L’unione di magia, cabbala, scienza e filosofia nel pensiero di Pico della Mirandola può aiutarci a capire le origini storiche della differenza tra magia e scienza.
In copertina: dettaglio da The Sphere Magician, di Alejandro Colunga (1993)
(Questo testo è tratto da “Magia naturalis e scientia cabalae” di Flavia Buzzetta. Ringraziamo Olschki per la gentile concessione)
di Flavia Buzzetta
La teorizzazione pichiana della magia, tra le più interessanti ed esemplari dell’epoca umanistico-rinascimentale, si pone nel solco di una tradizione bassomedievale di pensiero magico incentrato sull’elaborazione della categoria concettuale di magia naturalis e sulla distinzione – rigorosamente netta di principio, ancorché talvolta ambigua e problematica di fatto – tra la magia naturalis, concepita come intrinsecamente lecita, e la magia demoniaca, irriducibile alla prima e rigettata come esecrabile ed illecita. Se quest’ultima, nelle sue operazioni, ricorre al malvagio potere dei demoni, la magia naturalis si presenta invece come possibilità di agire sulle strutture profonde e sulle forze occulte della natura in base ad una retta conoscenza delle leggi invariabili che la regolano, per poter conseguire legittimi benefici. La concezione della magia come magia naturalis coincide così con il tentativo di assumere la magia come scientia, come uno specifico versante della scientia naturalis che opera in conformità ed entro i limiti dell’ordine naturale stabilito da Dio. Ma essa è anche concepita, secondo un modello aristotelico, come l’ars che porta a compimento l’opera della natura, ed è considerata, secondo un modello fondamentalmente neoplatonico, come basata sulla simpatia universale che rende la natura una totalità organica di elementi legati tra loro da relazioni strutturali. Magia e natura, così, sono strettamente legate.
In Pico la magia naturalis, pensata come scientia, precisamente come pars practica della scientia naturalis (o naturalis philosophia), rientra di diritto nell’articolato organigramma universalistico del sapere come specifica disciplina sapienziale e trova il suo fondamento nella strutturazione simpatetica della natura, concepita come una totalità organica attraversata da una fitta rete di corrispondenze. La magia naturalis opera per agentia naturalia unificando e portando in atto le virtutes che in natura si trovano separate tra loro (ma potenzialmente congiungibili) ed allo stato seminale-potenziale (e dunque soggette a passare in atto). Il mago, secondo Pico, “marita il mondo”, obbedendo alle leggi che lo regolano. In tale visione, attestata in molto pensiero umanistico (ad esempio in Marsilio Ficino), se la natura è vista come regnum hominis, l’uomo, come mago, è visto come naturae ministrum, fedele servitore ed amministratore della natura, sottoposto alle sue leggi e al suo Creatore. Abbiamo così una chiara formulazione del topos rinascimentale secondo cui il mago, con la sua arte, è interprete della magia della natura.
La magia, nella sua strutturazione practica, ha un fine essenzialmente contemplativo: scoprire nei secreta naturae i mirabilia Dei e, in ciò stesso, portare a perfezionamento le acquisizioni della scientia naturalis, di cui essa costituisce la nobilissima pars. Come tale, la magia naturalis per Pico non soltanto è “filosofia”, ma, propriamente, “l’assoluto compimento della filosofia naturale”, (naturalis philosophiae absoluta consumatio), “l’apice ed il fastigio dell’intera filosofia” (apex et fastigium totius philosophiae), di una philosophia vista, si potrebbe dire, nella sua destinazione teologico-religiosa. In tale ottica, al Mirandolano appare strettamente consequenziale l’assunto che la magia naturalis conduce al riconoscimento della gloria di Dio, della quale, secondo il testo di Isaia 6:3, sono pieni i cieli e la terra, quali piani della natura su cui la magia agisce, contribuendo a rintracciarvi le meravigliose opere divine. Intesa in questo modo, la magia naturalis è quindi intrinsecamente benefica, salutare, salvifica, perfettamente lecita e conciliabile con la fede cattolica e con il culto divino. S’impongono, così, le condizioni costitutive di possibilità dell’efficacia della magia naturalis (non il ricorso al potere di entità spirituali malvagie, ma l’intervento sulle virtutes naturali); il suo autentico fine (non il conseguimento di vantaggi materiali, ma l’elevazione a Dio nell’ambito di un percorso di progressiva trasformazione morale, sapienziale e spirituale); i termini del suo esercizio (non una sottomissione della natura ad un dominio dispotico dell’uomo, ma una salutare sottomissione dell’uomo alla natura, che è da lui amministrata, e a Dio, che è il creatore delle leggi che regolano l’ordine naturale).
In tal modo, la magia naturalis è presentata come una componente basilare nell’“ordine palladico” di un percorso sapienziale di graduale ascensione dell’anima a Dio, il quale per il nostro filosofo consiste nell’emulazione della vita angelica dei Troni, Cherubini e Serafini. Emulazione articolata, secondo la gradualità di una “triplice filosofia” universale, in purificazione etico-dialettica, contemplazione filosofica, amore teologico. Secondo la mia lettura, Pico proietta la teoria della magia naturalis sullo sfondo della sua concezione dell’uomo come opus indiscretae imaginis, essere camaleontico, microcosmo dinamico che compendia tutti gli elementi del creato, creatura priva di una natura predefinita, chiamata dal suo Creatore ad autodeterminare liberamente la propria natura nell’auspicabile direzione di un’elevazione alla natura angelica e di una suprema unione mistica con Dio. L’homo pichiano è anche il magus che, nell’ambito della contemplazione filosofica della natura (la vita “cherubica”), con le sue sapienti operazioni cerca nella natura i mirabilia di Dio per elevarsi religiosamente a lui. Filosofia della natura, antropologia, magia, elevazione mistica, appaiono dunque in Pico ben coordinate tra loro.
Contestualmente a questo inquadramento della magia naturalis pichiana, avrò modo di sottolineare come questa sia concepita dal Mirandolano come una scientia inventa, cioè un sapere strutturato “scoperto” dall’uomo per via investigativa e dimostrativa muovendo dagli effetti per risalire alle cause. Una scientia basata sulle potenzialità conoscitive della ratio umana, capace, per Pico, di concorrere con la scientia revelata – la theologia nelle sue manifestazioni rivelative – a confermare le verità cristiane (un caso esemplare è la sua capacità di rendere certi, al pari della cabala, della divinità del Cristo più di ogni altra scientia inventa) ed a condurre all’amore di Dio.
-->Fondamento naturale, matrice filosofica, statuto scientifico, registro gnoseologico razionale, ortodossia cristiana, apertura teologica, destinazione religiosa sono aspetti che s’interconnettono e si rinsaldano a vicenda nella teorizzazione pichiana della magia, in cui si può vedere un tentativo di corroborazione e sistematizzazione di un complesso d’istanze delineatesi nell’ambito del pensiero medievale e coevo. Pico si associa ai suoi progenitori medievali (che egli cita anche come fonti autorevoli) nel tentativo di ricondurre e ripensare entro gli schemi concettuali e le coordinate epistemologiche della magia naturalis – considerata come disciplina “ortodossa” – una grande varietà di credenze e pratiche magiche di diverse origini e tipologie, che circolavano nei secoli medievali, spesso in modo clandestino, in ambienti colti o popolari. Strumenti ed elementi rituali delle prassi magiche quali i numeri, i characteres, le figurae, le voces ed altri sono mantenuti da Pico e cooptati nella sua visione della magia, quale disciplina in cui egli individua una molteplicità di differenti tipologie operative non sempre facilmente distinguibili tra loro e caratterizzate da interazioni e scambi reciproci, in una sorta di mescolanza delle prassi magiche che rinviano anche alla cabala.
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La magia naturalis appare in Pico strettamente legata alla cabala. Il legame tra magia e cabala, quale nota caratterizzante della pichiana “filosofia della magia”, è un tratto saliente già notato puntualmente dai suoi contemporanei. Tralasciando le considerazioni magiche e cabbalistiche contenute nei testi pichiani e la loro ricezione nella cultura umanistico-rinascimentale, si può qui ricordare come un predicatore di Santa Maria del Fiore abbia accusato Pico di aver messo in atto, insieme a Marsilio Ficino, pratiche rituali legate alla “magia naturale” e alla “dottrina cabalistica”: «Giovanni della Mirandola cercò un tempo insieme con Marsilio Ficino, in agri Caregio, et altrove di coniungere, per mezzo della magia naturale et in virtù della dottrina cabalistica, con certe loro osservazioni, profumi, la mente con Dio, fare miracoli et prophetare». Un aspetto basilare della lettura da me proposta è dato dall’individuazione di un possibile elemento centrale e unificatore che conferisce organicità, coerenza nonché specificità ed originalità alla “filosofia della magia” pichiana proprio nella pars practica scientiae cabalae, la quale, secondo una suddivisione interna pichiana del sapere cabbalistico, costituisce la parte pratico-operativa della cabala, interconnessa alla sua parte teorico-dottrinale, la cabala speculativa. Aspetto, quest’ultimo, che è in qualche misura ventilato ed adombrato da varia letteratura critica, ma che a mio avviso è meritevole di ulteriori indagini, approfondimenti e chiarimenti che provo a offrire in questo mio lavoro.
In una prospettiva più generale, nella mia indagine ritengo legittimo porre in evidenza il ruolo centrale assunto nel pensiero pichiano dalla cabala, la quale si afferma nel panorama culturale umanistico-rinascimentale, in una peculiare rimodulazione ermeneutica in chiave cristiana, proprio con la riflessione e il progetto filosofico di Pico. Il riconoscimento della centralità della cabala nel pensiero pichiano costituisce un elemento di originalità rispetto alle linee di sviluppo degli studi critico-storiografici in materia, che pure hanno generalmente riconosciuto la particolare attenzione riservata al pensiero cabbalistico dal Mirandolano. Anche nel caso della ricostruzione del pensiero cabbalistico pichiano, in questo mio lavoro procedo ad una lettura sinottica dei riferimenti a varie istanze e tematiche cabbalistiche disseminate nelle opere del Conte. Va notato infatti che negli scritti pichiani, ancorché vi siano numerosi rimandi ad elementi cabbalistici, non si riscontra una trattazione organica e sistematica della cabala, sia nel suo aspetto teorico-speculativo sia – con particolare riguardo – in quello pratico-operativo, e le uniche pagine in cui il Mirandolano delinea una sorta di presentazione generale di tale tradizione sapienziale, inquadrata nei suoi caratteri salienti, sono contenute nell’Oratio. Nella lettura che propongo, come ipotesi di lavoro suffragabile da vari elementi rintracciabili nel pensiero pichiano, la cabala, nell’ambito della pluralità delle vie “filosofiche” che conducono all’Unico Vero, si presenta come una disciplina sapienziale “totalizzante” che s’impone come culminante e dirimente, fondamentalmente preposta a fornire una “regolazione” dell’intero scibile umano.
Istanza basilare della fruizione pichiana della tradizione cabbalistica è la nota trasposizione sistematica della qabbalah ebraica in “cabala cristiana”, in un’ottica in cui la cabala, vista come la rivelazione sinaitica del senso più profondo della Legge, contiene e restituisce puntualmente nella loro verità tutte le dottrine fondamentali del cristianesimo. Il valore della cabala è così accostato a quello delle stesse Sacre Scritture, di cui essa, anzi, costituisce la chiave d’accesso privilegiata, il deposito misterico dei loro insegnamenti più nascosti. Per Pico, dunque, la cabala trasmette gli eloquia Dei ed è scientia revelata, ma è anche scientia humanitus inventa, nella misura in cui richiede una progressiva acquisizione investigativo-esperienziale dei suoi contenuti sapienziali e dei suoi specifici procedimenti metodologici. La rivalutazione e la valorizzazione del pensiero cabbalistico, basate in Pico sul paradigma ermeneutico della “cabala cristiana” si associano alla rivalutazione e alla valorizzazione della prassi magica, da lui perseguite con l’approfondimento della categoria concettuale di “magia naturale”: cabala e magia sono scientiae entrambe perfettamente compatibili con la fede cattolica e funzionali alla sua conferma e difesa, e come tali hanno pieno diritto di cittadinanza nel progetto di una sapienza universale, al di là dei pregiudizi su esse denunciati da Pico ed attribuiti ad ignoranza e confusione sul loro conto.
Da uno studio delle varie indicazioni fornite da Pico sulla cabala, emerge come questa sia da lui concepita, nella complessità del suo statuto epistemologico e nella molteplicità delle sue articolazioni interne, come un sapere “filosofico” che investe in modo radicale tutti i campi del reale. Come tale, essa appare anche come un sapere trasversale, una sorta di base teorica e di banco di prova delle altre discipline sapienziali. La cabala è scienza dei segreti di Dio, della sua Parola, delle sue Manifestazioni, della totalità del Creato. Questa dimensione totalizzante è manifesta nella pars speculativa della cabala, divisibile in revolutio alphabetaria o philosophia catholica, e in triplex Merchiava o philosophia particularis. La revolutio alphabetaria, quale arte della combinazione (ars combinandi) delle lettere dell’alfabeto ebraico attraverso la tecnica della loro rotazione, affonda le sue radici nella concezione cabbalistica che assume le lettere ebraiche come le componenti del linguaggio cosmopoietico divino, cariche di potere performativo, con le quali è strutturata l’intera realtà. La scienza/arte della combinazione/permutazione delle lettere, quale sapere ermeneutico-metodologico alfanumerico, è così una vera “filosofia universale” (catholica) basata sulla conoscenza dell’ordine (ordo) della lingua ebraica, che permette, secondo Pico, di pervenire alla norma e alla regola dello scibile. La “triplice Merkavah”, altro ambito della cabala speculativa, consiste in una tripartita philosophia particularis che riguarda settorialmente le articolazioni fondamentali della realtà secondo una sua ripartizione tipologica di fondo in tre grandi piani gerarchici.
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Anche se Pico non lo afferma esplicitamente, si può supporre che la cabala practica, presentata in termini che appaiono oscuri e ambigui, sul piano operativo si applichi agli ambiti studiati dalla cabala speculativa, alla quale dunque è strettamente interconnessa. La cabala practica può essere considerata come il fondamento e, insieme, come il coronamento della magia naturalis, dalla quale si distingue per la sua base teorica e per la peculiare modalità della sua prassi operativa. In linea con il tema della mia ricerca, nello studio della configurazione pichiana della cabala ho fondamentalmente individuato il particolare legame di quest’ultima con la magia naturalis, alla quale è esplicitamente e costantemente associata.
Per Pico la cabala practica costituisce la pars suprema magiae naturalis. Un aspetto fondamentale che illumina quest’istanza e che si rivela basilare per la comprensione del nesso tra la magia naturalis e la cabala, è quello per cui nessuna operatio magica può avere efficacia senza un annesso opus cabalae. La costitutiva dipendenza della prassi magica dalla concomitante prassi cabbalistica è dovuta alla capacità di quest’ultima di operare su piani del reale e livelli di causalità superiori a quelli su cui è capace di agire la prima, con riferimento anche alle Sefirot, ai nomi divini, alle intelligenze angeliche. L’anteriorità fondativa della cabala rispetto alla magia naturalis, pensata sullo sfondo di una metafisica di stampo fondamentalmente neoplatonico, rinvia all’assunto secondo cui nella concatenazione causale, le cause gerarchicamente inferiori (sulle quali agisce la magia naturalis) dipendono dalle cause gerarchicamente superiori (sulle quali agisce la cabala), le quali manifestano una maggiore estensione causale e agiscono mediatamente nelle prime, come costitutive condizioni remote di possibilità della loro azione; e, corrispettivamente, i piani della realtà gerarchicamente meno elevati (sui quali agisce la magia naturalis) dipendono da quelli gerarchicamente più elevati (ai quali si eleva la prassi cabbalistica), ai quali rinviano come alla loro dimensione principiale ed esemplare. Se il raggio d’azione della magia non supera i limiti della natura, quello della cabala va oltre quest’ultima, elevandosi alle virtutes di agenti soprannaturali. Ciò, in ogni caso, sullo sfondo di una visione unitaria ed organica della totalità della realtà, secondo cui i vari piani di essa, pur secondo una distinzione tra immanenza e trascendenza ed una dialettica di continuità e separatezza, manifestano una trama occulta di rapporti e di legami strutturali, e tutto è a suo modo in tutto. Termini di riferimento della prassi magica sono le virtutes naturales, quali ragioni e potenze seminali e latenti, provvidenzialmente disseminate da Dio nella natura per il bene dell’uomo “contemplativo”; termini di riferimento dell’articolata prassi cabbalistica, invece, sono delle virtutes superiori all’ordine della natura, evocabili su diversi piani e con diverse modalità operative. La corrispondenza tra piani epistemologici e piani ontologici, riscontrabile per le due discipline in questione, implica chiaramente una corrispondenza con altrettanti piani gnoseologici. Se il piano della conoscenza proprio della magia naturalis è individuabile in quello della ragione (che la magia concorre a perfezionare), quello proprio della cabala (vista anche nel suo versante pratico), invece, è individuabile nella sovraordinata dimensione dell’intelletto, quale funzione conoscitiva intuitiva, immediata, illuminante che in Pico prelude, nei suoi esiti culminanti, all’esperienza mistica sovraintellettiva. Al piano della conoscenza noetica tende la “cherubica” contemplazione filosofica, la quale, in esso e tramite esso, si sublima in amore “serafico”, a sua volta presentato come il preludio alla suprema unione mistica dell’anima con Dio.
Così, nell’indagine sul modo in cui si configurano e si rapportano tra loro la magia e la cabala nel pensiero di Pico, si rivela molto utile il riferimento ai tipi di causalità che secondo il Mirandolano interessano questi due domini del sapere, e ai diversi livelli ontologici cui questi tipi di causalità rinviano. La causalità che riguarda una specifica tipologia di cabala è una causalità immediata che fa riferimento privilegiato alla causa prima, che agisce – o può essere indotta ad agire – su ciascun livello ed ordine della realtà. Questa causa è accessibile all’intuizione intellettuale ed è termine di riferimento di un tipo specifico di operatività che è, appunto, quella cabbalistica. L’ascesi intellettuale alla causa prima determina, in primo luogo, una metamorfosi e una palingenesi nell’uomo, il quale può agire poieticamente sul cosmo e provocare dei mutamenti che non dipendono dalle virtutes naturales, bensì da realtà ad esse superiori. A differenza della cabala, che è legata in alcuni suoi aspetti all’eminentia del modus causandi della causa prima/immediata, la magia agisce con riferimento alle cause seconde, le quali, conoscibili tramite la ragione, determinano i processi di mutamento delle virtutes insite nel mondo naturale.
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Nell’ottica dell’individuazione di una teoria generale pichiana della magia incentrata sulla cabala practica quale suo elemento unificatore, si pone nella mia ricerca il problema se la cabala, così come è intesa da Pico, quale absoluta consumatio della magia naturalis, si configuri come tale in quanto sapienza cabbalistica vista nei suoi risvolti magici o in quanto pratica magica vista nelle sue connotazioni cabbalistiche, dunque se nel pensiero del nostro filosofo vada riconosciuto, nell’ambito dell’architettonica universalistico-concordistica delle varie discipline, un primato della cabala, contemplata anche nelle sue potenzialità “magiche”, o della magia, vista anche nelle sue culminanti propaggini e configurazioni “cabbalistiche”. La lettura che propongo, tenta di mediare queste due posizioni, mettendo in evidenza il concorso della magia e della cabala nella costituzione di un’organica prassi operativa che permette all’uomo di attuare le proprie potenzialità (volute e concesse da Dio) e che trova il suo pieno compimento, ma anche il suo fondamento, nella sapienza illuminante e trasfigurante della cabala. Una stratificata e progressiva prassi operativa che, nella peculiare visione antropologica prospettata da Pico nell’Oratio e sottesa alle Conclusiones, concorre a realizzare la possibilità dell’uomo di autodeterminare liberamente la propria natura nella retta direzione di una progressiva elevazione contemplativa e pratica nella scala dell’essere (le cui componenti sono tutte compendiate nell’uomo a livello seminale), concepita come ascesa che conduce all’angelomorfosi (indicabile, in termini cabbalistici, come trasformazione in Metatron) e, per il tramite di questa, all’unione mistica con Dio, visto nella sua assoluta trascendenza (cabbalisticamente, l’En sof, “l’Infinito”). Magia naturalis e cabala sono vie convergenti che conducono a Dio.
La magia naturalis e la cabala practica, nelle loro differenze e convergenze, condividono fondamenti e finalità, oltre che peculiari strumenti operativi, come le litterae, il cui uso, per Pico, può essere appropriato sia all’opus magico che all’opus cabalae. Strumenti intermedi tra quelli propri dei due saperi prassici, le litterae dell’alfabeto ebraico sembrano associare la magia naturalis e la cabala, ciascuna con le differenze specifiche che la contraddistinguono, in un’articolata “magia cabbalistica del linguaggio”, la quale sottende una concezione essenzialistica di quest’ultimo ed è incentrata sul potere performativo dei segni grafici e delle espressioni fonetiche, significative e non significative. Una magia che ha il suo vettore nella lingua ebraica, con la quale, si potrebbe dire, è “scritta” la totalità del reale. Riguardo alla riconduzione a Dio tanto della prassi magica quanto di quella cabbalistica, Pico afferma esplicitamente che ogni opus mirabile, sia esso magico o cabbalistico, va riferito in modo assolutamente principale (principalissime) a Dio, dispensatore di “mirabili virtù” agli “uomini contemplativi di buona volontà”. Dio, infatti, è la Causa assolutamente prima alla quale tutte le altre cause, naturali e soprannaturali, in ultima istanza vanno ricondotte.
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Secondo la mia lettura, la cabala appare in Pico come il fondamento e il coronamento della magia, ma anche, in una prospettiva più generale – e vorrei dire universalistica – come la pietra angolare dell’intero sistema del pensiero pichiano. Essa, nel progetto filosofico universalistico-concordistico del Conte, è un sapere tra i saperi, una specifica manifestazione del sapere universale, ma appare anche come una sorta di occulta concatenatio che lega insieme le varie articolazioni dello scibile, come il sapere che connette tra loro i vari saperi e coopera a ricondurli ad unità: l’unità del sapere universale su cui si fonda la pax philosophica che Pico vagheggiava.
Tre righe e ho smesso di leggere. Eppure l’argomento è interessante e avrei voluto approfondirlo.
Possibile che non si riesca a scrivere in un modo più comprensibile e e scorrevole?
Per quale motivo si adottino periodi lunghissimi, senza andare a capo e si usino parole poco usate nel linguaggio corrente, non l’ho ancora capito. Forse è per dare un’aria esoterica a qualcosa che potrebbe essere alla porta di tutti.