Per il filosofo spagnolo, il maschilismo eterosessuale “da interno” promosso da Playboy attacca le divisioni spaziali che governavano la vita sociale negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Playboy difende l’occupazione maschile dello spazio domestico, da sempre uno spazio femminile, per annunciare la creazione di un nuovo spazio, maschile e opposto all’habitat della famiglia nucleare americana: l’attico da scapolo.
IN COPERTINA e nel testo: illustrazioni di Keith HAring per Playboy
(Questo testo è tratto da “Pornotopia”, di Paul B Preciado. Ringraziamo Fandango per la gentile concessione)
di Paul B Preciado
Senza dubbio l’immagine più conosciuta di Hugh Hefner non è la fotografia nella quale posa vicino al modellino del Playboy Club di Los Angeles ma quella, ripetuta in mille varianti, in cui appare in pigiama, vestaglia e pantofole, in un luogo che non va mai oltre la soglia della Playboy Mansion, circondato da un gruppo di conigliette. È difficile rappresentare Hefner in altro modo, se è vero che, come affermano i suoi biografi, ha vissuto più di quarant’anni senza uscire di casa, salvo in occasioni eccezionali e unicamente a bordo del suo jet privato Big Bunny – un DC 9 fornito di pista da ballo, letto ellittico e terme romane – per trasferirsi dalla sua residenza di Chicago a quella di Hollywood. È possibile che Hugh Hefner sia il primo personaggio pubblico maschile del ventesimo secolo che sia stato rappresentato fondamentalmente come un “uomo da interno”: il suo sarebbe stato il primo corpo maschile a entrare nella storia portando come unico vestito un impeccabile pigiama di seta e una vestaglia corta di velluto.
Nel libro Inside the Playboy Mansion, la giornalista Gretchen Edgren, per incarico di Playboy Enterprises, ricostruisce la biografia di Hefner e la storia della rivista attraverso più di mille fotografie dell’interno delle diverse case e abitazioni Playboy: la Playboy Mansion, costruita nel 1959 in un antico edificio istituzionale di Chicago, e la Playboy Mansion West, a Los Angeles, che sarà la residenza ufficiale di Hugh Hefner a partire dal 1972.
Edgren ci dà la possibilità di accedere a quello che si presenta come un archivio privato e domestico della vita di Hefner: vediamo gli invitati a casa sua, i giochi notturni, le proiezioni cinematografiche casalinghe; vediamo Hefner che sceglie le foto della rivista utilizzando il suo letto girevole come una enorme piattaforma visuale; lo vediamo mentre il suo parrucchiere personale gli taglia i capelli, mentre dà da mangiare alle scimmie in gabbia, mentre gioca a ping-pong, mentre mette in ordine nel suo armadio i pigiami di tutti i colori, ma vediamo anche le telecamere che riprendono il primo programma in uno scenario identico a quello della Mansion, nel 1959, o che filmano le feste notturne della casa. In pratica non vediamo nemmeno un’immagine dell’esterno della proprietà, non superiamo mai la porta della Mansion di Chicago né andiamo mai più in là del giardino della Mansion West di Los Angeles. Paradossalmente, persino le immagini dell’aereo o dello yacht Playboy ne rappresentano, ancora una volta, gli interni. Edgren traccia una narrazione architettonico-epica di Playboy nella quale la comparsa della rivista appare come un momento concreto in un progetto molto più ampio di configurazione di un nuovo spazio interno che si materializzerà poi nella Mansion. Gretchen Edgren suggerisce che Playboy, attraverso diversi mezzi audiovisivi, avrebbe perseguito un obiettivo fondamentalmente politico e architettonico (solo secondariamente mediatico e in nessun caso pornografico): scatenare un movimento per la liberazione sessuale maschile, dotare l’uomo americano di una coscienza politica del diritto maschile a uno spazio domestico e, in ultima istanza, costruire uno spazio autonomo non retto dalle leggi sessuali e morali del matrimonio eterosessuale.
E tutto ciò, rivendica Hefner, molto prima del nascere del femminismo e dei movimenti di liberazione sessuale. A fronte dell’“impero del focolare familiare eterosessuale” degli anni Cinquanta, topos centrale del sogno americano, Playboy avrebbe lottato per la costruzione di una utopia parallela: “l’impero dello scapolo in città”. La pagina Salon.com dedicata alla storia di Playboy racconta in questo modo la rivoluzione maschilista iniziata dalla rivista:
Playboy mise gli uomini in casa. Convinse i ragazzi che era fantastico restare a divertirsi in casa. Mentre le altre riviste maschili – Argosy, Field & Stream, True – mostravano che gli uomini dovevano dedicarsi a cacciare anatre o pescare trote, quella di Hef lasciava gli uomini in casa a preparare cocktail, seduti accanto al camino a giocare a backgammon o a baciare la fidanzata. Con quella che anni dopo si è potuta vedere come un’ironica complicità con femministe come Betty Friedan, Playboy attaccava le istituzioni stabilite del matrimonio e la vita casalinga e familiare nei sobborghi. Improvvisamente l’essere scapolo era diventata un’opzione possibile, abbellita, per di più, da bevute intelligenti, apparecchi ad alta fedeltà e appartamenti urbani, capaci di superare i sogni della classe media americana. Gli uomini scoprivano che era possibile essere sofisticati e l’universo di Playboy li invitava a dar valore a “il meglio del meglio”: la letteratura, una buona pipa, un golf di cachemire, una bella donna. Gli Stati Uniti assistevano al nascere dello scapolo urbano che, finalmente, poteva evitare il sospetto di essere omosessuale, anche se non si adattava alle norme familiari, grazie alla sua dose mensile di foto di donne nude.
Tra il 1953 e il 1963, Playboy mette in circolazione un discorso combattivo destinato a costruire una nuova identità maschile, quella del giovane scapolo urbano e casalingo. Il nuovo maschio urbano, scapolo (o divorziato) ma eterosessuale e il suo appartamento saranno le figure centrali di questa contronarrazione del sogno americano proposta da Playboy. Già nel dicembre del 1953, l’editoriale del secondo numero di Playboy definisce la pubblicazione come una “rivista da interno”, avvicinandola in modo insolito tanto alle riviste femminili quanto alle riviste di architettura e arredamento, in opposizione alle riviste maschili tradizionali: “Attualmente, la maggior parte delle ‘riviste per uomini’ sono ambientate all’aria aperta, tra cespugli e rovi o in mezzo alle acque selvagge delle rapide. Anche noi visiteremo questi luoghi, di quando in quando, ma fin da ora annunciamo che passeremo la maggior parte del tempo fra quattro pareti. A noi piace stare in casa”.
-->Il maschilismo eterosessuale da interno promosso da Playboy attacca le divisioni spaziali che governavano la vita sociale negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Quando Playboy difende l’occupazione maschile dello spazio domestico non pretende di spingere lo scapolo a una reclusione forzata nella casa suburbana, fino ad allora spazio tradizionalmente femminile, bensì annuncia la creazione di un nuovo spazio radicalmente opposto all’habitat della famiglia nucleare americana.
La teoria delle “due sfere”, che aveva dominato lo spazio sociale borghese del diciannovesimo secolo, era basata su una rigida divisione di genere: definiva lo spazio pubblico, esterno e politico come campo di battaglia proprio della mascolinità, facendo dello spazio domestico, interno e privato un luogo per natura femminile. In realtà, l’economia industriale aveva eroso la funzione produttiva dello spazio domestico che, una volta privato di potere, si era visto caratterizzare come femminile. Tuttavia le nozioni stesse di “esterno” e “interno”, così come le categorie di “mascolinità” e “femminilità”, si erano complicate durante la Seconda guerra mondiale. Da una parte, la guerra aveva comportato un riordino degli spazi di genere: la cellula familiare si era vista disarticolata per l’arruolamento in massa degli uomini nell’esercito e le donne si erano integrate con maggior forza nella vita pubblica e nel lavoro produttivo, fuori dallo spazio domestico. Inoltre, l’esercito americano e le sue violente misure di stigmatizzazione dell’omosessualità diedero luogo a una campagna senza precedenti di visibilità e ripoliticizzazione della dissidenza sessuale negli Stati Uniti. Tra il 1941 e il 1945, più di 9000 uomini e donne furono diagnosticati come “omosessuali” e sottoposti a cure psichiatriche o considerati non adatti al servizio militare. Come ha mostrato lo storico Allan Bérubé, il primo movimento americano di difesa dei diritti degli omosessuali negli Stati Uniti, precedente alla lotta per i diritti civili, nascerà proprio dai dibattiti interni ai servizi psichiatrici dell’esercito, in difesa di un trattamento egualitario dei soldati, indipendentemente dal loro orientamento sessuale.
Intanto, l’invenzione di nuove tecniche di modificazione ormonale e chirurgica della morfologia sessuale avevano dato luogo all’elaborazione della nozione di “genere”, nel 1947, e all’apparizione di rigidi protocolli di trattamento dei cosiddetti “neonati intersessuati”, all’invenzione della prima pillola anticoncezionale e alla messa in pratica delle prime operazioni di riassegnazione del sesso. Nel 1953 il soldato americano George W. Jorgensen si trasforma in Christine Jorgensen, diventando la prima donna transessuale il cui cambio di sesso sarà oggetto di interesse mediatico. Il capitalismo di guerra e di produzione stava evolvendo verso un modello di consumo e di informazione del quale il corpo, il sesso e il piacere facevano parte. A partire dal 1953 Alfred Kinsey pubblica i suoi studi sulla sessualità maschile e femminile, mettendo allo scoperto la breccia aperta tra la morale vittoriana e le pratiche sessuali degli americani. Il sesso e la privatezza domestica che un giorno erano stati solidi, per dirlo con Marx, cominciavano ora a svanire nell’aria.
In questo contesto di ridefinizione dei tradizionali confini di genere, così come dei limiti tra il privato e il pubblico, il ritorno a casa dei soldati americani, con la promessa anche di sfuggire ai pericoli bellici e nucleari dell’esterno, non era stato un semplice processo di ri-do-mesticazione, ma piuttosto uno spostamento senza ritorno. Il soldato eterosessuale, postraumaticamente disadattato alla vita monogama dell’unità familiare, torna a casa per diventare non l’elemento complementare della donna eterosessuale bensì il suo principale rivale. Ciò che era domestico si è trasformato in estraneo. Ora è l’eterosessualità quella che è in guerra.
Forse fu questa crisi delle istituzioni tradizionali che avevano regolato le differenze di genere e di sessualità quella che portò, durante la Guerra fredda, a una accanita persecuzione degli omosessuali come “nemici della nazione”. La campagna Fight for America, diretta dal senatore Joseph McCarthy, fu un’operazione di denuncia e castigo di comunisti, gay e lesbiche che occupavano posizioni istituzionali. La Guerra fredda aveva spostato il confronto dallo spazio geografico dello Stato-nazione all’elusiva superficie dei corpi. Con una svolta paranoica, lo Stato indirizzava i propri strumenti di spionaggio, sorveglianza e tortura contro i suoi stessi cittadini, prendendo il corpo, il genere e la sessualità come espressione letterale di fedeltà nazionale. L’omosessualità, definita usando le analogie della contaminazione (“un’epidemia che infetta la nazione”) e della penetrazione (“un missile nucleare tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica”) appare come una minaccia nei confronti dell’integrità del “corpo sociale” americano. Pensato come alleato sessuale dell’ebreo e del comunista, l’omosessuale è uno straniero, occupa uno spazio di intersezione fra tutti gli al di fuori (geopolitici e sessuali) che definiscono l’identità americana del dopoguerra. La lotta contro l’omosessualità si accompagnò a una recrudescenza di quelli che potremmo chiamare con Judith Butler i modelli performativi del genere e della razza. La perfetta donna di casa e il padre lavoratore sono rappresentati come modelli di genere complementari dai quali dipende la stabilità della famiglia bianca eterosessuale.
Il regime spaziale della casa suburbana, che si impone negli Stati Uniti durante la Guerra fredda, non è solo una conseguenza della minaccia di un eventuale attacco nucleare alle grandi metropoli americane che spingerebbe al decentramento e alla costruzione di quartieri residenziali familiari lontani dai nodi urbani. Il regime spaziale della casa suburbana è anche una traduzione architettonica delle premesse di ridefinizione della mascolinità, della femminilità e dell’eterosessualità che avevano strutturato la purificazione sessuale, razziale e ideologica della società americana iniziata da McCarthy. Come spiega l’urbanista e storico Mario Gandelsonas, “la città suburbana si fece realtà solo dopo la Seconda guerra mondiale grazie alla convergenza di due fattori, uno sociale e l’altro fisico. Il primo si concretizzò quando la priorità nazionale passò a essere quella di impiegare i veterani di guerra e ritirare le donne dai posti di lavoro remunerati. L’impulso definitivo lo diede però la costruzione del sistema di autostrade interstatali, che giocherà un ruolo cruciale nei cambiamenti radicali che determineranno la forma e la velocità dello sviluppo delle comunità suburbane e dei centri urbani”. Per Gandel-sonas erano le opposizioni sociali e politiche quelle che strutturavano la città: “Questa nuova forma urbana si definiva grazie alla relazione fra termini opposti: le aree suburbane (termine positivo) contrapposte al downtown o centro della città (termine negativo); le aree residenziali contrapposte al luogo di lavoro; ma anche grazie a divisioni in termini di classe e razza, la classe media bianca contrapposta alla classe bassa nera”.
La polarità casa suburbana-centro urbano produceva una segregazione di genere e razza molto più violenta di quella che aveva dominato lo spazio metropolitano del diciannovesimo secolo. Mentre gli uomini guidavano le loro automobili sulle nuove autostrade verso i luoghi di lavoro, le donne e i bambini restavano reclusi nelle enclave suburbane. All’interno della casa unifamiliare la donna si sarebbe trasformata in una lavoratrice a tempo pieno non salariata, al servizio del consumo e della (ri)produzione familiare. D’altra parte, i complessi suburbani disseminati di giardini erano zone segregate dal punto di vista razziale, dato che la proprietà privata di una casa unifamiliare era un privilegio al quale solo le famiglie bianche della classe media potevano accedere: la ritirata dei bianchi dal downtown si accompagnò a una nuova politica di sorveglianza poliziesca e di riduzione degli spazi pubblici urbani.
Gli anni del dopoguerra si potrebbero caratterizzare come l’epoca dell’estensione e consolidamento di un insieme di norme di genere e sessuali che costituiranno quello che più tardi Adrienne Rich chiamerà “imperativo eterosessuale”. Come la casa unifamiliare e l’automobile, la mascolinità e la femminilità del dopoguerra sono assemblaggi standardizzati che rispondono a uno stesso processo di industrializzazione. La casa suburbana è una fabbrica decentrata per la produzione di nuovi modelli performativi di genere, razza e sessualità. La famiglia bianca eterosessuale non è solo una potente unità economica di produzione e consumo ma è anche, e soprattutto, la matrice dell’immaginario nazionalista americano. In questo contesto, la lotta di Playboy per far uscire il maschio dalla cellula riproduttiva suburbana dovrà anche mettere in moto una difesa a oltranza dell’eterosessualità e del consumo per fugare il sospetto dei “vizi antiamericani” dell’omosessualità e del comunismo.
“A room of his own.” Una stanza tutta per… lui.
Contro la segregazione nelle sfere sessuali che spingeva l’uomo a lasciare la casa suburbana in mani femminili, Playboy difende l’occupazione, il recupero o perfino la colonizzazione maschile dello spazio domestico e del downtown. Contro il ritorno alla casa unifamiliare nei sobborghi, Playboy scommette sulla costruzione di una utopia parallela, un “rifugio in città per lo scapolo”: l’attico urbano. Questo spostamento del maschio verso lo spazio domestico fu presentato da Playboy come una forma di compensazione attiva, un meccanismo regolatore nei confronti dell’eccesso di virilità da cowboy che minacciava di portare l’uomo tradizionale statunitense a ignorare le cose di casa sua.
È possibile leggere gli editoriali dei primi numeri di Playboy come un autentico manifesto per la liberazione maschile dall’ideologia domestica. Tuttavia questa liberazione non consisterà, come nel caso del femminismo, nell’abbandono della domesticità bensì piuttosto, e in maniera paradossale, nella costruzione di uno spazio domestico specificamente maschile.
Essendo parte di questa agenda di colonizzazione maschile dello spazio domestico, ogni numero di Playboy, a partire dal 1953, includerà un servizio sulla conquista e la riappropriazione di uno spazio interno o pseudo-domestico per lo scapolo urbano: l’affascinante casa vacanze per i fine settimana, lo yacht, lo studio, il letto, l’ufficio o l’auto si convertono in momenti di un programma di riconquista. Si tratta di surrogati di casa, interni sostitutivi nei quali produrre un nuovo tipo di soggettività maschile basata su forme di relazione e di socialità alternative al modello tradizionale americano. Il climax di questo programma di ricolonizzazione dell’interno si avrà con il reportage sull’“appartamento penthouse del playboy” pubblicato a settembre e ottobre del 1956.
Gli acquerelli colorati dell’attico urbano per scapolo si ispirano all’appartamento da neo divorziato di Victor A. Lownes, uno dei soci di Hefner, il quale aveva abbandonato la vita familiare per fuggire da quello che definiva, anticipando il linguaggio del femminismo che Betty Friedan userà per descrivere la situazione delle donne nella casa suburbana, come “la prigione del matrimonio e del prato verde delle aree suburbane”. Hefner spiega l’abbandono della casa familiare da parte di Victor A. Lownes come un processo di liberazione sessuale maschile, il quale acquisterà poi la forma di una pandemia che potremmo identificare con lo slogan “uscì a comprare le sigarette e non tornò”.
Possedeva tutto quello che un uomo può desiderare: una moglie bella e affettuosa, due figli magnifici, una casa splendida e un buon lavoro. L’unico problema era che si annoiava a morte. Odiava il circolo del tennis, l’interminabile teoria di cocktail e barbecue, le banalità e la compiaciuta rispettabilità della vita da sogno della classe media americana. Confessava, desolato, che l’unica cosa che riusciva a stimolarlo era la prospettiva di avere incontri sessuali extraconiugali. Un giorno, nel 1953, semplicemente uscì dalla porta e non tornò più.
Lownes si stabilì poi in città, in un appartamento di un’unica stanza nel quale la camera da letto, in un angolo della casa, era un semplice spazio separato da una tenda. Playboy definiva con una sola frase lo spazio che si delineava già con i caratteri della futura pornotopia: “Era come avere una sala da ballo in casa propria”.
La nuova identità maschile del neo divorziato incarnata da Lownes non si distingueva per tratti psicologici particolari bensì per il suo habitat: lo studio urbano in cui il playboy-en-divenir doveva rinchiudersi per trovare la libertà. Tuttavia, questo rinchiudersi fra oggetti di design è un processo paradossale nel quale il neo divorziato si gioca la sua autonomia e la sua mascolinità. Da un lato, solo nella prigionia del suo appartamento il playboy arriva a sentirsi libero. Dall’altro, solo attraverso un esercizio di riappropriazione dello spazio domestico e di arredamento degli interni, pratiche tradizionalmente associate alla femminilità, il neo divorziato si può trasformare in playboy. In questo senso il playboy si colloca sulla soglia della femminilità, mascolinizzando pratiche (consumo e domesticità) fino ad allora sottovalutate nell’economia della produzione che caratterizza il maschio. Di qui l’importanza del collegamento visuale e discorsivo tra l’interno domestico e le ragazze nude: l’erotismo eterosessuale garantiva che Playboy non fosse semplicemente una rivista femminile o omosessuale.
Il movimento del playboy verso la casa e il relativo abbandono dell’esterno non implica, tuttavia, un ritirarsi dalla sfera pubblica, ma coincide piuttosto con un processo di politicizzazione e commercializzazione della vita privata che si verifica durante il dopoguerra. Lo spostamento strategico di Playboy verso l’interno si potrebbe vedere come parte di un processo più ampio di estensione dell’ambito del mercato, dell’informazione e del politico all’interno domestico. L’attico da scapolo, pieno di “cose in astucci di cuoio: binocoli, stereo, macchine fotografiche reflex, radio portatili e pistole”, non è solo un rifugio isolato dal mondo esterno, progettato per il divertimento sessuale. Si tratta, in realtà, di una postazione di monitoraggio, un centro di gestione dell’informazione nel quale si trattano e si producono finzioni mediatiche del pubblico. Il piacere, lo vedremo, non sarà se non uno degli effetti collaterali del traffico continuo di informazioni e immagini.
D’altra parte, contro il timore di contaminazione omosessuale, Playboy lotta per definire il suo movimento verso l’interno come un processo di maschilizzazione della sfera domestica invece che come una semplice femminilizzazione dello scapolo urbano. Playboy intende la riorganizzazione dei codici di genere e della sessualità come una battaglia semiotica ed estetica che si combatte attraverso l’informazione, l’architettura e gli oggetti di consumo. La mascolinità del playboy si costruisce mediante un attento esercizio di teatralizzazione nel quale le tecniche di messa in scena e gli elementi dell’arredamento sono tanto importanti quanto la psicologia. Playboy rifiuta la visione naturalista della mascolinità e sostiene una mascolinità costruita, effetto di un insieme di tecnologie dell’immagine e dell’informazione. Di tutti gli immaginari che accompagnano l’abitante dell’attico urbano quello che meglio corrisponde all’identità artificiale del playboy è la spia. L’attico è il centro operativo che permette lo spostamento dal soldato/marito alla spia/amante. Mentre il soldato, coraggioso e battagliero, fisico e primitivo, era la figura maschile centrale degli anni della Seconda guerra mondiale, la spia (incarnata nella figura letteraria e cinematografica di James Bond), artificiale, impenetrabile, doppia, seduttrice, camaleontica e sofisticata, appare come la nuova figura politica degli anni della Guerra fredda.
L’attico da scapolo è un osservatorio sicuro e mimetizzato nel quale il playboy si mette al riparo dall’esterno atomico del dopoguerra, arricchendo il proprio corpo vulnerabile di un insieme di mercanzie e di tecniche di comunicazione che funzionano come autentiche protesi rivestite di pelle (“in astucci di cuoio”) e che lo collegano continuamente al flusso vitale dell’informazione. Nel guscio di conchiglia del suo studio privato, più o meno al sicuro dalle minacce della guerra, benché ancora equipaggiato con le armi dell’ultima battaglia, il nuovo playboy si può finalmente dedicare ai piaceri elementari (anche se fino ad allora quasi irraggiungibili) del sesso e del consumo. L’abitante dell’attico Playboy è una versione erotizzata e commerciale dell’uomo iperconnesso di McLuhan.
Oltre a proporre un rifugio per l’esausto neo divorziato, il servizio sull’attico urbano rivolta come un guanto la famosa richiesta di Virginia Woolf di “a room for her own”, nella quale l’indipendenza della donna si associa all’autonomia abitativa, ed esige per gli uomini il recupero dello spazio domestico, un’enclave che, secondo Playboy, è stata storicamente dominata dalle donne. Con la pedagogica assistenza della rivista Playboy, il nuovo scapolo imparerà a riconquistare lo spazio che gli è stato “espropriato dalle donne” per mezzo di una ideologia morale che pretendeva di stabilire un’equazione naturale tra femminilità, matrimonio e famiglia. L’editoriale di Playboy spiega:
L’uomo chiede gridando una casa per sé. Non sogna un angolo in cui appendere il cappello bensì un suo proprio spazio, un luogo che sa che gli appartiene… Playboy ha disegnato, progettato e arredato, dai pavimenti al tetto, l’attico ideale per lo scapolo urbano, quell’uomo che sa vivere bene, è un sofisticato conoscitore del meglio, tanto nell’arte quanto nel cibo e nelle bevande, e sa circondarsi di affabili compagni dei due sessi.
L’articolo dedicato alla camera da letto e alla stanza da bagno, nell’edizione della rivista dell’ottobre del 1956, aggiunge: “La casa di un uomo è il suo castello, o dovrebbe esserlo, l’espressione esterna del suo essere interiore – un’espressione confortevole, viva ed eccitante del tipo di persona che è, e della vita che conduce. Ma la schiacciante maggioranza delle case è arredata dalle donne. Dove sono lo scapolo e la sua necessità di avere un luogo che considera proprio?”. Mettendo in discussione la relazione politica storicamente stabilita tra spazio domestico e femminilità, Playboy inizia un processo di denaturalizzazione della domesticità parallelo, anche se in un certo senso opposto, a quello che il femminismo mette in moto negli stessi anni. Scambiando le opposizioni di genere della società americana del dopoguerra, questo ritorno all’ambito del focolare si tradurrà in un apparente rifiuto dello spazio pubblico, territorio tradizionalmente riservato agli uomini: “Non pretendiamo di risolvere i problemi del mondo”, dichiarava il primo editoriale di Playboy, “né di propugnare grandi verità morali. Se saremo capaci di procurare all’uomo americano qualche risata extra e distrarlo dall’ansia dell’era atomica, vedremo la nostra esistenza più che giustificata.”
La spinta di Playboy verso lo spazio interno può essere letta come un tentativo di risignificare un territorio tradizionalmente inteso come “femminile” e “privato”, proprio in un momento in cui le donne hanno guadagnato l’accesso allo spazio pubblico e professionale. Playboy manifesta una sorta di maschilismo che si oppone, allo stesso tempo, sia ai valori dominanti della famiglia eterosessuale e della mascolinità eroica, sia alla critica della dominazione maschile e delle istituzioni eterosessuali che già comincia a essere articolata negli incipienti movimenti femministi e omosessuali.
La Seconda guerra mondiale aveva trasformato radicalmente il terreno del dibattito femminista negli Stati Uniti. Il cosiddetto “femminismo della prima ondata”, che aveva centrato le sue rivendicazioni sul diritto al voto, non aveva contestato la separazione sessuale delle sfere, considerando ancora la femminilità come naturalmente legata allo spazio domestico e al compito della riproduzione. In ambito teorico, l’opera pionieristica dell’antropologa Margaret Mead aveva elaborato per la prima volta nel 1935 una distinzione tra sesso biologico e comportamento sociale (qualcosa che in seguito si chiamerà genere) ma aveva continuato ad associare la domesticità ai compiti materni della riproduzione. Simone de Beauvoir aveva articolato nel 1949 la prima critica politica della femminilità, definita non come essenza biologica bensì come prodotto dell’oppressione sociale che pesa sul corpo delle donne e sulla sua capacità riproduttiva. La sua critica dell’istituzione matrimoniale, la sua pratica bisessuale e il suo rifiuto del domicilio coniugale a favore della camera d’albergo singola avevano fatto della Beauvoir un modello di femminista antidomestica. Tuttavia, la critica più esplicita al regime domestico suburbano verrà dall’opera dell’americana Betty Friedan, intorno alla quale si aggregherà il movimento femminista National Organisation for Women.
L’opera di Friedan è una reazione contro l’indurimento delle norme di genere e della ghettizzazione spaziale della città suburbana: la fine della Seconda guerra mondiale aveva messo in discussione il processo di ampliamento della sfera pubblica che era iniziato negli anni Venti. A metà degli anni Cinquanta era diminuita drammaticamente la proporzione di donne che avevano accesso all’istruzione universitaria e il matrimonio e la riproduzione apparivano come le forme naturali della realizzazione femminile. La mistica della femminilità potrebbe definirsi come il manifesto della “moglie suburbana” che lotta per liberarsi dal regime di reclusione della casa unifamiliare che caratterizza la società nordamericana durante la Guerra fredda. Friedan fu una delle prime a rendersi conto che il paradiso domestico funzionava come un’architettura penitenziaria nella quale le donne erano rinchiuse a vita e mantenute a distanza dalla sfera politica, dal lavoro remunerato e dagli ambiti della cultura e della produzione di comunicazione sociale. Questa analisi politica la porta a denunciare la casa unifamiliare come “un confortevole campo di concentramento suburbano per le donne”. Per questo l’obiettivo della Friedan, come già era stato per Virginia Woolf, era quello di distruggere la figura mitica tradizionale della “donna di casa” e dell’“angelo del focolare”, reclamando l’uscita della donna dallo spazio domestico e il suo ingresso, su un piano di parità, negli ambiti della vita pubblica e del lavoro remunerato, ma senza abbandonare le convenzioni del matrimonio eterosessuale e della famiglia.
Nonostante le loro differenze interne, la critica femminista di Friedan alla casa unifamiliare e la difesa di Playboy del diritto dell’uomo a uno spazio domestico urbano libero dai legami della morale matrimoniale sono due dei controdiscorsi più rilevanti che si oppongono alle divisioni di genere del regime della Guerra fredda. Cercando uno spazio proprio, in un mosaico politico articolato secondo posizioni che si fronteggiano, Playboy sviluppa un discorso maschile, adolescente, eterosessuale e consumista per mantenere una distanza strategica rispetto tanto alla rigida morale sessuale della casa suburbana e alle sue distinzioni di genere, quanto alla lotta femminista per l’accesso delle donne allo spazio pubblico.
In un contesto sociale conservatore e in un clima geopolitico segnato dal pericolo di una guerra nucleare, dalla repressione brutale dei tentativi di autodeterminazione dei popoli colonizzati e dalla guerra del Vietnam, cominciano a farsi strada movimenti di contestazione che elaborano nuove concezioni critiche e utilizzano nuove tecniche di occupazione dello spazio pubblico per rendere visibili le loro richieste politiche. Si strutturano per primi i movimenti per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, che progressivamente conquistano l’uguaglianza legale. Negli anni Sessanta prende forma, negli Stati Uniti, la prima mobilitazione pacifista cittadina contro la guerra del Vietnam. Adottando modalità di azione e di presa di coscienza simili a quelle di queste lotte politiche, sorgeranno poi i movimenti femministi, di liberazione omosessuale e postcoloniali.
Retrospettivamente Playboy cerca di collocarsi all’interno di questi movimenti di contestazione, come discorso dissidente nei confronti del linguaggio bianco eterosessuale e coloniale dominante durante gli anni Cinquanta negli Stati Uniti, rappresentato dal maccartismo. Hefner non ha dubbi nel definire oggi il lavoro di Playboy come “un avamposto della rivoluzione sessuale” con un impatto paragonabile a quello dei movimenti femministi, antirazzisti e di decolonizzazione. Tuttavia sarà più prudente considerare il discorso di Playboy come la punta di diamante di una mutazione in corso nei linguaggi dominanti, che porterà dai regimi disciplinari tipici del diciannovesimo secolo (dei quali il maccartismo era una delle ultime manifestazioni) alle forme di controllo e produzione capitalistiche flessibili, che caratterizzeranno la fine del ventesimo secolo e il principio del ventunesimo e che condurranno al consolidamento di nuove identità sessuali, nuove forme di mascolinità e femminilità, capaci di funzionare come nuovi centri di consumo e produzione farmacopornografici.
Spazio single
Dobbiamo intendere questo ritrarsi del playboy dal mondo esterno come un rifiuto autentico dello spazio pubblico? Ha senso interpretare questo ritorno dello scapolo allo spazio domestico come un sintomo di femminilizzazione? O non si tratta piuttosto di una risposta strategica allo spostamento delle donne verso lo spazio pubblico proprio del periodo del dopoguerra e all’emergere del femminismo in America? Quali sono i limiti di questa “reversibilità di genere” del playboy?
Anche se questo movimento di Playboy verso l’interno contribuiva alla decostruzione dei limiti che ribadivano la natura femminile dello spazio interno riportando lo spazio esterno al maschile, e appariva perciò futurista e rivoluzionario, gli ideali di Playboy servirono a consolidare una distribuzione premoderna degli spazi di genere. In primo luogo, Playboy aspirava a una ridefinizione della mascolinità eterosessuale che avrebbe messo in discussione la morale sessuale vittoriana e i codici borghesi delle istituzioni tradizionali del matrimonio e della famiglia. La mascolinità di Playboy non è semplicemente eterosessuale, nel senso medico e culturale che questo termine acquista a partire dalla fine del diciottesimo secolo. La diffidenza nei confronti del regime morale eterosessuale monogamico della casa suburbana porterà Hefner a dichiarare, nel 1962: “Votiamo a favore di una sessualità eterosessuale fino a quando non si presenterà qualcosa di meglio”. Hefner, che era lettore assiduo di Alfred Kinsey, introduce un ideale di salute psicosociale nel discorso popolare sulla sessualità e oppone l’“eterosessualità sana” a ciò che il discorso di Playboy chiama “pornografia pia”: il sesso “malato” e “perverso” delle “mogli vergini”, della “gelosia”, della “pedofilia” e dell’omosessualità. Playboy fa differenza tra l’“eterosessualità sana” e la rigida divisione di spazi sessuali promossa dalla morale degli anni Cinquanta che, secondo la rivista, incita all’omosessualità: “Bere birra o andare a caccia fra uomini lasciando le donne a casa”, secondo la rivista, “era, da un punto di vista freudiano, totalmente omosessuale”. Questa psicologia-pop di Playboy delineava un nuovo spettro di sessualità normali e devianti nel quale tanto il matrimonio eterosessuale monogamo quanto l’omosessualità occupavano posizioni perverse. A fronte di entrambe, l’eterosessualità libertina e poligama di Playboy, “pulita”, “sana” e “razionale”, si levava come un nuovo modello di salute psicosociale: mentre la repressione e la colpa erano dalla parte del matrimonio monogamo e dell’omosessualità, la libertà e il divertimento caratterizzavano la nuova pratica dell’eterosessualità sana.
In un certo senso, e anche se il discorso di Playboy sembrava strutturarsi in opposizione radicale alla mascolinità tradizionale, l’identità del nuovo scapolo, il lettore “urbano, spensierato e sofisticato”, dipendeva anche da un ideale nostalgico. Di fatto, il primo nome che Hefner diede alla rivista Playboy fu Stag Party Magazine (letteralmente “festa dei cervi”, laddove il cervo corrisponde a un’immagine del maschio scapolone recalcitrante), in riferimento ai gruppi di uomini che si riunivano in spazi domestici e privati per vedere i primi film porno americani, conosciuti come stag films. Quello non era un colpo di marketing, si trattava bensì di una notazione autobiografica: nel 1952, molto prima di divorziare dalla prima moglie Millie, Hefner aveva cominciato a usare il suo appartamento di Hyde Park per fare piccole feste con scambi di coppia, aveva trasformato il soggiorno in sala di proiezione di pellicole pornografiche per i suoi amici e aveva girato il suo primo film porno, After the Masquerade, nel quale lui stesso, con il viso nascosto da una maschera, era l’attore porno protagonista.
Le pellicole stag, prodotte da uomini e dirette a un pubblico esclusivamente maschile, inventano la grammatica della pornografia cinematografica moderna. A differenza dei film sonori e a colori della fine degli anni Sessanta, programmati in sale cinematografiche, quelle pellicole mute, in bianco e nero e di breve durata (una bobina) si proiettavano in privato, in un ambiente che contribuiva a rafforzare i vincoli e il cameratismo maschili. Quello che era determinante nelle pellicole stag erano le condizioni materiali di produzione e di ricezione. La struttura omoerotica delle sessioni di visione di stag films rendeva manifesto, come Playboy sottolineerà poi nei suoi articoli, non solo che gli uomini eterosessuali non hanno bisogno delle donne per divertirsi ma che, persino, si divertono di più senza di loro. Un piacere ancora più intenso del piacere sessuale, basato sull’esclusione delle donne e sul consumo omoerotico delle loro immagini, sembrava definire l’economia visuale della pornografia: un piacere di genere, derivato dalla produzione della mascolinità. Rivendicando una filiazione, attraverso il nome stag party, dalle feste in cui si proiettavano pellicole pornografiche, Hefner collocava la rivista in quella tradizione di voyeurismo maschilista.
Il piacere maschile di guardare senza essere visto dominava i codici visuali nei servizi fotografici di Playboy: le immagini mettevano il lettore nella posizione del voyeur che, attraverso uno spioncino, una fessura o una finestra, riusciva ad accedere a uno spazio fino ad allora privato. La quarta parete dello spazio domestico era stata abbattuta e al suo posto era stata collocata una macchina fotografica. La rivista metteva a disposizione dell’occhio maschile collettivo l’accesso visuale a una intimità femminile accuratamente coreografata. Le fotografie mostravano donne che, non consapevoli di essere osservate, compivano azioni quotidiane: uscivano dalla doccia calpestando anatroccoli di gomma, si truccavano davanti allo specchio dimenticando di tirar su la lampo del vestito, attaccavano palle all’albero di Natale senza rendersi conto che la gonna gli era rimasta impigliata alla scala e lasciava scoperte le cosce, mettevano tacchini nel forno mostrando una scollatura sfacciata e con le collane sul punto di affondare nella salsa, appendevano quadri colpendosi il dito col martello… La semplicità delle loro azioni, l’espressione incosciente e infantile dei loro volti erano direttamente proporzionali alla stupidità contenuta nello sguardo maschile, alla molla sciocca e naïf sulla quale poggiava il meccanismo visuale masturbatorio di Playboy. Non c’era nessuna minaccia, nessun rischio. Il dispositivo masturbatorio era ripetuto più e più volte come un rituale che calmava le ansie maschili di fronte al cambiamento sociale. La necessità di assicurare il meccanismo della masturbazione e di evitare il desiderio omosessuale faceva sì che lo sguardo fosse sempre unidirezionale. Non c’erano mai uomini che accompagnavano le donne rappresentate. Si stabilisce così una rigorosa divisione tra soggetto e oggetto dello sguardo. Il voyeur può essere solo un maschio, l’oggetto del piacere visuale può essere solo una donna. Questa struttura voyeuristica del campo visuale si materializzerà poi nei dispositivi di sorveglianza e trasmissione audiovisiva disseminati nelle stanze della Playboy Mansion, destinati a filmare e proiettare pellicole. Spostando nel futuro un paradiso retrò nel quale l’uomo eterosessuale accede alla visione pubblica del privato, Playboy otterrà di riprodurre virtualmente quello che potremmo chiamare uno “spazio stag”, la casa del nuovo scapolo.
L’ambiguità riguardo alla domesticità e alla reversibilità delle logiche spaziali di genere, latente poi nell’attico urbano, si manifestava già apertamente nella creazione del logo di Playboy come risultato di una metamorfosi semantica e visuale dello stag/cervo in bunny/coniglietto. Nel 1953, pochi mesi prima del lancio della rivista Playboy, Hefner scelse una mascotte (che ricordava “Esky” il pupazzo di plastilina della rivista Esquire) per rappresentare la sua pubblicazione. Il primo disegno, fatto da Arv Miller, era un cervo, in vestaglia e pantofole, che fumava una pipa. Il disegno non solo giocava sul doppio senso della parola stag, allo stesso tempo “cervo maschio” e “uomo che partecipa da solo o senza compagnia femminile alle feste e consumatore di pellicole stag”, ma trasferiva anche la vestaglia e le pantofole da Hefner al cervo, dando un tocco inaspettatamente domestico a un animale selvatico. Testimone delle contraddizioni interne di Playboy, la mascotte esprimeva la tensione tra cacciatore e animale cacciato, tra caccia esterna e caccia domestica, tra selvatico e addomesticato. Ma quando stava per registrare ufficialmente Stag Party Magazine come nome per la sua futura rivista, Hefnernscoprì che il “cervo” era il nome e il logo (questa volta senza pipa, vestaglia e pantofole) di una pubblicazione americana dedicata (ovviamente!) alla caccia e alla pesca. Dopo una riunione di lavoro, il suo amico Eldon Sellers suggerì il nome Playboy, probabilmente con riferimento all’allora poco conosciuta automobile progettata dalla compagnia automobilistica Playboy di Buffalo, New York, presso la quale la madre di Sellers aveva lavorato come segretaria.
Hefner restò affascinato dall’idea ma insistette per conservare l’immagine della caccia, per cui propose una leggera modifica al disegno di Miller per il logo della società: al posto del cervo, la mascotte sarà un “coniglio di bell’aspetto, giocherellone e sexy che indossa lo smoking”. Quando Art Paul finì di disegnare la nuova immagine, il cervo si era trasformato nel “coniglietto Playboy”: un animale infantile e privo di imbarazzo, dedito a cacciare femmine senza uscire di casa sua. Gli spostamenti semantici che portano dallo stag (cervo) al bunny (coniglietto) implicano una teoria del potere e della soggettività che è una risposta alle trasformazioni culturali che si stanno producendo durante gli anni Cinquanta. La soggettività maschile “cervo”, adulta, seria, rude e selvaggia, è stata sostituita a beneficio di una soggettività “coniglio”, adolescente, veloce, ballerina e domestica. Le forme di potere e le modalità di relazione stanno cambiando dalla “caccia maggiore” alla “minore”: se la soggettività cervo era protestante, austera e moralista e aspirava a ottenere una sola grande preda come trofeo (la sposa per tutta la vita), la soggettività coniglio è totemica, politeista e amorale e gode non tanto della cattura ma piuttosto del gioco con una gran varietà di prede (varie relazioni sessuali, effimere e senza conseguenze). Inoltre, mentre la soggettività cervo era maschile per natura, la soggettività coniglio oscilla inevitabilmente nell’ambiguità che la polisemia della parola bunny possiede in inglese: coniglio e bambina. Per questo non è strano che il coniglio di Playboy si trasformi, nel numero di gennaio del 1954, in “Playmate”, diventando una donna-coniglia.
Alla fine, il logo in bianco e nero, oggi conosciuto in tutto il mondo, sarà creato da Art Paul nel 1956 per essere utilizzato in accessori come gemelli, orecchini, braccialetti, spille da cravatta e camicie. Dopo la costruzione della Mansion nel 1960, questo logo sarà usato al posto dell’indirizzo della casa sulle buste di Playboy, assumendo anche la funzione di indicatore topografico.
Il coniglio gioca
Tra il 1953 e il 1963, grazie alla rivista e alla costruzione della Mansion, Playboy elabora un’economia spaziale articolata intorno alle opposizioni binarie che dominano il paesaggio politico della società del dopo-guerra: interno-esterno, privato-pubblico, lavoro-ozio, vestito-nudo, uno-molteplice, asciutto-bagnato, umano-animale, controllato- rilassato, fedeltà-promi-scuità, verticale-orizzontale, bianco-nero, famiglia-estraneo. Altre riviste nordamericane dell’epoca lavoravano dentro questo quadro binario ma non articolavano le opposizioni allo stesso modo di Playboy. Esquire, la pubblicazione più importante degli anni Trenta-Quaranta, diretta a un pubblico maschile, sosteneva una figura esemplare di uomo americano esterno, pubblico, immerso nel lavoro, umano, vestito, asciutto, controllato, fedele, bianco e verticale. Da questi valori dipendevano l’unità familiare e nazionale. All’estremo opposto, le riviste Sunshine and Health e Modern Sunbath si dedicavano esclusivamente alla pubblicazione di nudi femminili: erano riviste da ozio, che promuovevano valori bagnati, orizzontali, rilassati e promiscui. Tra questi due estremi, Playboy si va a collocare come un dispositivo di conversione che permette di passare costantemente da un polo all’altro. Restio a prendere posizione di fronte alle alternative morali, il playboy si configura come un soggetto di confine che, in ultima istanza, aspira solo a “giocare” (to play). Il “gioco” si rifletterà non solo nel nome della rivista ma, e soprattutto, nell’utilizzazione di quelli che potremmo denominare dispositivi girevoli destinati a operare la conversione dei poli opposti e che, spesso, Playboy loda per le loro qualità di adattabilità e circolarità: sofà reclinabili, telecamere nascoste, cristalli che da un lato sono specchi e dall’altro sono trasparenti, passaggi segreti, letti girevoli, botole, doppi fondi…
Due elementi caratterizzavano il gioco di questi dispositivi e il loro funzionamento reversibile. In primo luogo, l’attore (vale a dire l’unico autorizzato a giocare) è il lettore-cliente (e più tardi lo spettatore televisivo) maschio: è lui l’autentico destinatario della retorica della seduzione e capace di operare il passaggio da un estremo all’altro dell’opposizione. In secondo luogo, la conversione degli opposti produce piacere e capitale. Ciò che genera piacere è il passaggio incessante dall’uno all’altro dei poli opposti, la trasformazione del privato in pubblico agisce come un meccanismo di eccitazione sessuale. Questo è il gioco che dà nome alla rivista.
Ma chi è questo giocatore capace di altalenare allegramente tra gli estremi di opposizioni politiche che fino ad allora erano state cruciali per la definizione della mascolinità bianca di classe media? Il playboy, atleta da interno ed equilibrista delle tensioni morali, è una variante della nuova figura del consumatore apolitico, creata dalla società dell’abbondanza e della comunicazione del dopoguerra: il teenager. L’economista Eugene Gilbert coniò la nozione “teen-ager” negli anni Quaranta per descrivere un nuovo segmento demografico del mercato di consumo: ciò che è importante nell’adolescente non è la sua età, ma la sua capacità di consumare senza restrizioni morali. Nel 1942 il sociologo Talcott Parsons inventò il termine “cultura giovanile” per indicare un insieme di nuove pratiche sociali caratteristiche di quegli adolescenti consumatori di musica, alcool, droghe, che sfuggivano per alcuni anni alle restrizioni della morale suburbana della famiglia e del lavoro. L’esplosione della natalità nel dopoguerra aveva creato un blocco di 10 milioni di giovani consumatori che, grazie all’educazione e alla prosperità economica delle classi medie americane, si profilava come un obiettivo commerciale senza precedenti. Il ragazzo adolescente, bianco ed eterosessuale, era il centro di un nuovo mercato culturale organizzato intorno alle pratiche della vita universitaria, il jazz e il rock and roll, il cinema, gli sport, le auto e le ragazze. Ancora libero dai legami del matrimonio, dotato di potere di acquisto e per la prima volta padrone del suo corpo (non ancora reclamato dallo Stato per nuove guerre), il teenager è il consumatore ideale della nuova immagine pornografica e del nuovo discorso sulla mascolinità urbana portato avanti dalla rivista. “Playboy ha lustro professionale e una formula diretta a uomini adolescenti di tutte le età.” Mentre gli adolescenti delle classi basse o afroamericane, privi di potere d’acquisto, saranno rappresentati come criminali in potenza, il teenager bianco di classe media (di qualsiasi età!) potrà aspirare a diventare un autentico playboy.
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