In questo testo del 1913, il filosofo e psicologo Ludwig Klages affronta con consapevolezza gli effetti devastanti del cosiddetto “progresso” di una cultura occidentale che guarda il mondo in modo statico e trasforma la terra in una superficie equivalente, dominata da logiche produttive e procedimenti industriali.
IN COPERTINA e nel testo: Giorgio De Chirico, la biga invincibile – Olio su tela – Asta Pananti online
Questo testo è un estratto da “L’uomo e la terra” di Ludwig Klages, ringraziamo Mimesis Edizioni per la gentile concessione.
di Ludwig Klages
Ogni epoca, e la nostra in particolare, ha le sue parole d’ordine, con cui annuncia a rulli di tamburo le sue tendenze, soffocando nelle file dei suoi seguaci la voce del dubbio e reclutando sempre nuove schiere attorno alla propria causa. Le tre parole d’ordine oggi più forti suonano “progresso”, “cultura”, “personalità”, anche se nel pensiero comune è l’idea del progresso – l’unica ad appartenere in modo specifico al presente – a sostenere le altre due dando loro il particolare significato. Il nostro tempo ritiene così di sentirsi superiore tanto ai popoli che si trovano allo stato di natura quanto alle passate età storiche, e quando si domandi quali siano le ragioni di tale sicurezza ha pronta la risposta: la scienza si trova a livelli mai raggiunti prima; la “tecnica” domina la natura – davanti a cui si è ritratta intimorita tutta l’umanità primitiva – e provvede puntualmente al benessere comune attingendo alle inesauribili provviste della terra; lo spirito si diffonde nello spazio e nel tempo grazie alle onde che attraversano l’etere, ed il suo genio inventivo ha finalmente “conquistato” persino lo sconfinato mare d’aria. Non per i convinti sostenitori di tale credenza, che con essa moriranno, ma certo per una più giovane generazione – che ancora s’interroga – vogliamo cercare quanto meno di sollevare il velo in un punto e di smascherare la pericolosa illusione che esso cela.
Anche a chi siano rimaste ancora ignote le terribili conseguenze generate dall’idea dominante del “progresso”, dovrebbero comunque destare perplessità i valori che tale idea propone. All’antico greco era massimamente desiderabile la kalokagathia, vale a dire la bellezza umana tanto interiore quanto esteriore, che egli vedeva riflessa nell’immagine degli dei olimpici; all’uomo del Medio Evo la “salvezza dell’anima”, con cui intendeva l’elevazione spirituale a Dio; all’uomo di Goethe la perfezione della condotta, la “maestria” nel fronteggiare il mutare della sorte; e, per quanto differenti siano tali mete, noi senz’altro comprendiamo la profonda felicità derivante dal raggiungimento di ciascuna. Al contrario, ciò di cui l’uomo del progresso è orgoglioso sono meri successi, una crescita della potenza dell’umanità che egli scambia irragionevolmente per una crescita di valori, e dobbiamo dubitare della sua capacità di godere di una qualche felicità, e se non conosca piuttosto la vuota soddisfazione prodotta dalla coscienza del dominio. In sé la potenza è cieca verso tutti i valori, verso la verità e la giustizia, e se ammette ancora queste, è certamente cieca verso la bellezza e la vita. Per il nostro atto d’accusa ci riallacciamo a ciò che è ben noto.
Si conceda l’altezza della scienza – per quanto poco essa sia al riparo da ogni contestazione; quella della tecnica è fuori discussione. Ma quali sono i loro frutti, alla luce dei quali – secondo le sagge parole della Bibbia – dobbiamo giudicare il valore dell’agire umano? Cominciamo con quegli esseri viventi la cui appartenenza alla vita non è mai stata messa in discussione: le piante e gli animali.
Gli antichi vagheggiavano di una perduta “età dell’oro” o di un paradiso in cui il leone dimorava amichevolmente con l’agnello, il serpente con l’uomo quale profetico genio tutelare. Questi non sono stati assolutamente dei sogni, come ci fa intendere quell’errata teoria che della natura comprende un’unica cosa: l’illimitata “lotta per l’esistenza”.
Esploratori polari ci descrivono la fiducia senza timore di pinguini, renne, leoni marini, foche, perfino di gabbiani, alla prima comparsa dell’uomo.
Pionieri dei Tropici non si stancano di illustrarci con meraviglia le immagini di steppe selvagge, dove in socievole compagnia pullulano oche selvatiche, gru, ibis, fenicotteri, aironi, cicogne, marabù, giraffe, zebre, gnù, antilopi, gazzelle. Conosciamo benissimo autentiche simbiosi diffuse in tutto il mondo animale e sull’intera terra. Ma dove l’uomo del progresso ha assunto il dominio di cui si vanta, ha seminato attorno a sé soltanto assassinio, terrore e morte. Cosa resta a noi, per esempio, del regno animale della Germania? Orso e lupo, lince e gatto selvatico, bisonte, alce e uro, aquila e avvoltoio, gru e falco, cigno e gufo si erano trasformati in favola, prima che cominciasse la moderna guerra di annientamento. Questa li ha davvero fatti scomparire del tutto. Con il più assurdo di tutti i pretesti – che innumerevoli specie animali siano “nocive” – essa ha sterminato quasi tutto ciò che non si chiami lepre, starna, capriolo, fagiano e tutt’al più cinghiale. Verro, stambecco, volpe, martora, tasso e lontra, animali a cui la leggenda associa antichissime memorie, si sono ridotti di numero – laddove non siano già del tutto scomparsi; gabbiano fluviale, rondine di mare, cormorano, podicipidi, airone, martin pescatore, nibbio reale, civetta sono abbandonati ad una persecuzione sconsiderata, i banchi di foche nel mare del Nord e nel mar Baltico sono votate allo sterminio. Si conoscono più di duecento nomi di città e paesi tedeschi che derivano da castoro [Biber] – una prova della diffusione dell’instancabile roditore nei tempi passati; oggi sono sopravvissute ancora poche colonie nell’Elba, tra Torgau e Wittenberg, e già sarebbero sparite senza la tutela della legge! E chi non ha avvertito con segreta angoscia la sempre più veloce diminuzione – di anno in anno – dei nostri amati cantori, gli uccelli migratori! Solo una generazione fa perfino nelle città in estate il cielo azzurro era invaso dal frullio delle rondini e dei rondoni, un suono da cui sembrano trasparire la lontananza e l’istinto migratorio. Allora si contavano in un sobborgo di Monaco trecento nidi, oggi quattro o cinque. Perfino sulla campagna è sceso un inquietante silenzio, e non si canta neppure più come nelle fresche mattine di cui parlano le gioiose poesie di Eichendorff “innumerevoli allodole”. Si deve ormai avere fortuna, per poter ascoltare ancora camminando su un lontano sentiero di bosco, proveniente da assolate distese, il richiamo luminoso e pieno di presagi della quaglia, che, un tempo, per mille e mille sere ha riempito il suolo tedesco e vive nei canti del popolo e dei poeti. Gazza, picchio, rigogolo, cinciallegra, codirosso, capinera, usignolo – a quanto si vede, tutti spariscono.
-->La maggior parte dei contemporanei, stipati in grandi città e abituati fin dalla giovinezza ad una ciminiera fumante, al frastuono del rumore stradale, ed a una notte chiara come il giorno, non ha più alcun criterio per valutare la bellezza del paesaggio: crede già di scorgere la natura alla vista di un campo di patate, e trova perfino grande soddisfazione se sui pochi alberi della strada principale alcuni storni e passeri cinguettano. E se il racconto e la descrizione di allora, dei colori e dei suoni del paesaggio tedesco – come era ancora circa settant’anni fa –, come un’ombra turba le anime devastate, subito ci sono gli inattaccabili discorsi intorno allo “sviluppo economico”, alle esigenze dell’“utile”, alle inevitabili necessità del processo culturale, per allontanare il minaccioso monito. Occorre perciò estendere l’ambito della nostra ricerca.
Lasciamo in sospeso, donde l’arida utilità si arroghi il diritto di ritenersi il sommo principio di ogni azione e di giustificare le più tristi devastazioni. Non vogliamo neppure ripetere ciò che è ormai patrimonio comune del sapere, cioè che in nessun caso l’uomo ha potuto correggere la natura con successo. Dove scompaiono gli uccelli canori aumentano enormemente gli insetti ematofagi e i bruchi dannosi, che spesso in pochi giorni divorano vigneti e boschi; dove si fa sparire la poiana e si sterminano i marassi arriva l’invasione dei topi che, distruggendo i nidi del bombo, manda in rovina il trifoglio il quale dipende per la fecondazione da questo insetto; l’esistenza di più numerosi animali da preda provocava la selezione nella selvaggina, che ora degenera per la riproduzione di soggetti malati dove mancano i suoi nemici naturali; e così via fino ai peggiori contraccolpi della natura ferita nelle regioni esotiche, nella forma di quelle terribili epidemie che stanno alle calcagna dell’europeo “civilizzatore”. La peste dell’Asia orientale ebbe origine principalmente dallo smercio in massa della pelle – contenente germi – dei roditori del luogo, come pure della marmotta siberiana. Tutto ciò vogliamo lasciare da parte per illuminare con pochi esempi soltanto l’unico punto veramente importante, cioè che l’utile, cui si dà tanta importanza, non ha niente a che fare con il bisogno materiale.
Ciò che il tedesco d’oggi chiama bosco d’alto fusto, è in realtà del legno a pertica appena rimboscato; invece il vero bosco d’alto fusto, che da noi divenne leggenda religiosa, va incontro alla propria fine sull’intera terra. Il continente più ricco di boschi, il Nord America, deve oggi sopperire al proprio bisogno di legno con l’importazione; e gli unici paesi che ancora esportano – l’Ungheria, la Russia, la Scandinavia e il Canada – saranno presto privati della loro ricchezza. I popoli “progrediti”, presi assieme, hanno bisogno annualmente di circa trecentocinquantamila tonnellate di legno per la fornitura di carta, perché in media appare ogni due minuti un libro e quasi ogni secondo un giornale – così estesa è infatti la produzione di questi articoli nell’ambito della “civiltà”. Ci si dimostri la necessità di sommergere l’umanità con quei miliardi di pessimi giornali, di vergognosi scritti, di spaventosi romanzi; e se non ci si riesce, allora l’abbattimento delle foreste è una vera e propria empietà.
Gli italiani catturano e assassinano in modo crudele annualmente milioni di uccelli migratori che calano esausti sulle loro coste; e quelli che non consumano per sé, li esportano in Inghilterra e Francia riempendosi le tasche. Qui i numeri parlano chiaro: nel 1909 una sola nave portò settantaduemila quaglie vive, stipate in anguste gabbie, in Inghilterra, dove i poveri animali, in una condizione che suscita pietà in chi li ama, furono macellati. Sulla penisola sorrentina ogni anno si catturano fino a cinquecentomila esemplari vivi. Le cifre dell’annientamento che ha luogo in Egitto si aggirano intorno ai tre milioni circa, senza contare le innumerevoli allodole, gli ortolani, le capinere, le rondini, gli usignoli! Del lusso e del guadagno, non della fame, sono vittime sacrificali gli uccelli.
Devastazioni ancora più tremende le fa la moda, ovvero l’avidità di guadagno di alcuni sarti e commercianti la cui misera inventiva sembra insufflata direttamente da Satana. Riportiamo qui un estratto dal “Cri de Paris”: «Le modiste parigine lavorano ogni anno fino a quarantamila rondini di mare e gabbiani. Un commerciante londinese vendette l’anno scorso trentaduemila colibrì, ottantamila differenti uccelli marini e ottocentomila paia di ali d’uccelli di differenti specie. Si può supporre che ogni anno vengano sacrificati per la moda femminile non meno di trecento milioni di uccelli. Ci sono paesi, che hanno completamente perso determinate specie di uccelli che rappresentavano un particolare carattere del loro paesaggio. Perché le penne maestre o il piumino conservino il loro splendore, si possono spennare solo uccelli vivi; si dà perciò la caccia ai poveri animali non con il fucile, ma con la rete. Lo spietato “cacciatore” strappa agli uccelli catturati le piume dal corpo, e le incolpevoli vittime della moda devono sopportare le più crudeli torture, prima di trovare la morte in preda alle convulsioni».
L’umanità, che si considera civile, permette con indifferenza che una cosa simile avvenga, e, mentre un inaudito assassinio fa il giro della terra, le donne spensieratamente fanno sfoggio dei tristi trofei. Non occorre sottolineare come tutte le specie enumerate – e molte altre, fra cui l’uccello del paradiso dai raggianti colori e l’albatro dal possente slancio – siano prossime all’estinzione. E lo stesso destino incombe presto o tardi su tutte le specie animali, a meno che l’uomo non le abbia allevate o addomesticate.
I miliardi di animali da pelliccia del Nord America, le innumerevoli volpi azzurre, zibellini, ermellini della Siberia soccombono agli sfarzi della moda.
Da quando nel 1908 nacque a Copenaghen una società per azioni “per l’esercizio della caccia alla balena in grande stile e secondo un nuovo metodo”, – cioè con stabilimenti galleggianti che lavorano subito gli animali uccisi –, nel corso dei due anni successivi sono stati massacrati circa cinquecentomila esemplari di questo che è il più grande mammifero della terra; ed è vicino il giorno in cui la balena apparterrà alla storia e… ai musei.
Per millenni il bufalo americano, la selvaggina più amata dagli indiani, percorse a milioni la prateria. Ma appena la “progredita” Europa entrò nel territorio, iniziò subito un terribile e assurdo sterminio, e oggi il bisonte è bell’e spacciato. Lo stesso dramma si ripete oggi in Africa. «Per rifornire la cosiddetta cultura umana di palle da biliardo, pomelli per bastoni da passeggio, sottili pettini e ventagli e oggetti d’uguale enorme utilità, secondo gli ultimi calcoli del ricercatore parigino Tournier sono lavorati ogni anno ottocentomila esemplari di quello che è l’animale più forte del mondo. Secondo le informazioni più recenti, dal momento in cui lo stato del Congo rinunciò all’amministrazione del distretto di Lado, una società inglese per la caccia accerchiò e falcidiò un branco di elefanti di ottomila unità, compresi i giovani e le femmine».
Nello stesso modo sono spietatamente uccise antilopi, rinoceronti, cavalli selvatici, canguri, giraffe, struzzi, gnù nelle zone tropicali; orsi polari, buoi muschiati, volpi bianche, trichechi, foche nelle zone artiche. Un’orgia di devastazione senza eguali ha afferrato l’umanità, la “civiltà” ha i tratti dell’assassinio scatenato, e la ricchezza della terra inaridisce sotto questo soffio velenoso. Proprio questo aspetto avrebbero i frutti del “progresso”!
Essi sono – come ho detto – noti. Uomini saggi e generosi negli ultimi dieci anni hanno continuamente messo in guardia contro l’imminente pericolo, e cercano di opporsi alla rovina attraverso una associazione per la difesa della natura e della patria; ma sconosciute restano la ragione più profonda e l’autentica gravità della sventura. Prima di indagare tali aspetti continuiamo tuttavia nella nostra accusa.
Non occorre dare una risposta, alla questione se la vita si estenda o meno oltre il regno organico degli individui; se la terra – come credevano gli antichi – sia un’essenza vivente, o piuttosto – secondo l’opinione dei moderni – un ammasso insensibile di “materia morta”; ma è certo che terreno, gioco di nubi, acque, flora e fauna formano in ogni paesaggio un tutto suggestivo che avvolge la vita individuale come in un’arca, intessendola nel grandioso accadere universale. Nel vortice dei suoni del pianeta indispensabili accordi sono la sublime tristezza del deserto, la gravità delle alte cime, il richiamo malinconico di lontane brughiere, la tessitura ricca di mistero del bosco d’alto fusto, il palpitare del litorale con il luccichio del mare. Le opere dell’uomo all’origine si adagiavano su questi paesaggi o vi si fondevano come in sogno. Se andiamo a guardare il profondo monito delle piramidi, delle file di sfingi, delle colonne dei capitelli a fior di loto dell’Egitto; la grazia luminosa dei campanili cinesi, l’articolata limpidezza dei templi greci o la calda intimità delle case coloniche basso-tedesche, la libera impuntitura della tenda dei Tatari – tutte diffondono e rivelano l’anima del paesaggio in cui crescono. Come gli antichi popoli amavano farsi chiamare “nati dalla terra”, così tutto ciò che essi crearono è nella forma e nel colore della terra: dalle abitazioni fino alle armi e agli utensili; ai pugnali, giavellotti, frecce, asce, spade; alle collane, fermagli, anelli; ai vasi dalla bella forma e dalle ricche decorazioni, alle scodelle di calebassa e alle coppe di rame, ai graticci e tessuti dalle mille pieghe.
Ancora più terribili, di quanto finora abbiamo udito, – anche se forse non del tutto in egual misura irrimediabili –, sono gli effetti del “progresso” sull’immagine dei paesaggi colonizzati. Spezzato è il legame creativo tra l’uomo e la terra, annichilito per secoli – se non per sempre – il canto originario del paesaggio. Sia qui che in India, Egitto, Australia, America le stesse rotaie, gli stessi fili del telegrafo, le stesse linee ad alta tensione tagliano con cruda regolarità boschi e profili montagnosi; dovunque l’uomo civile sviluppi la propria “benefica” attività, casermoni grigi e uguali macchiati di muffa si succedono in modo uniforme; da noi, come in altre parti, i campi sono “accoppiati” – cioè tagliati in parti rettangolari e quadrate –, i fossati riempiti di terra, le siepi fiorite abbattute, i laghetti circondati da canneti prosciugati; la vegetazione selvaggia delle foreste di una volta deve ridursi a puro patrimonio, messo militarmente in fila e senza la sterpaglia del “nocivo” sottobosco; i corsi fluviali, che un tempo serpeggiavano in tortuose curve fra rigogliosi argini, diventano dritti canali; le rapide e le cascate – addirittura la stessa cascata del Niagara – devono alimentare centrali elettriche; una selva di ciminiere cresce sulle loro rive, e scarichi velenosi di fabbriche inquinano il puro liquido della terra – in breve, il volto dei continenti si trasforma pian piano in un’unica Chicago circondata da campi.
«Mio Dio – esclamò appena cent’anni fa il nobile Achim von Arnim – dove sono gli antichi alberi da cui ancora ieri dipendevamo, i secolari segni di saldi confini, cosa ne è stato, cosa accade? Fra il popolo essi sono già pressoché dimenticati, e noi dolorosamente urtiamo contro le loro radici. Se la cima di alte montagne viene per una volta del tutto disboscata, là non cresce più alcun bosco. Sia nostra premura che la Germania non venga mandata in rovina!». E Lenau, a proposito delle impressioni ricevute dal paesaggio tedesco, disse che si era presa la natura per la gola, così da farle sprizzare sangue da tutti i pori. Cosa direbbero oggi questi uomini! Come Heinrich von Kleist oggi forse preferirebbero abbandonare una terra che il suo figlio degenerato, l’uomo, ha così devastato. «In città e campagna le devastazioni della guerra dei Trent’anni non hanno fatto piazza pulita dell’eredità del passato quanto la violenza della vita moderna ha fatto con il proprio spietato e unilaterale perseguimento di scopi pratici».

Per quanto riguarda poi il falso sentimento per la natura del cosiddetto “turista”, basti ricordare l’attenzione per le devastazioni che l’“apertura” di riviere e valli montuose fuori mano ha portato con sé. Per gustare la fioritura di questo orrore si visiti la Svizzera: nessuna cima è così alta e imponente che non ci possa arrivare la ferrovia a cremagliera, così da scaricare là sopra in hotel di “prima classe” – forniti di ogni “moderno comfort” – la marmaglia di viaggiatori perché, prima o dopo il pranzo, a bocca aperta guardi a sazietà il rosseggiare delle vette alpine, i tramonti, le cascate illuminate elettricamente. Sebbene invano, tutto ciò è stato continuamente ripetuto, per esempio dall’eccellente Rudorff nell’esemplare saggio del 1880 Sulla relazione della vita moderna con la natura, sul quale vogliamo richiamare l’attenzione di tutti.
Ma tutto questo non basta: la smania dello sterminio ha tracciato anche nell’umanità i suoi solchi sanguinosi. Spariti totalmente o quasi i popoli allo stato di natura, perché falcidiati e presi dalla fame o condannati ad una malattia senza speranza dai doni del “progresso”: acquavite, oppio, sifilide. Spacciati gli indiani, gli aborigeni dell’Australia, tutte le migliori tribù della Polinesia; i più valorosi popoli di colore si oppongono e soccombono alla “civiltà”; e noi abbiamo appena assistito all’indifferenza dell’Europa dinanzi allo sterminio a migliaia e migliaia, compiuto dai serbi, del suo ultimo popolo originario, gli albanesi, i “figli dell’aquila”, che fanno risalire la propria stirpe fino ai leggendari “pelasgi”.
Non ci siamo ingannati sospettando nel “progresso” un vuoto desiderio di potenza, e vediamo che c’è un metodo in questo delirio di distruzione. Con i pretesti dell’“utile”, dello “sviluppo economico”, della “cultura” il progresso in realtà distrugge la vita, l’aggredisce in tutte le sue forme, taglia i boschi, estingue le razze animali, fa sparire i popoli primitivi, deturpa e deforma il paesaggio con cartelli pubblicitari e avvilisce quel poco che ancora lascia degli esseri viventi, ridotti come “bestiame da macello” ad una semplice merce, ad oggetti a disposizione di un’illimitata fame di bottino. Al suo servizio sta davvero l’intera tecnica e al servizio di quella, ancora, il campo di gran lunga più vasto della scienza.
Qui ci fermiamo un istante. In qualche modo anche l’uomo appartiene alla natura; alcuni ritengono perfino che vi appartenga interamente, cosa che senza dubbio – come vedremo – è errata; ma in ogni caso egli vive, e se qualcosa in lui è in lotta con la vita, è in lotta non da ultimo con lui stesso. Alla nostra serie di prove mancherebbe l’elemento più importante, se non presentassimo anche esempi dell’autodistruzione del genere umano.
Anche solo per citare l’essenziale, la lista di morte qui da riportare andrebbe ben oltre quella degli animali; per cui può bastare scegliere un paio di argomenti.
Dove sono andate le feste popolari e i riti sacri, fonti inesauribili di mito e poesia lungo questo millennio: la cavalcata propiziatoria attraverso i campi per il prosperare della semina, la processione della “sposa di Pentecoste”, la fiaccolata attraverso i campi di grano! Dove la strabiliante ricchezza di costumi in cui ogni popolo esprimeva – congiunta all’immagine del paesaggio – la sua natura! Al posto di ricchi pendagli, variopinti busti, gilè ricamati, pesanti cinture di metallo, leggeri sandali o soprabiti togati, turbanti a pieghe, chimono fluenti, in tutto il mondo la “civiltà” porta agli uomini il grigio dell’abito maschile da passeggio, alle donne… l’ultima moda parigina!
Dov’è andato infine il canto popolare, l’antichissimo e pur tuttavia eternamente giovane tesoro di canti, che racchiudeva delicatamente come in un argenteo tessuto ogni vicenda umana? Nozze e funerali, vendetta, guerra e sconfitta, ebbrezza nel bere e impulso al vagabondaggio, coraggio nel cavalcare, sentimenti infantili e amore materno respiravano e scorrevano in inesauribili canti, ora muovendo all’azione ardente, ora cullando nel sapore dell’oblio. Si poetò e si cantò nella danza, con il calice pieno, nell’addio e nel ritorno, nella consacrazione e nella formula magica, nella penombra delle stanze ove si filava, prima della battaglia, al tumulo dei caduti, ci si provocava con canzoni satiriche, si combattevano discordie fino all’estremo in gare di canto, si avvolgevano con l’oscuro chiarore della poesia montagne, sorgenti e arbusti, animali domestici, belve e piante, movimento delle nubi e piogge. E – fatto che a noi è ormai difficile da comprendere – perfino il lavoro si trasformava in festa. Non si cantava soltanto facendo viaggi e durante le feste, bensì anche levando l’ancora e al ritmo del remo, trasportando carichi pesanti e governando la nave, legando le botti, battendo il martello da fabbro, spargendo la semina, mietendo, trebbiando, tingendo il grano, gramolando il lino, tessendo e impagliando. Il “progresso” non soltanto ha ingrigito la vita, ma l’ha anche resa muta. Ma no! – dimenticavamo: alla morte del canto originario esso ha fatto seguire la canzonetta del momento, la melodia da operetta e la sdolcinata canzone del cabaret; agli strumenti musicali anticamente diffusi come la chitarra spagnola, il mandolino italiano, il kantele finnico, la gusla jugoslava, la balalaika russa ha sostituito il pianoforte e il grammofono! Così dunque avremmo raccolto i frutti del “progresso”! Simile al divampare di un fuoco, esso è passato rapidamente sulla terra, e nei luoghi che ha bruciato – rimasti improvvisamente spogli – nulla più cresce, fintantoché ci sono ancora uomini! Sterminate, le specie animali e vegetali non si rinnovano, l’intimo calore dell’umanità è disseccato, seppellita la segreta sorgente che alimentò le fioriture dei canti e le sacre feste, ed è rimasta una fredda e astiosa giornata di lavoro, unita al falso splendore di chiassosi “divertimenti”. Nessun dubbio: noi siamo nell’epoca del tramonto dell’anima.
Come potrebbero esistere in tali circostanze grandi personalità?! Certo non disconosciamo la capacità inventiva dei maestri della tecnica, non la capacità di calcolare dei principi della grande industria; ma – anche a voler mettere una cosa di questo genere sullo stesso piano della vera e propria forza creatrice – rimane tuttavia certo che ciò non sarebbe mai capace di arricchire la vita. La macchina più perfetta ha il suo unico significato al servizio di uno scopo, non in se stessa, e la più grande associazione industriale del presente tra mille anni non sarà nulla, mentre i canti di Omero, la saggezza di Eraclito, la musica di Beethoven appartengono all’inesauribile tesoro della vita. Ma come triste sembra oggi il nostro mondo di pensatori e poeti, che un tempo a ragione ci ha inorgoglito! Chi abbiamo ancora, da quando hanno preso congedo da noi i veterani di tutti i campi dello spirito e dell’azione: i vari Burckhardt, Böcklin, Bachofen, Mommsen, Bismarck, Keller; da quando anche Nietzsche – simile all’ultimo divampare di un’antica fiamma – se ne è andato senza traccia e senza seguito! Si è fatto il vuoto nel Parnaso, nella politica e nel sapere, per non parlare dell’arte – completamente corrotta.
Se scendiamo poi nella vita quotidiana, scopriamo allora la totale nullità di parole come “personalità” e “cultura”.
I più non vivono, ma esistono soltanto; sono schiavi del “lavoro”, che si consumano come macchine al servizio di grandi imprese, sono schiavi del denaro, consegnati in modo insensato al delirio di numeri di azioni e fondazioni, sono schiavi degli assordanti divertimenti della grande città; ma altrettanti avvertono cupamente lo sfacelo e la crescente mancanza di gioia. In nessun tempo ancora l’insoddisfazione è stata più grande e più velenosa. Gruppi e gruppetti si chiudono senza riguardo attorno a interessi particolari, in tenaci lotte per la conservazione si fronteggiano duramente l’uno contro l’altro industrie, classi, popoli, razze, confessioni, e all’interno di ogni associazione, ancora, i singoli uomini pieni di egoismo e avidi di onori. E poiché l’uomo vede il mondo a propria somiglianza, s’immagina allora nella natura una furiosa lotta per il potere, si ritiene dalla parte della ragione se lui solo è sopravvissuto nella “lotta per l’esistenza”, si figura il mondo come una grossa macchina dove continuamente gli stantuffi battono, le ruote devono girare, affinché – ma non si capisce a quale scopo – l’energia venga trasformata, e si finisce per falsare in nome del cosiddetto “monismo”, del quale si parla tanto, l’infinita vita di tutte le stelle, asservendola alla potenza dell’io umano. Come un tempo si esaltava l’amore, il sacrificio o il rapimento divino, così oggi si afferma una sorta di religione del successo, che proclama sulla tomba dei tempi passati una fede piccola piccola già intravista da Nietzsche nelle parole che con feroce sarcasmo ha posto in bocca al suo ammiccante “ultimo uomo”: “Noi abbiamo inventata la felicità!”.
I grossolani errori di tutti questi sistemi, sette e correnti certo non dureranno molto. La natura non conosce alcuna “lotta per l’esistenza”, ma soltanto quella che nasce dalla cura per la vita. Molti insetti muoiono dopo l’accoppiamento: così poco alla natura sta a cuore la conservazione, se l’onda della vita continua a passare in forme simili. Ciò che spinge un animale a cacciarne e ucciderne altri è il bisogno della fame, e non il senso del guadagno, l’ambizione, il desiderio di potenza. Qui si apre una voragine che nessuna logica dello sviluppo potrà colmare. Mai delle specie furono infatti sterminate da altre, perché ad ogni accrescimento da una parte subito segue la diminuzione, venendo a mancare al nemico il nutrimento con un più intenso diradamento del bottino; ma il loro cambiamento si realizzò in immensi spazi di tempo su base planetaria e provocò un continuo accrescimento delle forme inferiori. Lo sterminio di centinaia di specie in poche generazioni umane non si può neppure paragonare all’estinzione dei sauri o dei mammut.
Assolutamente insensata è l’applicazione di leggi quantitative della fisica – come quella di conservazione dell’energia – ai problemi della vita. La storia non ha ancora prodotto alcuna cellula vivente, e, se lo facesse, ciò accadrebbe non per un collegamento di “forze”, ma per la vita che già contengono le sostanze chimiche. La vita è una forma capace di continuo rinnovamento; se annientiamo il qualitativo, noi lo cancelliamo, e la terra – malgrado la cosiddetta conservazione dell’energia – è per sempre impoverita tutt’intorno.
Come si è detto, tali errori spariranno; ma non così le conseguenze del concreto corso degli eventi, di cui tutti i concetti teorici sono soltanto ombre astratte. In nulla può trovare fondamento l’opinione che vuole la distruzione in corso come il risultato secondario di uno stato passeggero, a cui seguirà un’attività riedificatrice. Con questo arriviamo al senso di un processo che si suole chiamare “storia universale”.
Ci si inganna a ricercarlo nelle prestazioni dell’“intelletto puro”. Dobbiamo liberarci dalla visione troppo ingenua, secondo cui la conoscenza progredisca grazie agli scienziati e ogni successiva generazione accresca in sapienza e capacità l’eredità di tutto ciò che è passato. Il consueto pregiudizio spiegherebbe l’impossibilità per i greci di telegrafare, cablografare e radiotrasmettere con la loro arretratezza nella fisica. Ma essi costruirono templi, scolpirono statue e intagliarono cammei di una bellezza e di una finezza che non ci sono più consentite, a noi che pure fabbrichiamo i più sofisticati strumenti! Senza addurre dimostrazioni, ma basandosi sull’impressione quotidiana, essi lasciarono sistemi di saggezza che influenzarono il pensiero dell’Occidente per un millennio e mezzo, e in parte ancora oggi. L’insegnabilità della virtù in Socrate ritorna alquanto isterilita nell’“imperativo categorico” di Kant, la teoria delle idee di Platone nell’estetica di Schopenhauer, la struttura di fondo dell’atomismo in chimica deriva da Democrito! È più verosimile che non praticarono la fisica per incapacità, o piuttosto perché non lo volessero? Non potrebbe d’altra parte la loro mistica contenere più di un intuizione che noi abbiamo perduto?! Un altro esempio: all’antichissima cultura cinese sarebbero ancora oggi estranee le moderne scoperte, se non gliele avessimo imposte. Ma interpelliamo alcuni tra i suoi maggiori filosofi fioriti tre millenni e mezzo fa – un Lao-Tse o un Liä-Dsi: ci parla allora una saggezza tanto profonda che al suo confronto perfino Goethe diventa uno strimpellatore. Se i greci non praticavano la scienza, con l’aiuto della quale si costruiscono cannoni, si fanno saltare montagne, si produce burro artificiale, appare più verosimile l’ipotesi che essi non abbiano avuto alcun interesse verso ciò. Dietro la spinta alla conoscenza stanno le pretese e i vincoli degli scopi umani, e soltanto a partire da essi possiamo comprenderla. Perché potesse svilupparsi la moderna ricerca scientifica, dovettero realizzarsi quel grande mutamento del modo di pensare che è il capitalismo.
Che le brillanti conquiste della fisica e della chimica servano unicamente al capitale, per delle persone sensate è certo; ma non sarebbe affatto difficile provare la medesima finalità nelle stesse teorie dominanti. Lo specifico carattere della scienza moderna – la sostituzione di tutte le caratteristiche qualitative con pure relazioni quantitative – riproduce nella veste della sistemazione scientifica la legge fondamentale di un comando della volontà, che ha sacrificato la scintillante e variopinta ricchezza dei valori dell’anima – il sangue, la bellezza, la dignità, il fervore, la grazia, il calore, la maternità – all’ingannevole valore di quella boriosa forza che s’incarna in modo misurabile nel possesso del denaro. Si è perciò coniata anche la parola “mammonismo”; ma certo solo pochi si sono resi conto che questo Mammona è un essere reale che s’impadronisce dell’umanità come di uno strumento per annientare la vita della terra. Mi si conceda intanto ancora una parola di chiarimento.
Se “progresso”, “civiltà”, “capitalismo” rappresentano soltanto differenti aspetti di un’unica condotta, desideriamo allora ricordare che suoi rappresentanti sono esclusivamente i popoli cristiani. Solo al loro interno si accumulò invenzione su invenzione, fiorì l’esattezza – voglio dire la scienza matematica –, si affermò senza ritegno la spinta espansionistica che vuole asservire le razze non cristiane e sfruttare l’intera natura. Nel cristianesimo devono così trovarsi le cause prossime del “progresso” storico-mondiale. Certo il cristianesimo ha sempre predicato amore; ma se si osserva più attentamente questo “amore”, si troverà che questa bella parola adorna l’incondizionato “tu devi” del rispetto, che si rivolge solo all’uomo, all’uomo in idolatrica opposizione all’intera natura. Con “umanismo” o “dignità dell’uomo” il cristianesimo camuffa ciò che propriamente intende: la svalutazione dell’intera vita, all’infuori di quella utile all’uomo! Il suo “amore” non gli ha prima impedito di perseguitare con odio mortale la devozione alla natura dei pagani, e non gli impedisce oggi di liquidare con disprezzo i riti sacri dei popoli ingenui. Com’è noto, il Buddismo proibisce l’uccisione degli animali perché anche l’animale ha la nostra stessa natura; l’italiano, a cui si ponga tale obiezione quando tortura a morte un animale, risponde che esso è “senza anima” e “non è cristiano”; quindi per i cristiani il diritto ad esistere è esclusivo dell’uomo. La dottrina cristiana vietò ai suoi vessilliferi l’antica pietà religiosa, che un tempo anche conviveva con questa dottrina e ancora trova asilo nelle capanne del popolo, e fece invece in modo che si diffondesse quale forza che oscura il mondo quella terribile mania di grandezza che ritiene ammesso – addirittura comandato – il più sanguinoso delitto contro la vita, laddove si tratta dell’“utile” umano. Il capitalismo, assieme al proprio precursore – la scienza –, è in realtà un compimento del cristianesimo, la chiesa – come quello – soltanto una “associazione di interessi”, e il Monon di un costume sdivinizzato significa proprio lo stesso Uno dell’io ostile alla vita, che in nome del monoteismo dello spirito dichiarò guerra alla molteplicità infinita degli dei del mondo, ma solo oggi accoppiando a un cieco pensiero universale ciò che prima quanto meno con verità aveva contrapposto al Tutto con fare minaccioso di giudice.
Tutti quei fiori sono caduti
davanti al soffio invernale del Nord. Perché uno solo fra tutti si arricchisse dovette scomparire un intero mondo di dèi.
Ma quell’Uno, che si immaginava arricchito nel calpestare i fiori, è – come si può ora facilmente capire – l’uomo come portatore della calcolante volontà di appropriazione, e gli dèi che separò dall’albero della vita sono le eternamente mutevoli anime del mondo dei sensi da cui si è staccato. L’ostilità alle immagini, che il Medio Evo nell’intimo nutrì, dovette esternarsi non appena raggiunse la sua meta: spezzare il legame fra l’uomo e l’anima della terra. Con i suoi sanguinosi colpi contro tutte le altre creature viventi l’uomo realizza soltanto ciò che prima fece in sé: sacrificare l’essere-intrecciato nella multiformità di immagini e nell’inesauribile pienezza della vita a favore dello sradicamento senza patria di una spiritualità separata dal mondo. Egli si è inimicato il pianeta che lo partorì e lo nutrì, perfino il circolo di tutte le stelle, perché è dominato da una forza vampiresca che è penetrata nell’“armonia delle sfere” come una lancinante dissonanza. A questo punto diviene chiaro che il cristianesimo rappresenta soltanto un’epoca di un processo evolutivo molto più antico, attraverso cui un qualcosa iniziato molto prima ha improvvisamente ricevuto il proprio compimento e specialmente in Europa il proprio assetto propagandistico. La forza che attraverso l’uomo si rivolta contro il mondo è infatti tanto antica quanto la… “storia universale”! Il processo evolutivo chiamato “storia”, che conduce fuori dall’orbita dell’accadere e per cui non c’è paragone col destino di un altro essere vivente, inizia precisamente nell’istante in cui l’uomo perde la condizione paradisiaca e improvvisamente in fredda luce sta fuori con occhi estraniati, strappato all’inconsapevole accordo con piante e animali, acque e nubi, rocce, venti e stelle. Le saghe di quasi tutti i popoli del mondo ci lasciano supporre sanguinose lotte già nella preistoria tra l’“eroe solare” portatore di un nuovo ordine e le forze ctonie del destino, che devono alla fine sprofondare in un mondo sotterraneo privo di luce. Con un bizzarro ma istruttivo rovesciamento dei fatti un gesuita ha poi accusato la leggenda delle gesta del greco Eracle di essersi appropriato anzitempo della vita del redentore cristiano! Ma proprio questo è ovunque l’identico senso di quel cambiamento con cui inizia la “storia”: sull’anima si elevò lo spirito, sul sogno la veglia che comprende, sulla vita – che diviene e passa – un’attività che irrigidisce. Nel processo di spiegamento spirituale avviato nel millennio passato il cristianesimo rappresentò soltanto l’ultima e decisiva spinta, grazie a cui lo sviluppo, uscendo dalla condizione del sapere ancora privo di forza – dallo stato del “Prometeo incatenato”, che Eracle rese libero –, ora passava anche al volere e, negli atti assassini che hanno finora continuamente accompagnato i popoli storici, rivelava a chiunque non fosse cieco come una forza extramondana avesse fatto irruzione nella sfera della vita.
Aprire gli occhi su questo fatto, è l’unica cosa che possiamo fare. Dovremmo infine cessare di confondere ciò che è profondamente diviso, ovvero le forze della vita e dell’anima con quelle dell’intelletto e del volere. Dovremmo renderci conto, che appartiene all’essenza del volere “razionale” fare a pezzi il “velo di Maya”, e una umanità che si è data a questo volere è destinata a distruggere la propria Madre, la Terra, finché tutta la vita e infine se stessa siano consegnate al nulla.
Nessuna dottrina ci riporta ciò che è stato perduto. Per un cambiamento servirebbe soltanto una svolta interiore della vita, la cui realizzazione non è in potere degli uomini. Dicevamo sopra, che gli antichi non avevano alcun interesse a spiare la natura mediante esperimenti, ad asservirla alla macchina ed a sopraffarla con l’inganno; aggiungiamo ora, che essi hanno condannato ciò come empietà. Bosco e sorgente, roccia e grotta erano ai loro occhi pieni di sacra vita; dalle cime di alti monti soffiavano le tempeste degli dei – per questo i monti non vennero mai scalati, e non per l’assenza di un “sentimento della natura”! –, temporali e grandinate sopraggiungevano affascinando o terrorizzando in mezzo alle battaglie. Se i greci gettavano un ponte su un fiume, chiedevano perdono al dio del fiume per l’arbitrio dell’uomo e offrivano doni; il sacrilegio dell’albero veniva punito nell’antica Germania con il sangue. Divenuto estraneo alle correnti planetarie, l’uomo moderno vede in tutto ciò solo infantili superstizioni. Egli dimentica, che i presaghi fantasmi erano fiori strappati via dall’albero di una vita interiore contenente un sapere più profondo di tutta quanta la scienza: la conoscenza della forza creatrice di un amore che tutto tesse ed unisce. Solo se essa cresce nuovamente nell’umanità, potrebbero rimarginarsi le ferite che lo spirito le ha inflitto.
Sono passati appena cento anni, da quando – come sgorgata di nuovo in molti cuori da segrete e profonde sorgenti – ha sostenuto gli indimenticabili sogni di quei valorosi saggi e poeti erroneamente chiamati “romantici”. Le loro speranze ingannarono: la tempesta si è calmata, il loro sapere è seppellito, il flusso lentamente cessa, “il deserto avanza”. Ma, disposti come loro a credere ad un miracolo, vogliamo ritenere possibile che una futura generazione davvero veda realizzato ciò di cui Eichendorff ha così descritto le doglie – con parole da veggente – in Presentimento e presente: «Il nostro tempo mi sembra simile a quest’immenso e incerto albeggiare! Luce e ombra ancora congiunte lottano violentemente l’una contro l’altra in meravigliose masse, nubi oscure passano nel mezzo pregne di fatalità, e non si sa se portino morte o benedizione, il mondo al di sotto sta in attesa profonda e silenziosa. Comete e miracolosi segni celesti si mostrano di nuovo, fantasmi ancora si aggirano nelle nostre notti, sirene fantastiche si levano di nuovo, come prima delle tempeste, sullo specchio del mare e cantano, tutto ridesta l’attenzione, come ammonendo con un dito insanguinato ed una grande, inevitabile disgrazia. Nessun gioco leggero e spensierato, nessuna quiete lieta rallegra la nostra gioventù, come rallegrò i nostri padri, la gravità della vita ci ha colti prima del tempo. Siamo nati nella lotta e nella lotta, vinti o trionfanti, periremo. Dal fumo magico della nostra formazione prenderà figura un fantasma di guerra, armato di corazza, con pallido volto di morte e capelli insanguinati; e di questo, colui la cui vista è esercitata nella solitudine, già ora vede nei meravigliosi viluppi del vapore sorgere nella lotta e formarsi sommessamente le fattezze. Perso è colui che il tempo coglie impreparato e disarmato; e, anche se uno, debole e incline al piacere e al lieto poetare, andasse d’accordo con il mondo, dirà come il principe Amleto a se stesso: “Ahimé, esser nato per rimetter in sesto i tempi!”. Infatti ancora una volta essi cadranno nel disordine, e comincerà una lotta inaudita tra vecchio e nuovo, le passioni che ora strisciano camuffate getteranno la maschera, e il delirio fiammeggiante precipiterà con scintille nella confusione, come se si lasciasse l’inferno libero d’espandersi, giustizia e ingiustizia, entrambe le parti, si confonderanno l’un con l’altra in cieca ira…
Miracoli infine avverranno per amore dei giusti finché il nuovo e tuttavia eternamente antico sole non proromperà attraverso gli orrori, i tuoni non rintroneranno solo di lontano, dai monti non giungerà in volo la bianca colomba nell’aria azzurrina e la terra non s’innalzerà rossa di pianto, come una bella liberata in nuova gloria».
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