita di imprese straordinarie.

Saremmo portati oggi a leggere il corpo dacciaio di Batradz come una metafora interpretata letteralmente, con un procedimento che è tipico della fantascienza; esso rimanda in effetti a una familiarità del corpo delluomo con il corpo della terra, a una circolarità fra uomo e natura che è tipica del pensiero mitico. Come ha ampiamente documentato Mircea Eliade, il carattere sacro delle attività metallurgiche riposa su una visione della terra come corpo vivo, e quindi su una concezione evolutiva” dei metalli, dei minerali, che è la stessa che fonda lalchimia. I corpi metallici dei giganti e degli eroi tornano così nei sogni iniziatici degli sciamani siberiani, che vedono il proprio corpo smembrato, scarnificato e poi ricomposto con ganci e perni metallici: e di questi sogni conservano il ricordo nei loro costumi carichi di ferro.

Lautoma delle società mediterranee classiche, gli eroi metallici dei miti indoeuropei, testimoniano allora una unità primigenia e immediata con la natura, in forza della quale non appare inconcepibile, né spaventosa, la commistione tra il corpo umano e il metallo. Non ancora toccati dalla frenesia baconiana di dominio sulla natura, privi di una teoria e di una pratica della tecnica come forza produttiva”, i Greci per esempio concepiscono i loro automi come manifestazioni di ingegno, come prove delleccellenza dei loro inventori. Come non si sarebbero mai sognati di utilizzarli per risparmiare lavoro, per migliorare la produttività”, così non annettevano loro alcun carattere particolarmente spaventevole. Manifestazioni di una presenza divina diffusa, gli eroi di metallo non devono il loro destino tragico (quando lo manifestano) alla loro natura artificiale”, ma al loro ruolo della trama del mito. Non sarà più così quando la fine del Medioevo preparerà rivoluzioni scientifiche, industriali, religiose. Allora la figura dellautoma si trasformerà da compagno benevolo, testimonianza del significato dellUniverso, in doppio inquietante, minaccia per luomo, elemento di turbativa del mondo nella sua tragica insensatezza. Non sarà un caso che questo nuovo uomo artificiale, automa o robot, sia un figlio della stessa tecnica moderna che si presenta come la più grande rivoluzione delle forze produttive dai tempi del neolitico.

Ibridi minacciosi

La storia degli automi nellantichità classica e nel Medioevo è disseminata di riferimenti, tradizioni, leggende: scarsi i documenti. Se però gli autori romani e le riscoperte rinascimentali sono stati in grado di tramandarci almeno alcune delle figure e delle realizzazioni delletà greca (tutti alessandrini: Ctesibio, Filone, e soprattutto Erone), per quanto riguarda il Medioevo il buio è molto più fitto. La mosca di ferro del vescovo Virgilio di Napoli, laquila di Regiomontano che volò incontro allimperatore a Norimberga, le innumerevoli teste parlanti attribuite a papa Silvestro II, a Roberto Grossatesta, a Ruggero Bacone, il perfezionatissimo androide costruito da Alberto Magno perché lo servisse, e che venne poi distrutto dallarcigno successore di lui, Tommaso dAquino: tutte leggende, che documentano però un interesse forse imprevedibile di quellepoca per lessere artificiale. E tuttavia in una società organica come quella medievale, in cui prevale un approccio rigidamente religioso e morale alla realtà, una inflessibile idea di gerarchia, in cui lattività manuale viene sistematicamente sottovalutata e disprezzata nel sistema di valori dominante, la tecnica non può avere un posto importante nellimmaginario collettivo, e la figura del costruttore di automi non può emergere con autonomia e rilievo.

Luomo meccanico dellevo di mezzo (le realizzazioni che ci sono rimaste, sintende, e non quelle tramandate dalle tradizioni) è perciò principalmente lo jacquemart” basso-medievale, come i mori di piazza S. Marco a Venezia o il Maurizio” di Orvieto – per citarne due dei più famosi di casa nostra: un gigante metallico che con il suo martello percuote un campanone di bronzo e scandisce il tempo. Una figura centrale nella vita della città del basso Medioevo, ma ancora molto intrisa di una dimensione sacrale e religiosa. Il legame fra lautoma e lorologio non è comunque casuale: la simulazione dei movimenti del corpo umano o animale, se vuole essere abbastanza precisa, non può basarsi sugli ingegnosi sistemi di funi e contrappesi con cui sono costruiti gli automi di Erone, ma deve utilizzare i congegni di una meccanica molto più precisa e miniaturizzata (relativamente allepoca), quelli appunto che gli anonimi artigiani dellultima parte del medioevo misero a punto per la costruzione di macchine in grado di scandire un tempo uniforme e misurabile. Ma non c’è solo un problema tecnico: la strada agli automi dellepoca moderna è aperta anche da una progressiva secolarizzazione delle categorie interpretative.

Da un lato il tempo non è più (o non solo) il tempo della liturgia, la ripetizione sacrale di un tempo mitico come quello della vita di Cristo, ma è (anche) il tempo degli scambi, della vita produttiva, di una dimensione sociale di tempo libero”. E non è un caso che le più complesse realizzazioni della tecnica rinascimentale in fatto di automatismi (tralasciamo, come sempre, le tradizioni di più ardua documentazione come il leone meccanico di Leonardo che avrebbe accolto, a Milano, Luigi di Francia) siano i giardini animati: con le grotte di Pratolino costruite da Bernardo Buontalenti per il Granduca Francesco I di Toscana si inaugura un nuovo genere” che ha grande successo e diffusione tra il XVI e il XVII secolo, soprattutto in Francia. Daltro lato, anche la nascente anatomia, inaugurata da Andrea Vesalio nelle tavole del De humani corporis fabrica (1543), rinuncia a cercare nel corpo umano la conferma di sacre simbologie a favore di uno studio più concreto delle forme e dei meccanismi di funzionamento. In unepoca di generale ristrutturazione del sistema simbolico, di sconvolgimento dellimmaginario collettivo vigente, la figura dellautoma non tarda a emergere quasi come simbolo di una riconquistata autonomia dei sistemi di rappresentazione del reale e di dominio sul mondo. Questo accadrà principalmente quando, con lIlluminismo, si sarà fatta strada nella cultura europea una radicale ipotesi materialista, approdo conseguente delle premesse di valorizzazione e autonomizzazione delle attività umane (tanto teoriche quanto pratiche) emerse con la dissoluzione del mondo medievale. Il XVIII secolo, infatti, celebrerà il definitivo (per il momento) trionfo della tecnica, la sua promozione ad attività umana meritevole di attenzione al pari delle altre, senza più sensi di inferiorità verso le sue sorelle intellettuali”, la ricerca del vero e del bello.

LEncyclopedie di Diderot e DAlembert tratterà per la prima volta il telaio meccanico e la macchina a vapore come oggetti culturali, al pari delle speculazioni filosofiche e delle opere darte. Nel contempo si tenta però un nuovo paradigma unificante, capace di ridare unità alle ricerche culturali già frantumate dallaffermarsi delle nuove scienze e dalleclissi dellorganicismo religioso medievale. Questo paradigma è il materialismo, che passa da filone eccentrico e marginale del pensiero occidentale a fenomeno culturale emergente. Julien Offroy de La Mettrie ne espone, nellUomo macchina (1747), il manifesto: radicalizzando le tesi di Cartesio, che aveva affermato che ogni animale era descrivibile come macchina, si riconduce anche il pensiero (almeno in linea di principio) alla materia e al movimento. Ma anche Diderot, pochi anni più tardi, con la Lettera sui ciechi (1749), si avvicina a queste ipotesi. Il materialismo settecentesco, dal punto di vista delle teorie cognitive, è rigorosamente sensista. È a questo proposito che troviamo uno dei più gustosi automi teorici” o mentali (un automa pensato, cioè, ma non costruito): è la statua che Etienne de Condillac introduce nel suo Trattato delle sensazioni (1754). Ecco la descrizione che ne dà Borges:

Condillac immaginò una statua di marmo, organizzata e conformata come il corpo di un uomo, e abitazione di unanima che mai avesse percepito o pensato. Egli comincia col conferire alla statua un solo senso: lolfatto, forse il meno complesso di tutti. Un odore di gelsomino è il principio della biografia della statua: per un momento non ci sarà che questodore nelluniverso: o meglio, questodore sarà luniverso che, un momento dopo, sarà odore di rosa, e poi di garofano. Che nella coscienza della statua ci sia un solo odore, e avremo già lattenzione; che lodore perduri quando è cessato lo stimolo, e avremo la memoria; che unimpressione attuale e una passata occupino insieme lattenzione della statua, e avremo la comparazione; che la statua percepisca analogie e differenze, e avremo il giudizio […]. Nate così le facoltà dellintelletto, quelle della volontà sorgeranno dopo: amore e odio (attrazione e repulsione), speranza e timore […]. Lautore conferirà poi al suo uomo ipotetico ludito, il gusto, la visione, e infine il tatto. Questultimo senso gli rivelerà che esiste lo spazio e che, nello spazio, lui è un corpo: i suoni, gli odori e i colori gli saranno sembrati, prima di questo stadio, semplici modificazioni o variazioni della sua coscienza.

Della statua di Condillac ha fornito recentemente una nuova versione lo scrittore di fantascienza Raphael A. Lafferty. In questo racconto la statua sopravvive al suo costruttore, unendosi a un gruppo di rivoluzionari. Il cattolico anticonformista Lafferty non perde loccasione per rinfacciare ai razionalisti lesito sanguinoso della messa in pratica delle loro teorie. La ragione è quello che conta, Statua, la razionalità. Noi la divulghiamo, ed essa si diffonde. Prevale. Il mondo futuro sarà il mondo della ragione totale”, dice Condillac nel racconto. No, sarà la Rivoluzione”, risponde la statua. Un mondo condannato alle razioni ridotte della ragione chiederà il sangue a gran voce”.

Le razioni ridotte della ragione”, nel XVIII secolo, si raccoglievano attorno al grande paradigma materialista-meccanicista. Tutto luniverso è un grande meccanismo, regolato dalle leggi di Newton (appena allora accettate da tutta la comunità scientifica). Alluomo il compito di conoscere queste leggi, applicarle, dare impulso a un nuovo sviluppo lineare e potenzialmente illimitato delle forze produttive. È in questo clima culturale che va compresa la fioritura eccezionale di automi nel XVIII secolo e, in parte, nel secolo seguente. Lassimilazione delluomo alla macchina, avanzata nel campo concettuale, esigeva di essere verificata, tradotta nella pratica, ovviamente nel senso inverso: leccellenza della tecnica doveva permettere la costruzione di macchine che simulassero almeno alcune delle funzioni umane – i movimenti, persino la voce. Per la prima volta i costruttori di automi non sono figure solo eccentriche, ma personaggi stabilmente inseriti nel panorama e nelle attività tecniche della loro epoca. Lesempio più chiaro di questa nuova tendenza è proprio il più famoso e geniale costruttore di automi del Settecento, Jacques Vaucanson (1709- 1782).

Costruttore a soli sedici anni di alcuni piccoli automi, a trentadue già Ispettore Generale delle manifatture di Francia, inventore nel 1745 di un telaio automatico più volte da lui stesso perfezionato negli anni seguenti, Vaucanson inseguì per tutta la vita il sogno di un uomo artificiale, capace di riprodurre tutte le funzioni fisiologiche dellessere umano. Un sogno che accompagna tutta la storia della tecnica in quel secolo, capace di dare origine a ricerche appassionate, sottili tentativi, polemiche arroventate. Pochissimo è dato conoscere di questa ricerca di Vaucanson, se non che essa era strettamente collegata con lapparizione di una nuova materia prima, il caucciù; il geniale meccanico francese si interessò da vicino ai problemi connessi con la trasportabilità e la malleabilità di questa materia, ma, a parte qualche incerta testimonianza, nulla si sa sulle realizzazioni concrete. Prima e dopo aver lavorato a questo progetto, comunque, Vaucanson costruì tre automi meravigliosi, che, presentati fra il 1738 e il 1739, girarono poi la Francia e tutta lEuropa: un flautista capace di eseguire delle arie su un flauto traverso, un tamburino, e la famosissima anitra, che imitava alla perfezione tutti i movimenti dellanimale, compresa la masticazione del cibo e la deiezione dei rifiuti.

Questi automi (la cui presenza nelle città dEuropa è attestata, per i primi due, fino ai primi dellOttocento, per lanatra addirittura fino al 1863) non sono che i più famosi esemplari di una lunga serie di consimili, costruiti da meccanici meno famosi, ma non per questo meno abili di Vaucanson: dallaustriaco Friedrich von Knaus agli svizzeri Pierre e Henri-Louis Jacquet-Droz (alcuni loro automi, ancora funzionanti, sono conservati nel museo di Neuchâtel), ai francesi Maillardet, tutti operanti nel Settecento, e nellOttocento il tedesco Johann Bartholomé Rechsteiner, che ricostruì dopo un secolo lanatra di Vaucanson fortunosamente ritrovata, lillusionista Jean- Eugéne Robert-Houdin e Gaston Decamps. Ma il Settecento rimane, naturalmente, il secolo più ricco di automi. Il mito di Prometeo ritorna allora (e non sarà più così nel secolo seguente) nelle forme dello sbalordimento, della meraviglia, con un gusto per il segreto, per gli aspetti riposti della realtà che il positivismo si incaricherà poi di smantellare (pur senza riuscirvi del tutto). E i costruttori di automi, singolari figure di tecnici-inventori-imprenditori (non scienziati, e neppure tecnologi” nel senso che oggi diamo a questa parola) mostravano di assecondare alla perfezione questo gusto. Questi androidi erano prima di tutto una fonte di guadagno, venivano pensati e progettati tenendo ben presente il gusto del pubblico, dellepoca: ecco che questo puntuale rifare aspetti e movenze della vita asseconda ancora un gusto ancora preesistente per il magico, il chimerico, lesoterico: ma che sfociava nella meccanica, però, che trovava la sua radice in un contesto razionale e spiegabile”. Il che spiega anche una certa tendenza degli automatisti” a tenere segreta la spiegazione dei meccanismi delle loro opere, e a ricorrere anche a veri e propri trucchi. Vaucanson stesso, per esempio, non rivelò mai, finché lanatra era in suo possesso, che la poltiglia presentata come gli escrementi della digestione era in realtà preintrodotta nellautoma, preferendo far credere che fosse il prodotto di una vera e propria simulazione della digestione; e non occorre poi ricordare il caso clamoroso del Turco scacchista di von Kempelen, vera e propria truffa di cui si è parlato nellarticolo precedente.

Ma la disponibilità alla meraviglia, a uno stupore gioioso, dura finché dura ladesione al paradigma dominante. Altrimenti (per restare in tema) si rischia di rimanere come il Casanova-Sutherland in quella memorabile scena del film di Fellini, in cui lavventuriero veneziano continua a danzare dignitosamente con la sua dama (un automa) anche quando i meccanismi sono andati fuori registro, ed essa esibisce scompostamente il suo sghembo arto meccanico: scena memorabile, dicevamo, perché senza una parola mostra la crisi e la fine di unepoca. Il paradigma materialista-meccanicista non rimane incontrastato, in realtà, che poco più di mezzo secolo. Già negli ultimi anni del Settecento esso viene contestato, rovesciato, dalla reazione romantica, con la sua preoccupazione dellunità Uomo-natura e con la sua critica ai valori (diremmo oggi, con un minimo di forzatura) tecnocratici” oltreché razionalisti, dellIlluminismo. È soprattutto negli scritti del romanticismo tedesco, in Ludwig Tieck, in Achim von Arnim, in Jean-Paul, che troviamo espresse queste preoccupazioni. Ed è in loro – piuttosto che negli autori, coevi o di poco precedenti, del filone gotico” inglese – che la figura dellautoma si trasforma nellemblema satanico, demoniaco, della hybris” umana e della sfida che essa lancia allordine naturale (o divino, il che per i romantici è quasi sempre lo stesso).

I racconti dei romantici in cui compaiono figure di automi sono stati analizzati, da Otto Rank e successivamente da Freud, e ricondotti alla categoria del doppio”, ombra, riflesso dellio o vero e proprio sosia dotato non solo di straordinaria rassomiglianza ma di una angosciosa e inestricabile intersezione con la vita del protagonista. Lautoma diviene una delle personificazioni del doppio, considerato come parte inalienabile del proprio passato”, ma anche come minaccia rivolta allio e al valore narcisistico che luomo gli attribuisce. Questa minaccia è tanto più angosciosa in quanto viene da una replica inanimata della vita.

Ho sempre provato un senso di invincibile ripugnanza per quei fantocci costruiti non tanto a immagine e somiglianza delluomo, quanto a scimmiesca imitazione del sembiante umano – veri e propri monumenti eretti alla morte in piedi, alla vita mummificata”, dice il protagonista di un racconto di Hoffmann. Proprio Hoffmann è stato il poeta per eccellenza del tema del Doppio”. In uno dei suoi più noti racconti, Der Sandmann (Luomo della sabbia o Lorco insabbia), analizzato da Freud in un famoso saggio, la figura dellautoma appare collegata ai traumi infantili del protagonista. Nataniele, bambino, è ossessionato dalla fiaba dellOrco Insabbia, che per fare addormentare i fanciulli getta loro manciate di sabbia negli occhi finché questi cadono insanguinati fuori dalle orbite. Egli identifica lOrco con il misterioso collaboratore del padre, Coppelius, sorta di fabbro/alchimista che, in un incubo (reale? sognato?) minaccia di strappare gli occhi al bambino e gli svita invece mani e piedi. Cresciuto, Nataniele incontra nuovamente Coppelius nelle vesti dellottico Coppola: frattanto si è però innamorato di Olimpia, silenziosa figlia del professor Spallanzani, dimenticando la fidanzata. Ma in una furibonda lite tra Spallanzani e Coppola, Nataniele scopre che Olimpia è un essere meccanico, a cui il professore ha dato il meccanismo, Coppola gli occhi (rubati, afferma Spallanzani, proprio a Nataniele). Il giovane impazzisce e, infine, muore gettandosi da una torre. Linterpretazione di Freud riconduce il terrore dellaccecamento, anche sulla scorta del mito di Edipo, alla paura della castrazione, e interpreta la figura di Olimpia come un doppio”, appena camuffato dalla differenza di sesso, di Nataniele. Questa bambola automatica non può essere altro che la materializzazione dellatteggiamento femmineo del piccolo Nataniele verso il padre. I padri di Olimpia – Spallanzani e Coppola – non sono che nuove edizioni, reincarnazioni del padre di Nataniele […]. Olimpia è per così dire un complesso distaccatosi da Nataniele che gli si fa incontro come persona; quanto egli sia dominato da questo complesso è espresso nellinsensato e ossessivo amore che egli nutre per Olimpia”.

Come sarà più tardi per gli alieni e i mostri della fantascienza, anche lautoma, insomma, non è che una parte di noi. Una parte di noi che suscita orrore, perché è espressione in qualche modo di un passato già concluso e immutabile, fa parte di quei fenomeni vitali già completamente dispiegati e attuati, privi cioè di ogni possibilità evolutiva” e visti dunque come manifestazioni diaboliche”. Bisognerà attendere settantanni esatti perché un altro demistificatore del progresso scientifico, Villiers de lIsle Adam, rovesci questo orrore in sarcasmo e ironia, proponendo (in un contesto di accesa misoginia) la sostituzione della donna naturale, di Eva, con una Eva scientifica”, un androide femminile, appunto la Andreide”. Ma non precorriamo i tempi. Per il momento (cioè nei primi decenni del XIX secolo) prevale ancora linquietudine per le forze che la scienza e la tecnica, incontrollate, possono scatenare. Gli automi di Hoffmann e di Jean-Paul, c’è appena bisogno di notarlo, sono stretti parenti della creatura” del Frankenstein di Mary Shelley (il romanzo è del 1818). Non è dellautoma, naturalmente, che i romantici hanno paura, ma di quello che luomo si porta dentro: una forza oscura che assume, inesorabilmente, il nostro viso.

Se vi è una forza oscura che ripone a tradimento nel nostro cuore un filo, col quale poi cerca di trascinarci su strade pericolose e fatali – se esiste una simile forza, allora, dentro di noi, essa deve assumere il nostro aspetto, divenire anzi noi stessi; perché solo così possiamo credere in essa e darle il modo di compiere la sua opera segreta.

Ancora una volta, lautoma è uno specchio.

 

 

Arnaldo Pomodoro, “Cerchio quadrato, 1974”. Oggi all’asta da Pananti Casa d’Aste

Dal Golem a Robbie

Il 25 gennaio 1921 risuona per la prima volta, su un palcoscenico di Praga, una parola destinata a una straordinaria fortuna in tutte le lingue: robot. Compare nel titolo e nel testo di una commedia del trentenne autore ceco Karel Čapek; si tratta di R.U.R., un acronimo che sta appunto per Rossums Universal Robots”. Il neologismo è stato suggerito dal fratello di Karel, Josef, e per il pubblico praghese ha un suono familiare, perché rimanda a robota”, che in ceco significa corvée”, sfacchinata. I robot sono una straordinaria invenzione del filosofo Rossum, perfezionata poi dal nipote ingegnere. Sono uomini sintetici, fatti di un glutine colloidale, una sostanza il cui comportamento è del tutto uguale a quello della sostanza viva, del protoplasma, ma con una composizione chimica differente”. Lingegner Rossum, che rappresenta lepoca della produzione dopo quella della conoscenza”, mette da parte il progetto del vecchio filosofo (costruire una replica esatta delluomo nel fisico, nelle emozioni, nellanima) e si mette a fabbricare delle macchine da lavoro vive e intelligenti”. Qui Čapek si collega alla tradizione dellutopia occidentale: i robot sono creati per liberare lumanità dalla schiavitù del lavoro, per estinguere il valore con larma dellabbondanza: In dieci anni i Rossums Universal Robots produrranno tanto grano, tanta stoffa, e tante altre cose, che diremo: nulla ha più valore. Ora ciascuno prenda quel che gli occorre. Non c’è più miseria. Sì, [gli operai] saranno senza lavoro. Ma non ci sarà più lavoro da fare. Tutto sarà fatto dalle macchine vive. Luomo farà soltanto quel che gli piace. Vivrà solo per perfezionarsi”.

Ma Čapek non crede nellutopia, specie in quella tecnologica: la storia non viene fatta dai grandi sogni, bensì dai piccoli bisogni dei piccoli uomini onesti, moderatamente ladri ed egoisti, cioè da tutti gli uomini in generale”, dice un suo personaggio. Lutopia non funziona. Uno scienziato irresponsabile, per un futile esperimento personale, modifica la composizione dei robot, aumenta la loro irritabilità: i servi fedeli si ribellano, massacrano tutti gli uomini, per accorgersi poi però che nel loro funzionamento non è insita la riproduzione. Vorrebbero prendere il posto delluomo sulla terra, ma non sono in grado di assicurare la continuità alla nuova specie: solo la formula segreta di fabbricazione, la ricetta originale dei Rossum, potrebbe consentirlo, ma quella formula è stata distrutta da Helena, la giovane idealista che voleva battersi per lemancipazione dei robot e pensava così di arrestarne lo sfruttamento. Ma lultimo uomo, Alquist, assiste al nascere dellamore fra due esseri artificiali: la vita non perirà”, commenta luomo ormai ridotto al ruolo di osservatore di un processo che non lo riguarda più.

R.U.R., che non è certo la migliore delle opere di Čapek pur esprimendo temi tipici di questo autore, ebbe immediato successo anche al di fuori della Cecoslovacchia, a Londra, Parigi, New York, e il neologismo robot” si impose rapidamente. Segno che questi esseri artificiali, questi feticci dellaggrondata civiltà tecnologica” (come li ha chiamati Angelo Maria Ripellino), toccavano corde profonde dellimmaginario collettivo. Questi servi obbedienti ma torvi e sornioni” fondono in effetti due diverse tradizioni letterarie e immaginative. Una è quella dellautoma, dellandroide settecentesco, opera di scienza e di eccellente tecnica artigianale, mirabolante imitazione della forma umana che non nasconde però la sua origine artificiale. Laltra è una tradizione più specificamente praghese, con varianti polacche, propria della cultura ebraica: un pupazzone di terra, argilla o fango in cui viene infusa una vita rudimentale attraverso varie combinazioni di lettere. È il golem, servo obbediente, dalla smisurata forza ma dalla limitata intelligenza totalmente manovrato dal rabbino che lo ha costruito, che di notte pattuglia le viuzze del ghetto di Praga per stornare dal capo dei suoi abitanti la minaccia di pogrom che sempre incombe. È evidente nelle primitive apparizioni medievali di questa figura unimitazione della creazione divina nella tradizione del misticismo giudaico. Nel corso dei secoli, però, a queste caratteristiche si sovrappongono echi della tradizione alchemica delluomo artificiale (homunculus), e una contaminazione con la figura del servo sciocco”, che per eccesso di zelo e per scarsa intelligenza non fa che produrre danni. Nella versione popolare sette/ottocentesca della leggenda (che attribuisce la creazione del golem a Rabbi Loew, che visse effettivamente a Praga ai tempi dellimperatore Rodolfo II, nel XVI secolo), il gigantesco guardiano cresce dapprima in modo abnorme, poi sfugge al controllo del rabbino e mette in pericolo le vite umane, e deve quindi essere distrutto. A cavallo tra la fine del secolo scorso e linizio del nostro il golem ispirò un gran numero di ballate, racconti e romanzi, sia in area tedesca che praghese, tra le quali spicca il romanzo di Gustav Meyrink (Il golem, 1915). Laspetto del gigante argilloso venne poi fissato e reso popolare nellomonimo film tedesco di Paul Wegener (che ne era anche linterprete) del 1920.

La ribellione della creatura al creatore, inevitabile conseguenza dellatto di superbia che aveva spinto luomo a gareggiare con la natura o con Dio, era già comparso un secolo prima nel Frankenstein di Mary Shelley. Ma in quellopera, come nei racconti di Hoffmann, come in tutta la tradizione romantica, lessere artificiale è un unicum, creazione eccezionale e – si suggerisce per maggiore tranquillità del lettore – irripetibile. Anche il golem è solo, non ha fratelli né sorelle. La grande innovazione di Čapek in R.U.R. è invece quella di trasferire il suo robot nel dominio del seriale, intuendo che esso abita a pieno titolo nel contemporaneo, e quindi non può sfuggire alle leggi della produzione industriale di massa. Luomo è quindi chiamato a confrontarsi non con un essere straordinario, portatore di un destino tragico in quanto evento fuori delle leggi naturali, eccezione, mostro”, ma con una intera, nuova razza. Čapek trasfonde almeno in parte nei suoi robot (come più tardi nei mostruosi ibridi anfibi de La guerra con le salamandre), tutta la sua avversione per luomo massa, i suoi comportamenti standardizzati, il suo aspetto omologato. È alla condizione delle masse operaie che allude il robot, fin dallinizio del suo viaggio nellimmaginario di questo secolo. Laltra importante innovazione di Čapek, cioè la forma umana, la natura organica – ancorché artificiale – dei nuovi esseri, fatica invece ad affermarsi. Infatti larchetipo visivo del robot che dominerà incontrastato per diversi decenni nelle riviste di fantascienza, fino allaffettuosa e ironica citazione che ne fa Lucas in Guerre stellari (1978) con il droide” C-3PO, compare per la prima volta nel film Metropolis (1926) di Fritz Lang: è la falsa Maria, costruita dal malvagio scienziato-stregone Rotwang per incitare alla rivolta gli operai-schiavi della città e portarli alla rovina. Le scene in cui compare il suo corpo metallico (dapprima trasformato quasi magicamente in quello di Maria, poi emergente sotto le false spoglie umane nel rogo finale) sono tra le più memorabili del film.

Ed è in questa forma – un corpo almeno grossolanamente antropomorfo, con braccia e gambe oppure tentacoli, testa sfavillante di luci rotanti o con raffinati sensori ottici, ma sempre, inequivocabilmente metallico – che il robot fa la sua comparsa nella nascente fantascienza americana fra gli anni Venti e Trenta. Dapprima questo nuovo personaggio si inserisce nella tradizione romantica e gotica” da cui proviene anche la figura del suo inventore, lo scienziato pazzo”; è una macchina intelligente ma minacciosa, intenta ad architettare piani per distruggere o sottomettere lumanità. Nel 1939 Eando Binder (pseudonimo collettivo dei fratelli Earl e Otto Binder) inaugura un nuovo filone con il racconto I robot: il mechanical man” che vi compare, Adam Link, dotato di una spugna alliridio come cervello, una livella a spirito per conservare lequilibrio, occhi elettronici capaci di vedere solo i colori primari e udito limitato, è un ottimo ragazzo, pieno di lealtà e fedeltà per il suo creatore e per tutti gli uomini. Accusato ingiustamente della morte dello scienziato che lo ha costruito, riesce a vincere i pregiudizi e la diffidenza degli umani; in una serie di racconti successivi, poi ricuciti in un romanzo, compare in tribunale, si fa riconoscere innocente, salva una serie di vite umane, si costruisce una compagna, combatte contro uno scienziato malvagio e poi addirittura contro una invasione di alieni, per ottenere alla fine ciò che il suo costruttore aveva desiderato per lui fin dallinizio, la cittadinanza degli Stati Uniti.

Il romanzo di Binder è tipico della prima fantascienza, con una scrittura standardizzata e senza sorprese, personaggi poco definiti, e una fiducia ingenua nel comportamentismo e nel materialismo più rozzi, ma è importante perché rappresenta il primo emergere di un atteggiamento diverso nei confronti della tecnologia e della macchina, un atteggiamento in cui ritornano lo slancio utopistico e la fiducia nella capacità delluomo di migliorare il proprio ambiente e la propria vita. Lesponente più famoso di questo atteggiamento, a cui è rimasto fedele dagli anni Quaranta fino a oggi, è Isaac Asimov, che scriveva il suo primo racconto sui robot lanno dopo lapparizione di Adam Link: nel 1940 compariva infatti Strange Playfellow (Uno strano compagno di giochi) ristampato da allora innumerevoli volte col suo titolo più famoso, Robbie. Asimov è indubbiamente lautore che più di ogni altro ha contribuito alla costruzione di un paradigma” robotico, di un insieme di convenzioni narrative e di presupposti tecnologico/fantastici sul mondo dei robot che a poco a poco hanno finito per essere accettati dalla grande maggioranza degli autori di fantascienza e si sono fissati, in qualche modo, nella fantasia popolare. Questo paradigma si riassume nelle ormai famose tre leggi della robotica”, che Asimov cominciò a introdurre nei suoi racconti del 1941-42, Reason (Ragione), Liar (Bugiardo) e Runaround (Girotondo, o Circolo vizioso). Vale la pena, per chi ancora non le conosca, di riportarle per intero: 1. Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini contrastino con la prima legge. 3. Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non contrasti con la prima e la seconda legge”. Queste leggi sono immesse nel cervello positronico” del robot (altra invenzione di Asimov, che perfezionava la rozza spugna alliridio di Binder) sotto forma di circuiti inibitori in delicatissimo equilibrio. Esse funzionano da motore del racconto perché consentono allautore di costruire una serie di situazioni in cui qualcuna delle leggi viene apparentemente violata, o lazione di una di esse contrasta con le altre costringendo il robot a una situazione di stallo, avviando così la macchina narrativa.

Dai costosi ma ben poco umani ammassi di ferraglia dei primi racconti, Asimov ci viene presentando i suoi robot come esseri sempre più complessi, tanto che gli enigmi che essi pongono postulano la nascita di una nuova scienza, la robopsicologia”, e la maggiore esperta mondiale di questa scienza, la dottoressa Susan Calvin, diviene ben presto la figura conduttrice di tutto il ciclo, fino ai racconti degli anni Sessanta. Ma lintenzione di Asimov nellintrodurre le tre leggi andava oltre linvenzione narrativa; nel suo fondamentale ottimismo tecnologico” egli tendeva a dimostrare che latteggiamento negativo nei confronti delle possibilità della scienza – quello sintetizzato nella storia di Frankenstein, ma risalente, a ben guardare, fino a Faust – non era una ineluttabile necessità. Con questo spirito creò i suoi nuovi esseri artificiali: mai e poi mai avrei permesso a uno dei miei robot di rivoltarsi stoltamente contro il suo creatore, senzaltro scopo che quello di illustrare, per unennesima, noiosissima volta, il delitto e il castigo di Faust”. Lottimismo tecnologico non impedisce ad Asimov di affrontare, attraverso i robot, tematiche di tipo sociale e addirittura filosofico.

I suoi cicli robotici sono stati letti come metafora fantascientifica del razzismo”, o come trasposizione fantastica del problema del controllo sulla forza lavoro, o ancora come modello della prossima, inevitabile simbiosi di uomo e macchina. Riprendendo, dopo lunghi anni dedicati soltanto alla divulgazione scientifica, lattività narrativa, Asimov ha portato più avanti il suo esame della contraddizione uomo/macchina. Nei racconti sui robot scritti verso la metà degli anni Settanta (Che tu te ne prenda cura e Luomo bicentenario) egli ipotizza un doppio movimento, dellintelligenza umana verso forme meccaniche e di quella artificiale verso una forma umana. Ne Luomo bicentenario compare in forma esplicita un tema che attraversa tutta la letteratura sulle macchine: quello dellimmortalità. Qui il robot Andrew Martin compie un lungo e faticoso percorso dalla sua condizione di essere meccanico a quella umana, ma la trasformazione definitiva consiste nella rinuncia alleternità dei circuiti del suo cervello positronico: solo la morte può consentire ad Andrew di essere riconosciuto come umano.

I robot di Asimov si sono trasformati passo passo, pur conservando il loro vecchio nome, in esseri ambigui: la linea di demarcazione fra essi e gli umani si è fatta più labile. Sono diventati più simili a quelli che altri autori di fantascienza, riesumando il termine settecentesco, chiamano androidi”. La narrativa di Asimov, insomma, pur rimanendo fedele a una linea neo-illuminista” di fiducia nelle possibilità conoscitive e regolatrici della scienza, sembra riconoscere il robot come enigma. Un enigma che, in fondo, riguarda più il posto e il futuro delluomo nel mondo che una semplice questione di rapporto con la macchina. Non erano questi, daltronde, gli stessi problemi che intendeva porre Čapek oltre sessantanni fa?

Di nuovo la figura del robot funziona come specchio per luomo, come rivelatore di problemi che prendono luce dal suo rapporto con la tecnologia e dal suo uso sociale, ma nascono da molto prima della società industriale, da un luogo interiore molto più profondo dei laboratori di ricerca e dei banchi di assemblaggio delle fabbriche contemporanee. Problemi che oggi riguardano lintelligenza artificiale e luso del computer, lingegneria genetica e le biotecnologie, insomma linvasione più generalizzata a cui il corpo delluomo sia stato sottoposto nel corso della sua storia, e la sfida più seria con cui si sia scontrata la sua mente.

Problemi che richiedono, complessivamente, uno sforzo di ridefinizione dellumano più coraggioso di quanto non sia in grado di fornirci lanimus in fondo facilmente conciliatore del dottor Asimov. In questi territori, a cui sarà dedicata la prossima e (per ora) conclusiva puntata nel nostro viaggio in cerca delluomo artificiale, troveremo però come guida un altro grande scrittore di fantascienza, lesploratore della realtà sintetica della nostra epoca, Philip K. Dick.

Compagno replicante

La Nexus-6 possedeva due miliardi di componenti, più una scelta tra dieci milioni di differenti attività cerebrali. In un quarantacinquesimo di secondo, un androide fornito di questo cervello poteva assumere una qualsiasi delle quattordici reazioni basilari. Dunque, nessun test dintelligenza avrebbe preso in trappola un simile androide. Ma erano molti anni, in verità, che i test dintelligenza non prendevano in trappola nessun androide, dopo le prime, rozze varietà di molti anni prima. Gli androidi del tipo Nexus-6, pensò Rick, superavano in termini di intelligenza molte classi di autentici umani speciali. In altre parole, gli androidi forniti di una unità cerebrale Nexus-6, secondo un punto di vista sia pure semplicistico, pragmatico, si erano evoluti oltre una rilevante, anche se inferiore, porzione di umanità. Ma nuove misurazioni, nuovi risultati, come ad esempio la Scala dellEmpatia Voight/Kampff, erano stati offerti come criteri di valutazione. Si era spesso chiesto, e con lui se lo chiedeva molta altra gente, come mai un androide si trovasse senza difese davanti a un test per la misurazione dellempatia. Evidentemente, lempatia poteva esistere soltanto allinterno della comunità umana, mentre si poteva individuare lintelligenza, almeno fino a un certo livello, in ogni ordine e phylum fra gli animali. La facoltà dellempatia richiedeva probabilmente un istinto di gruppo. Lempatia, aveva concluso una volta, doveva essere limitata agli erbivori, o comunque agli onnivori, in grado di staccarsi da una dieta a base di carne. Perché, in ultima analisi, la facoltà dellempatia confonde i confini tra cacciatore e vittima, tra il vincitore e lo sconfitto. Evidentemente, il robot umanoide era un predatore solitario.

Anche Philip K. Dick, come Asimov, è assillato dalla ricerca di un criterio di demarcazione fra lumano e la sua imitazione artificiale. Come in Asimov, anche in Dick questo criterio si dimostra sempre più sfuggente, ai limiti dellevanescenza. Come ricorderà non solo chi ha letto il romanzo Il cacciatore di androidi, ma anche chi ha visto il film Blade Runner, il test con la scala Voight/Kampff fallisce, nel caso di Rachel Rosen: gli androidi si possono distinguere dagli umani con la volontà, non con la ragione, in un gesto tragico, e in qualche modo arbitrario, come luccisione.

Gli androidi (replicanti” li ha ribattezzati Scott con una invenzione linguistica che ha subito avuto successo) rappresentano per Dick la metafora di tutto quello che minaccia il lato autenticamente umano delluomo. Questo è già evidente nella sua prima produzione. In Impostor, un racconto scritto nel 1953, Spence Olham viene sospettato di essere un robot-spia al servizio di invasori provenienti da Alpha Centauri in lotta con la Terra. Ma Olham sa di non essere un robot, cerca in tutti i modi di dimostrarlo, trova unastronave schiantata nella foresta con i resti carbonizzati di qualcuno. È il robot, pensa. Invece è il cadavere di Olham, e lui è solo un robot umanoide perfezionatissimo, somigliante in tutto e per tutto a Olham, nel fisico, nei pensieri e persino nellautocoscienza. Quando questa terribile idea si fa finalmente strada nel suo cervello, questo basta per innescare una potentissima bomba che egli portava, senza saperlo, nel suo corpo, e la Terra è distrutta. Ma tutta lopera di Dick è impostata su una antropologia, una sociologia, addirittura una ontologia che rende problematico il posto delluomo nel mondo.

Lintero universo dei (suoi) romanzi si forma attraverso un processo completo di rovesciamento delle credenze etiche, biologiche e scientifiche su cui lindividuo basa i propri comportamenti e la stessa percezione della realtà. Il mondo è “upside down”, non più solo – come diceva Amleto – “out of joint” – scardinato, divelto. Entriamo in un sistema narrativo in cui ogni riferimento alla realtà riconoscibile empiricamente per il lettore è capovolto, invertito: non è più possibile distinguere tra creature in carne e ossa e creature artificiali, tanto è vero che ci si può accoppiare con una donna androide e uccidere, con le tecniche più moderne (ma adatte a esseri artificiali) un animale vero” (Do Androids dream of Electric Sheep?), i morti ritornano in vita rovesciando lintero ciclo biologico anche nei suoi dettagli quotidiani e nelle funzioni corporali (Counter-Clock World), i morti dirigono i vivi e suggeriscono loro modelli differenziati di realtà fittizia in cui vivere (Ubik). Ciò che collega tra loro i (suoi) romanzi dei tardi anni 60 è linsistenza sulla diretta rappresentazione di una Terra desolata, sconvolta da eventi apocalittici che non hanno solo una loro posticcia valenza storica (la terza o quarta guerra nucleare…), ma che sprofondano le loro radici negli stessi cicli biologici e nella impossibilità delluomo di definire la propria condizione.

Se per Asimov, dunque, la presenza della macchina intelligente” segnala un nuovo partner delluomo che è in primo luogo necessario accettare per creare una civiltà equilibrata, per Dick luomo ha invece bisogno prima di tutto di fare i conti con se stesso, con il proprio immaginario, con la propria capacità di percepire il reale al di fuori di consolanti schemi. Lo stress a cui sono sottoposti i personaggi dickiani in questo incessante fluire di più realtà, in questo incubo del mondo continuamente mutevole, è significativamente connesso con le figure del doppio artificiale. Il culmine di questo processo si ha forse in un romanzo del 1984, The Three Stigmata of Palmer Eldritch. Il protagonista umano, Barney Mayerson, è impegnato in una lotta veramente impari con l’“arcano pellegrino” (Palmer Eldritch), un personaggio tornato dalla profondità degli spazi con una potentissima droga, capace di indurre non solo passeggeri stati di allucinazione, ma di creare vere e proprie realtà alternative in cui lindividuo finisce per perdersi come in un gioco di specchi. Le tre stimmate” di questo misterioso essere sono gli occhi, i denti, un braccio, tutti e tre artificiali, che segnalano in qualche modo la capacità di Palmer Eldritch di padroneggiare, creare a suo piacere la realtà. Sono segni di artificialità diabolica. Gli occhi, le mani, i denti artificiali gli consentono – come in una variante del lupo di Cappuccetto Rosso – di vedere meglio (capire), afferrare meglio (manipolare) e fare a pezzi meglio (ingerire, consumare) le sue vittime”. Con questa straordinaria figura di cyborg, commistione di naturale e artificiale, di corpo e metallo, Dick ha creato una potentissima metafora della capacità delluomo di dominare la natura, di costruire un suo sogno di immortalità, e insieme dei prezzi che ha dovuto pagare per tutto questo. Per Barney Leo Bulero e più tardi Palmer Eldritch sono figure paterne, lepitome, anzi, di una paternità semi-divina, contro cui qualsiasi tentativo di ribellione è destinato al fallimento. Daltra parte entrambi i padri sono le emanazioni di un progresso tecnologico che li ha trasformati in creature mostruose, cyborg, volti sfigurati che incombono su una prole inerme e terrorizzata. Siamo di fronte alla condizione entropica delluniverso dickiano e del suo messaggio, che è ormai ridotto a una sola ossessiva informazione: luniverso è Palmer Eldritch, Palmer Eldritch è luniverso. Le tre stimmate di Palmer Eldritch si riferiscono dunque ai devastanti effetti che la tecnologia del capitalismo ha prodotto sullumanità, allesplorazione che luomo compie sulle tracce di un Dio-padre a metà strada tra il ricordo infantile e la manipolazione elettronica, alla rappresentazione fantastica di un percorso di regressione psichica”.

Nellultima fase della sua vita Dick (che è morto nel 1982) aveva accentuato gli aspetti di religiosità, la considerazione del sacro che già avevano sfiorato le sue opere negli anni 60; e in questo modo egli sembrava ammorbidire, o almeno leggere sotto unaltra luce, gli incubi dei suoi romanzi. In un saggio del 1976, Man, Android and Machine, scriveva:

Noi umani dal viso caldo, e morbidi, con occhi pensierosi, noi siamo forse le vere macchine. E quegli aggeggi oggettivi, gli oggetti naturali intorno a noi e specialmente i congegni elettronici che costruiamo, i trasmettitori, le stazioni ripetitrici a microonde, i satelliti, essi possono mascherare autentiche realtà viventi, visto che è possibile che partecipino più pienamente e in modo a noi oscuro alla Mente Ultima. Forse noi abbiamo una visione non solo deformata, come attraverso un velo, ma addirittura rovesciata della realtà. Forse ci avvicineremmo al massimo della verità se dicessimo: Ogni cosa è egualmente viva, libera e senziente, perché ogni cosa non è viva, o viva a metà o morta, ma piuttosto attraversata dalla vita”.

Ogni cosa è attraversata dalla vita”. È curioso leggere una frase di questo genere nelle pagine di un uomo che più di ogni altro forse, negli ultimi trentanni, aveva contribuito a tracciare una mappa degli inferni tecnologici nei quali si aggira luomo di questa fine di millennio. Ma forse la ricognizione di quegli inferni è il percorso iniziatico che tutti dobbiamo compiere per arrivare a una comprensione migliore del mondo che abbiamo creato e dei compagni di cui ci siamo circondati. Il doppio artificiale che ossessiona la civiltà moderna fin dal suo nascere sta uscendo dalle pagine dei libri e si appresta ad abitare davvero il nostro mondo. Gli studi sullintelligenza artificiale ci hanno già dato macchine in grado di battere a scacchi la maggior parte dei giocatori, di formulare diagnosi mediche più precise e circostanziate, di corredare sentenze e pronunciamenti giudiziari di riferimenti più ricchi e vasti.

Lartificiale sta invadendo il nostro corpo con pacemaker, vene artificiali, tra breve interi organi. Più ancora, la modificazione delluomo può non passare più attraverso aggiunte artificiali al nostro corpo o estensioni della nostra memoria e di alcune nostre capacità “intelligenti” al di fuori di noi: può riguardare direttamente il nostro materiale genetico, il sistema informativo che presiede alla programmazione del nostro aspetto fisico e delle nostre caratteristiche mentali. Gli studi sul DNA, lo leggiamo ormai sui quotidiani, vanno in questa direzione. Potremo un giorno cambiare il colore della nostra pelle, forse anche la nostra statura e la nostra taglia, alcune nostre caratteristiche intellettuali. Il vero uomo artificiale”, quel giorno, saremo noi. E sicuramente avremo al nostro fianco esseri creati da noi in grado di condividere molte più cose della nostra vita di quanto qualsiasi nostra creazione sia stata finora in grado di fare. È evidente che problemi del tutto nuovi ci si apriranno davanti.

Che cosa accadrà quando lintelligenza delle macchine continuerà a crescere? Saremo costretti a chiederci come si debbano trattare le menti da noi costruite secondo quel modello. Sarebbe sbagliato non costruire tutte le macchine intelligenti che possiamo? Sarebbe criminale spegnerle quando non le usiamo, o cancellarne la mente ogni volta che ci stanchiamo di loro? I robot dovrebbero avere lo stesso tipo di diritti che molte persone chiedono oggi per gli animali? Sarebbe giusto trattare le macchine in modo crudele e insensibile solo perché siamo stati noi a dar loro la vita? Nel corso dei secoli abbiamo dovuto decidere solo fin dove dovesse spingersi la lealtà di ogni persona, al di là dellambito della famiglia, verso altri esseri umani: verso amici o verso stranieri provenienti da altri paesi. Oggi molte persone considerano lintero genere umano ununica grande comunità. Ma che dire di quel giorno lontano in cui gran parte di ciò che noi apprezziamo e rispettiamo sarà condiviso anche dalle macchine da noi costruite? Allora, una volta che avremo cominciato a costruire noi stessi, dovremo realmente metterci di fronte a noi stessi in un modo del tutto nuovo.

Quel giorno ci ricorderemo dei personaggi immaginari che hanno accompagnato le speranze e le paure dei nostri primi, incerti passi in questo Mondo Nuovo?


Antonio Caronia ha insegnato Sociologia dei processi culturali e Comunicazione multimediale all’Accademia di Belle Arti di Brera, Estetica dei nuovi media alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti). Ha scritto fra l’altro: Il corpo virtuale (1996), Houdini e Faust. Breve storia del cyberpunk (con D. Gallo, 1997), Philip K. Dick. La macchina della paranoia (con D. Gallo, 2006), Universi quasi paralleli (2009). Per i tipi di Mimesis ha curato Un’ambigua utopia: fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, vol. I e II (con G. Spagnul, 2009) e Filosofie di Avatar (con A. Tursi, 2010)

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