Manzoni, pandemia, mentalità paranoide e i pericoli alla fine del lockdown

Nei suoi saggi il celebre scrittore ha ben evidenziato i rischi di qualunque ideologia, anche e soprattutto di quelle che consideriamo “giuste”.


IN COPERTINA e nel testo, delle opere di Mark Ryden

di Edoardo Rialti

Se qualcuno sostiene che alcuni dei fatti sono prodotti dell’immaginazione, egli denuncia come sospetto. Quest’inquisitore credeva di poter giudicare alla semplice vista se un individuo avesse a che fare con la stregoneria o no. Costui più tardi impazzì, ma frattanto le streghe e i fattucchieri erano morti sul rogo.

Huizinga, Autunno del Medioevo

Un sorriso triste

 

Sono seduto in una delle bettole
della Cinquantaduesima strada*
incerto e spaventato
mentre scadono le astute speranze
d’un decennio basso e disonesto:
onde d’ira e paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade della terra,
a ossessionare le nostre vite private;
l’indicibile odore della morte
offende la notte di settembre.

Auden, 1 Settembre 1939

La Peste di Camus termina con un sorriso mesto che possiamo riconoscere molto bene, giacché ciò che lo causa è tutto intorno a noi. Anche adesso, dopo mesi di restrizioni e mille oscillazioni, con gambe malferme le persone si riversano fuori, si tuffano nell’aria calda dell’estate. Si vuole vivere, viaggiare, si fotografa e condivide qualsiasi dettaglio, si brandiscono aperitivi come trofei o fiaccole, si tira fuori la lingua nei selfie come chi sogghigni vittorioso dopo una carica a cavallo. Spesso chi più si sbraccia, quasi artigliasse l’aria, persino chi, in piena pandemia, sbirciava dalle finestre i potenziali eversori delle norme, lodava entusiasta le nuove prospettive della didattica a distanza, annetteva ai deliri dei negazionisti chi ammoniva sui rischi d’uno stato di emergenza perenne che paralizzi ogni linguaggio associativo o di contestazione politica. Ma un simile pendolo non costituisce niente di nuovo sotto il sole, che gli uomini deraglino tra opposti errori lo aveva già registrato Platone nella Repubblica. Pure La Peste si conclude tra i dolci delle bancarelle, i bambini che corrono tra i tavoli dei gazebo, la voglia di dimenticare tutto nella luce dorata del lungo tramonto estivo.

Ascoltando, infatti, i gridi d’allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava, che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili, e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.

È il motivo per cui, da un certo punto di vista, avverto quasi più il bisogno di leggere pagine simili adesso che nei mesi opprimenti delle chiusure, ora che i muscoli delle relazioni sociali, persino nel semplice spingersi oltre determinati perimetri della mia città, duole come un muscolo rattrappito. Quand’ero chiuso in casa avevo bisogno di ricordarmi del mare, di una collina verde su cui corrono nuvole bianche, di fumare guardando i tetti d’una città mai visitata prima, d’un concerto dove le braccia scure di tutti si agitino come le fronde degli alberi investite da una bufera. È adesso che sento di tornare alla polla di silenzio con cui Rieux osserva gli abbracci, i gelati, le risate. Per avere parole e immagini con cui guardare al fiume più o meno sotterraneo dei nostri disastri. 

 C’è un testo che tutto questo l’ha fissato con persino maggiore ampiezza e profondità, e contiene, senza che sia in alcun modo separabile dalla sua forza narrativa, un’analisi e un giudizio che ritengo assolutamente fondamentali per quanto stiamo attraversando, come individui e comunità, in questi stessi mesi. Una di quelle opere che è tanto più citata quanto meno letta – destino non dissimile da quello subito da Pasolini, Orwell, Tolkien – e al tempo stesso distorta da decenni di addomesticamento e banalizzazione che l’hanno inchiodata a fraintendimenti e insofferenze. Proprio perché se n’è voluto fare un monumento della nostra vita civile, la si è mummificata, invece, come ricordava Edoardo Sanguineti, andrebbe gustata come merce di contrabbando. Si tratta de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

Quasi minchione

 

Meticolosa erudizione può 
esumare l’offesa tutta intera che,
da Lutero ad oggi
ha spinto una cultura alla pazzia,
scoprire quello che successe a Linz,
che smisurata imago fabbricò
un dio psicopatico.

Le grandi opere sono sempre degli spazi che ci fasciano e superano, un crocevia interiore al quale tornare per ritrovare una certa nota, una voce, una prospettiva da cui guardare tutto ciò che non scoveremmo altrove. Sono anche un appuntamento con la nostra storia personale, giacché non credo di essere l’unico per cui rileggere un libro voglia anche dire tornare a dove e quando lo incontrai e percorsi per la prima volta, ai sentimenti e pensieri dell’uomo che ero in quel momento. Certe volte penso che uno dei motivi davvero giusti per far leggere certi classici particolarmente complessi già alle medie – i sonetti di Foscolo o i canti di Leopardi – sia che poi, ogniqualvolta riprenderemo quelle pagine, magari più capaci di apprezzarle davvero, sarà anche un appuntamento con un io perennemente più giovane. Per me, aprire nuovamente Manzoni vuol dire tornare sempre all’estate dei miei diciassette anni, a Seefeld in Austria, a una sdraio sulla terrazza di legno che guardava sulla valle e le montagne, nel primo pomeriggio. Da allora ci sono tornato spesso, attratto per diversi motivi e da diverse prospettive, che nel tempo si stratificano senza smarrirsi del tutto, anche quando sono profondamente cambiato. Già allora la sua vasta architettura, la profonda solidità di un mondo morale solido e buono come le sue panche di legno e tozzi di pane – non l’unico tratto in comune col Signore degli Anelli di Tolkien – la cortesia formale che accomuna poveri e gran signori, il suo umorismo e la sua capacità di scrutare le inquietudini e le ambiguità che si annidano in qualunque storia, mi facevano riposare e respirare come una vasta cattedrale di senso. Capisco bene Gadda che se lo faceva leggere al capezzale da amici come Arbasino, e piangeva. 

E anche oggi che, da ateo, rifiuto il convincimento manzoniano che la storia personale e collettiva, anche quando si sfracella sugli scogli della tragedia, partecipi di un disegno provvidenziale per cui ogni tristezza e lacrima sarà un giorno asciugata, non sento affatto che un simile sguardo si consoli in un facile quietismo perbenista. Quella stessa solidità e limpidezza cui accennavo sono come una neve da cui si cancellino le orme spazzando dietro le spalle, un’elaborazione complessa e sottile, un camuffamento perché lo stile risulti quanto più aderente alla cosa stessa e si scrolli di dosso la distorsione di ogni retorica. Fu, in un contesto del tutto diverso, la stessa ambizione di Dante, abbracciare la lingua delle mulierculae, le donnette di strada. Questa pulitura stilistica è una sfida conoscitiva, espressiva ed etica, perché invece l’autocompiacimento pomposo in letteratura è sempre espressione di una opacità di pensiero. Come notò già il sodale di Leopardi, Pietro Giordani, Manzoni “ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi minchione.” E lo stesso Gadda, molti anni prima di quelle ultime letture al capezzale, in piena retorica fascista tesseva l’elogio di chi invece “volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la rocca trombazza di un idioma impossibile, che nessuno parla, (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio. Egli volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare.”

Scommettiamo? La violenza dei potenti e delle anime belle.

 

L’esiliato Tucidide sapeva
tutto quello che può dire un discorso
sulla Democrazia,
e quello che fanno i dittatori,
le sciocchezze senili che pronunciano
a un apatico sepolcro.

Il problema della lingua, il portato delle parole, la loro responsabilità nel rischiarare i rapporti sociali o annebbiarli, è uno dei grandi leitmotiv del romanzo, e già una delle prove della sua grandezza perenne. Basti pensare allo Scommettiamo? con cui Don Rodrigo imposta una sfida machista col cugino Attilio, vedendo Lucia che cammina per strada, sicuro di portarsela a letto presto e che non si farà scrupolo di stravolgere la vita due ragazzi. Quando poi verrà chiamato a renderne conto a Fra Cristoforo, il signorotto locale reagirà con quella evasività passivo-aggressiva che ancora oggi costituisce una cartina di tornasole per stanare tutti coloro che fanno leva sul proprio potere e prestigio, anche intellettuale o artistico, per prendersi ciò che non è loro. Basta applicarle allo scrittore che voleva portarti al letto per farti pubblicare, al politico di destra che ritratta un tweet razzista, all’attivista che ti chiede una dedizione mafiosa in qualche macchina del fango

Le sue parole, io le ho intese, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte penetrano e sfuggono. Egli può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e nello stesso tempo farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e domandar ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile

E poi c’è la grande questione della manipolazione del linguaggio medesimo, l’imposizione di termini sconosciuti ai più e che consentono di velare le ingiustizie e gli abusi sociali. All’epoca era il latino – soprattutto di ecclesiastici e notai – oggi che la mentalità chiesastica si è estesa alle grandi corporazioni consumistiche, si tratta dell’inglese della finanza, dei social media e dei governi:

Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a tradimento, nel buono d’un discorso. Per esempio, ora che siam qui, che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva dell’altre cose, e che so io? me lo volti un po’ in volgare ora.

Manzoni è stato spesso ridotto a santino d’una borghesia liberale, certamente sostenitrice della causa risorgimentale ma ultimamente conservatrice, nemica di ogni autentica rivoluzione sociale. Eppure è proprio lui a far sentenziare ad Agnese che i poveri ci vuol poco a farli apparir birboni, specialmente quando rivendicano pane e giustizia. E proprio il cattolico convertito ha raccontato i perfidi raggiri con cui la cultura patriarcale e l’ipocrisia religiosa hanno mutilato le autentiche inclinazioni di generazioni di giovani, specialmente ragazze. È così facile manipolare gli adolescenti, bisognosi come sono di sentirsi visti, capiti, e quelle antiche coercizioni-antiche per noi, e solo in parte-sono ancora più palesi oggi nelle ondate che si abbattono loro sui social:

Ci son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda. 

Tuttavia Manzoni è troppo acuto, troppo corrosivo e inflessibile col suo stesso universo interiore per non cogliere la violenza che si annida non solo in cavalieri prepotenti, notai e preti vigliacchi, religiose ipocrite, ma anche in chi si ritiene buono e giusto e in perfetta e brutale buonafede brandisce i concetti più nobili come fossero clave per esercitare solo un’altra forma di snobismo camuffato. È il ritratto al vetriolo della benefattrice Donna Prassede, zelante e prodiga di aiuti e consigli, e che ancora oggi strappa un sogghigno amaro come perfetta incarnazione del progressismo di sinistra. Sostituite la religione e i buoni costumi della morale tradizionale col femminismo, le battaglie per i migranti o i diritti LGTBQ, ed ecco l’ennesima fata madrina che pretende assoluta obbedienza dai propri pupilli.

Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionataTutto lo studio di donna Prassede era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, che era di prendere per cielo il suo cervello.

Il Selvaggio Signore

 

Assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma che afferma.

Sono tutte declinazioni diverse della mediocrità, e al netto degli apparati esterni, dello sfarzo orgoglioso o degli atteggiamenti servili, non c’è soluzione di continuità tra don Rodrigo e don Abbondio, tra i cavilli dell’Azzeccagarbugli all’edonismo languido del conte Attilio, o ai sorrisi mielati della madre badessa che si accorga col padre di Gertrude. Una delle intuizioni più significative di Manzoni è che a tutto questo non si contrappone solo il coraggio dei poveri e dei santi, anonimi come Cristoforo o celebri come il Cardinale, ma pure l’autentica, eroica malvagità. Anch’essa è un esercizio della volontà che ha la forza di scardinare i vincoli e i meschini accomodamenti con cui le vite dei singoli e della società vanno avanti per forza d’inerzia. La maggior parte dei bruti sono solo dei codardi, che hanno bisogno della religione e dello stato al pari di tutti gli altri. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata

C’è invece chi cova dentro di sé una forza capace di sfidare tutto e tutti, il bene e il male. Nella prima metà del romanzo incontriamo solo personaggi frustrati nelle loro aspirazioni: Don Abbondio, Renzo, Lucia, la Monaca di Monza, persino lo stesso Don Rodrigo, il popolo di Milano. Nessuno di costoro ottiene ciò desidera. Ed ecco improvvisamente comparire uno dei più grandi malvagi della letteratura italiana, un uomo così grande da aver sempre ottenuto ciò che voleva, il cui braccio corrisponde a ciò che per la maggior parte di noi è solo desiderio, l’Innominato, introdotto significativamente con una serie di verbi all’infinito, come taluni teologi credevano si dovesse parlare di Dio:

Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui

Il maniero di Don Rodrigo ha due avvoltoi crocifissi sui battenti, al tempo stesso monito e involontario squallido stemma araldico, mentre la valle che è plasmata dal dominio dell’Innominato costituisce a sua volta un’estensione plastica della sua opposizione agli uomini e al Dio degli inermi e dei potenti, su cui volteggia tutt’altro uccello da preda: Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Certo, qui Manzoni sta cercando di esorcizzare e poi battezzare la grande ombra di Napoleone e del tiranno prometeico che non teme né uomini né dei, il brigante satanico del Romanticismo, la gloria di un gran disegno, la sua fiamma cupa, che egli teme proprio perché la sente viva e grande. Quel che conta però, a dispetto dell’esito narrativo per cui il tenebroso signore si convertirà – esattamente come il suo creatore, che al pari del personaggio è l’altro innominato del romanzo – è che decenni prima di Nietzsche, in quello che viene spacciato come un romanzo pietistico e consolatorio, viene raccontata la forza e la verità che si ottengono in una così pura ascesi della delinquenza, come la commentò Cristina Campo, quel fuoco che non si piega e permette a certi uomini di essere sempre e comunque ferocemente sé stessi, capaci di generosità e violenze che alla maggior parte risultano irraggiungibili, iscritti come sono nel cerchio della morale comune: Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro

 

Muoia il falso, muoia veloce

 

Egli analizzò tutto nel suo libro,
la ragione messa al bando,
la sofferenza che si fa abitudine,
malgoverno e angoscia:
tutto questo ci è inflitto un’altra volta.
In quest’aria neutrale
dove ciechi grattacieli usano
tutta la loro altezza a proclamare
il vigore dell’Uomo Collettivo

Tutto questo serviva da cornice, per quelli che sono gli autentici temi centrali di questo saggio: l’analisi manzoniana di come si diffondono povertà, carestia e malattia e alcune delle reazioni più facili e pericolose a tutto questo, dinamiche che abbiamo visto riemergere a caratteri cubitali in questi ultimi anni ma che vengono da molto lontano, e continueranno ad accompagnarci nel futuro. 

Come scriveva lui stesso le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. Anzitutto la crisi economica, alimentata da incuria, sperperi, ambizioni militari, concessioni alle voci più rumorose dell’opinione pubblica. Poi eccola esplodere e mandare tutti gambe all’aria e quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta. Si corre ai ripari, si rappezza quel che si può, spesso con misure draconiane che peggiorano la situazione, mentre tendenze opposte mirano anzitutto a cavalcare l’onda dell’indignazione generale, un mare i cui cavalloni possono essere spinti in direzione diverse dal vento della demagogia. L’analisi che Manzoni fa delle folle del Seicento non è lontana dalle nostre giornate: basta aprire un qualsiasi social media per esporsi esattamente le stesse dinamiche, “mi piace” e “devi morire stuprata” che cercano di vociarsi gli uni sugli altri, tempeste vitrioliche che poi esplodono impalpabili come bolle di sapone: Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato?

È una lotta all’egemonia che non riguarda solo troll in malafede e retori populisti, di qualsivoglia matrice. Ancora una volta Manzoni sa che persino i benintenzionati e progressisti possono essere pienamente conniventi con questa nube retorica, fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.

E in tutto questo, ovviamente, a farla franca e magari persino a essere portati sugli scudi sono i politicanti che per primi hanno aggravato la crisi: L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Se qualcuno poi si azzarda anche solo a sollevare qualche obiezione diventa immediatamente un nemico della collettività, magari al soldo di qualche agenda occulta: Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer! 

Era ordita da un pezzo – Il complotto eterno

 

Ogni lingua versa a gara
la sua scusa vana:
ma chi può vivere a lungo
in un sogno euforico;
guardano dallo specchio in fissità
il volto dell’imperialismo
e il sopruso internazionale.
Visi lungo il bancone
s’aggrappano al loro giorno medio:
le luci non devono mai spegnersi,
la musica deve continuare,
tutte le convenzioni cospirano
perché questa fortezza assuma in sé
l’arredamento di casa.


I poteri forti, i poteri occulti, appunto. Il desiderio di incanalare le contraddizioni dell’universo, il miscuglio di opacità e inadempienze, effettivi concorsi di colpe e mera casualità, dando loro la forma rassicurante dell’altro e del nemico di turno, è uno dei processi mentali costanti degli esseri umani, studiato da Popper e Eco. Proprio perché l’uomo è un animale razionale, è sempre in cerca di un agente razionale negli eventi che lo circondano e toccano, e al contempo l’istinto di conservazione e il tribalismo gli fanno costantemente scrutare le forze che governano la sua esistenza in cerca di nemici che abbia già identificato e sappia come gestire. Come ha scritto Giuliano Santoro Si tratta della costante del rifiuto della modernità: «Il mondo cambia e io non so come interpretarlo». La grande paura della Rivoluzione francese, della nuova era che andava inaugurando, generò l’antisemitismo e poi i Protocolli dei Savi di Sion, che sono la matrice di ogni racconto cospirazionista. Gratta gratta e dietro ogni complotto spunteranno gli ebrei, intesi come esponenti per antonomasia di una cultura globale ante litteram e meticcia. La cultura di destra e conservatrice, persino quando trionfa alle elezioni e governa, continua sempre a proporsi come una fiammella minacciata dalla bufera di un’altra egemonia culturale, il Deep State che minava l’agenda Trump, le lobby gay o antirazziste….  Le chiacchiere da bar sulle regie segrete dietro gli sconvolgimenti pubblici, con tanto di prove irrefutabili annesse, sono un fiume che scorre costante nelle nostre interazioni sociali, basate in misura così fortemente sul pettegolezzo (al riguardo si legga Da animali a dèi di Y. Harari): gesuiti, ebrei, massoni, miliardari che finanziano l’immigrazione clandestina, dietro ciò che non ci piace c’è sempre qualcuno che non ci piace. 

“E,” continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, “ l’era ordita da un pezzo: c’era una lega, sapete? ”“C’era una lega?”“C’era una lega. Tutte cabale ordite da’ navarrini, da quel cardinale là di Francia, sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto, tende a far qualche tiro a Milano; perchè vede bene, il furbo, che qui sta la forza del re. ” “Già.”“Ne volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano in giro facce, che in Milano non s’eran mai vedute.

Anche le contorsioni e proiezioni più raffinate del nostro cervello hanno radice in qualche moto biologico. Siamo primati cresciuti con l’abitudine a perlustrare il mondo in cerca di altre intenzionalità, amiche, indifferenti o ostili, e agire di conseguenza. Imbrigliamo il mondo che fruscia e ringhia in sequenze matematiche, scorgiamo volti nelle nubi, facciamo sacrifici rituali. Come scrisse il filosofo dell’evoluzione Daniel Dennett questa capacità ha una funzione economica, ovviamente. Se sobbalzi a ogni movimento percepito, diventa difficile non trovare qualcosa da mangiare. Al tempo stesso, questo istinto basilare ha generato in noi quello che Justin Barrett chiama un Sistema di riconoscimento di agenti iperattivo, alla base dei divieti religiosi e della mentalità paranoide. E il complotto supremo, la minaccia che sempre si annida agli angoli oscuri della mente, tocca nodi atavici, timori preistorici, e continuamente ci espone alla paura di mostri, e umani servitori di mostri, che per trame malevole mirano a sottrarci i beni essenziali per la nostra sopravvivenza e riproduzione: la salute e i bambini.

Caccia all’Orco

 

Affinché non si veda dove siamo,
perduti in un bosco di fantasmi,
bambini paurosi della notte,
che non sono mai stati allegri o buoni.

Quando il caos che insidia la nostra vita da tutte la parti improvvisamente esplode in barba ai raggiri e alle tregue che sappiamo imporgli, relegandolo in angoli del mondo dove le conseguenze delle nostre azioni non ci bussino direttamente alla porta, la mente umana fa di tutto per rimandare il confronto, per negarlo. Quando la realtà non coincide con ciò che vorremmo da essa, la si nega.  Ecco come si propagano i disastri, i contagi: Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, nè ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Poi, quando la pressione comincia a farsi pressante, scatta l’avversione e la denigrazione verso chi denuncia il problema e viene considerato al tempo stesso un guastafeste e un falsario, al soldo dell’ennesimo sistema occulto: Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento. Persino le voci più stimate nello spazio pubblico, se  anche solo si discostano con un distinguo da ciò che consente alla massa di crogiolarsi nelle proprie infantili certezze, vengono denigrate e sommerse di insulti: Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non potè salvarlo dall’animosità e dagl’insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.

 Per non scontentare nessuno dunque si esita, e ancora una volta la vigliaccheria intellettuale si incarna in un lessico volutamente vago, incapace di guardare in faccia i fatti e chiamarli col loro nome: I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. 

Puntelli e dinieghi in fin dei conti possono solo rimandare e aggravare il confronto, ma persino quando non è più possibile evitarlo, anziché avanzare faticosamente nel pantano grigio delle nostre responsabilità, la mente umana preferisce scattare a individuare un colpevole, una categoria, un capro espiatorio cui addossare tutto o parecchio biasimo. Gli stessi che prima negavano, improvvisamente brandiscono lo stato di emergenza per farne uno stato di eccezione, in cui ridurre i diritti, rafforzare ghetti identitari, contrapporre categorie. Come ha scritto Naomi Klein molti che attualmente sostengono di negare il cambiamento climatico semplicemente passeranno bruscamente alla sinistra visione del mondo sposata dal killer di Christchurch, nel riconoscimento che stiamo davvero affrontando un futuro convulso e che ciò costituisce una ragione in più perché i paesi ricchi a maggioranza bianca fortifichino i loro confini.

Così avveniva anche nella Milano della peste: In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Quanto più grave è la crisi, più facile è che la nostra perenne impostazione magico-religiosa tiri fuori dal cilindro i baubau con cui spaventiamo i bambini.

Come scrisse Leopardi in quegli stessi anni (Pensieri IV), basta un panno che si agiti a una finestra perché la città più moderna d’Italia, Firenze, si metta a urlare “Fantasima!” Non importa con quali giocattoli tecnologici ci circondiamo, in uno schiocco di dita eccoci di nuovo a confabulare nella nostra caverna, cercando di capire chi sia la strega o l’orco in mezzo a noi. Eccoci a cercare i satanisti e i pedofili, i rapitori di bambini, gli untori: Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe.

Tutto questo non sono superstizioni lontane nel tempo e neppure nello spazio: in piena pandemia abbiamo visto Stella Immanuel, una dei medici della Casa Bianca spiegare che il Covid era dovuto a uno sperma diabolico diffuso da demoni e streghe ( https://globalnews.ca/news/7229174/coronavirus-demon-sperm-doctor-trump/). E su scala minore anche sui giornali italiani abbiamo assistito a una staffetta di colpevoli: gli asiatici prima, poi i biechi imprenditori del nordest, e poi ancora i terroni che volevano scappare a casa per le zucchine ripiene della nonna, eppoi ancora i runner, i ragazzi che sfidano il coprifuoco per ritrovarsi a fumare e pomiciare, la movida… di qui il gusto perverso dello spionaggio, della delazione, l’eccitazione per l’improvviso piccolo potere di scrutare e additare, fare il proprio dovere per la comunità minacciata.

Come ha scritto estesamente WuMing 1 in La Q di Complotto e su Giap, le fantasie di complotto costituiscono un enorme servizio reso allo status quo, forniscono un bersaglio talmente vasto da essere irraggiungibile, tutt’al più convogliando la rabbia verso soggetti totalmente incolpevoli e inermi, aumentano le divisioni sociali e impediscono di contestare le scelte sbagliate di governi e istituzioni, fanno sparire le autentiche responsabilità e mire lucrative – che ci sono state eccome anche in questa pandemia – e consentono di chiudersi semplicemente a riccio nel proprio piccolo mondo ideologicamente in pace, fanno sembrare l’egoismo altruismo, perché quanto temuto come minaccia individuale viene esteso alla propria comunità di appartenenza. Come scrisse Enrico Manera ogni complotto assume una straordinaria forza d’impatto sulla società e sulle azioni politiche dei suoi attori: a partire dalla fine dell’Ottocento in Europa giudei, frammassoni, stranieri, anarchici e comunisti sono gli elementi della nebulosa cospirativa che costituirà il prototipo del nemico interno. Rispetto al quale la destra reazionaria e quella fascista, al potere, vorranno contrapporsi frontalmente per rassicurare la grande e piccola borghesia spaventata: con il paradosso che l’intrigo, la segretezza e la manipolazione attribuite al nemico sono invece i tipici modus operandi del loro agire, come nel caso dell’invenzione dei Protocolli dei savi di Sion, com’è noto un falso prodotto negli ambienti dell’antisemitismo per diffondere odio contro gli ebrei.

Le esplosioni a grappoli di paranoie sataniste, dagli USA alla Bassa Modenese raccontata in Veleno – sempre unite al timore atavico per i cuccioli, i bambini – consentono di raggruppare in un unico spauracchio tutti gli atteggiamenti che consideriamo devianti, tutti i timori morali, economici, identitari; persino laddove ci siano effettivamente problemi, abusi, questi spariscono in un mare d’inchiostro, vengono deformati e ingigantiti, non li si può più affrontare effettivamente aiutando tutte le parti coinvolte. L’ansia di ricacciare le colpe fuori da noi, incarnandole in qualche reo sul quale proiettare le nostre paure e avversioni, e la santificazione dell’accusa che costituisce una delle tendenze più pericolose della società moderna (incapaci come siamo di passare dal clima omertoso a difesa delle violenze senza precipitare nell’errore opposto) generano un clima oppressivo che mira, come avrebbe scritto poi Orwell, alla confessione dell’innocente stesso, dove i fatti perdono il loro statuto di realtà e tutto, persino le punizioni e i riti di espiazione, diventa preferibile alla tortura fisica e psicologica. I verbali dei processi agli untori, riportati da Manzoni nella Colonna Infame che voleva in appendice al romanzo, terminano con un grido di resa che a sua volta conosciamo fin troppo bene, che il supposto colpevole che nega le accuse sia effettivamente incarcerato o anche solo esposto alla gogna dei social: Questa non è causa sufficiente, gli dissero. Supplicò d’esser lasciato giù, che direbbe la verità! Fu lasciato giù, e disse: La verità è che il Commissario non ha pratica alcuna meco. Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle spietate istanze degli esaminatori, l’infelice rispondeva: V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò: la risposta di Filota a chi lo faceva tormentare, per ordine d’Alessandro il grande: dic quid me volis dicere; e la risposta di chi quant’altri infelici. Dirò quello che volete.

Menzogne e violenza si alimentano a vicenda, come scrisse Solzenycyn, e più ci si addentra in esse più la nebbia, le manipolazioni e le dimenticanze diventano indispensabili.  Persino quando le accuse sono sbugiardate, è pressoché impossibile che la società si assuma la responsabilità di un effettivo risarcimento, di una piena assunzione di colpa, perché questo chiederebbe di smantellare un intero sistema, rafforzato dal plauso popolare, che è in grado di assorbire ogni urto e proseguire imperterrito col prossimo caso esplosivo: il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati. E in quanto a quello che sia passato nel cuor de’ giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l’evidenza? E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che mai; giacché, se prima il riconoscerli innocenti era per que’ giudici un perder l’occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi terribilmente colpevoli; e le frodi, le violazioni della legge, che sapevano d’aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma sarebbero comparse come produttrici d’un orrendo assassinio. Un inganno finalmente, mantenuto e fortificato da un’autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che su quella de’ giudici medesimi: voglio dire l’autorità del pubblico che li proclamava sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.

Brucerete Saturno? Le supercazzole degli intellettuali

 

La più ventosa roba militante 
che Importanti Personaggi strillano
è meno rozza di quel che vogliamo.

Al negazionismo e ai fenomeni paranoici nelle situazioni di sconvolgimento dal basso corrisponde l’irrisione intellettuale dall’alto, i distinguo con cui sedicenti intellettuali negano a loro volta la complessità dei problemi e delle responsabilità e guardano ai complottismi da social come a versioni semplicemente più rozze delle loro raffinate teorie, magari brandendo alcuni concetti degli autentici movimenti di protesta autoproclamandosi gli autentici progressisti, i veri eredi dei filosofi di sinistra, pensatori controcorrente, per poi deporre con un bel salto carpiato le proprie armi ai piedi del conservatorismo di destra e delle sue ricostruzioni mitologiche. La differenza tra il complottismo dall’alto o dal basso talvolta sta solo nella sua gittata. L’intellettuale complottista comprende la protesta degli utenti anonimi del web in quello che considera un quadro più vasto, che egli solo è in grado di additare alle masse incolte.  Ecco un tipico passaggio di Diego Fusaro sull’ordine medico mondiale: Gli alfieri del verbo multiculturale della monocultura del capitalismo assoluto convincono le plebi in fase di pauperizzazione materiale e di postmodernizzazione immateriale circa il carattere progressivo dell’abbandono di ogni identità. Lo fanno per favorirne la sussunzione integrale sotto il nuovo ordine mondialista no border. Supercazzole pseudo-marxiste che non fanno fatica a sostenere i deliri veggenti Antonio Socci sull’Anticristo, le urla di Sgarbi contro le mascherine o la trasposizione europea delle congiure sataniche a la Q diffusa da Meluzzi. Ancora una volta, niente di nuovo sotto il sole. Manzoni aveva raccontato lo scherno con cui il vuoto intellettualismo di Don Ferrante si faceva beffe delle spiegazioni mediche della peste, e arrivava coinvolgere nientemeno che l’ordine universali delle costellazioni. 

Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorchè vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi. “La c’è pur troppo la vera cagione,” diceva; “e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?” Ovviamente tutte i suoi sorrisi sardonici non gli impediranno di crepare prendendosela con le stelle, come un eroe del Metastasio.

 

Chi resta in piedi per ultimo

 

Dalla conservatrice oscurità
verso la vita etica
arrivano gli ottusi pendolari,
ripetendo il voto mattutino:
“Voglio essere fedele a mia moglie,
m’impegnerò di più sul lavoro”,
e i governanti inetti si svegliano
riprendendo il loro gioco obbligato:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare ai sordi,
chi può parlare per i muti?

Queste oscillazioni tra opposti errori, che spesso formano delle catene viziose che si alimentano a vicenda, sono una costante tragica delle nostre esistenze, manifestandosi ora a caratteri cubitali, ora in tante tenui sfumature quotidiane. Ossessioni e superstizioni sopravvivono e si diffondono al pari di qualsiasi altro meme, solitamente anzi con una capacità competitiva e di adattamento assai migliore dell’analisi razionale e dell’altruismo (Dawkins, Il gene egoista, soprattutto Cap XI). Per Manzoni non è difficile rispondere perché. Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.

Eppure in qualche modo se ne esce. La pioggia cade, la siccità si esaurisce, la peste si ritira. Si può riprendere a uscire, a lavorare, a sposarsi persino. La promessa del titolo si compie. Ma non si torna indietro. È un altro dei grandi assi in comune col Signore degli Anelli di Tolkien, il romanzo di Manzoni è senza idillio, come scrisse Ezio Raimondi. Si prova a tornare laddove fummo strappati, geograficamente, emotivamente, ma non è possibile, non più di quanto si possa dondolare sull’altalena di quando eravamo bambini ed essere compiutamente felici come allora. Il bene di prima, i progetti di un tempo non bastano più.  I due protagonisti esprimono tutto questo con un trasloco, persino poco lontano, ma espressivo comunque di questa irrequietezza: l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene. E pure così, il narratore non si fa illusioni, ché del dolore, ce n’è, sto per dire, un po’ per tutto. Ancora una volta, la nostra mente, così avversa al grigio e agli scossoni, cerca un piano su cui puntellarsi, cavare all’universo un sistema di credenze e comportamenti grazie ai quali evitare la prossima crisi.

È la lezioncina in cui Renzo si profonde nell’ultimo capitolo, da bravo e posato cittadino che crede di aver scoperto una lezione che si può proiettare sulla vita di tutti: Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire.  È un elenco che potrebbe comparire al termine di Pinocchio, o in qualche pistolotto di Cuore: “Ho imparato,” diceva, “a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere.” E cent’altre cose. Tale precettistica è solo una coperta per mascherare le nostre insicurezze, uno schema che si ha bisogno di imporre agli altri per confermarsi nelle proprie piccole misure, svendere le braccia in un nuovo spazio, più largo magari, ma sempre in cerca di mura e confini. Siamo stati riempiti di consigli in queste due anni. Non c’è bisogno di sottolineare l’ironia che percorre tutto il brano, mostrando l’infantilismo compiaciuto di ogni borghesismo, per capire che Manzoni, padre della patria risorgimentale, non la pensa così, e tramite la sua Lucia dà voce a un interrogativo esistenziale molto più vasto e inquietante:

Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.

Fra Cristoforo e Don Rodrigo muoiono, Gertrude confessa il suo delitto, l’Innominato si converte, Renzo e Lucia si trasferiscono. C’è solo uno che non si muove e alla fine del romanzo risulta identico a come l’abbiamo incontrato nelle prime pagine, e continua a passeggiare nei medesimi luoghi. Don Abbondio, festoso per la morte dello stesso Don Rodrigo che aveva servito con avversione e puntiglio: – Ah! è morto dunque! è proprio andato! – esclamò don Abbondio. – Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine per certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. E stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa;

La peste, una scopa. Non è un ragionamento dissimile da quello delle grandi compagnie internazionali e dei politici che tessono gli elogi potenziali della shock therapy delle catastrofi, ma anche dei piccoli grandi guru che vogliono spiegare a tutti come la pandemia possa renderci migliori. Questo non vuol dire che da una crisi non si possa e debba trarre dei moniti per progredire, il punto è che si tratta sempre di sguardi invincibili, che non si sono fatti davvero colpire dallo scarto tragico connesso a ogni passo autentico dell’esistenza, a ciò che resta inevitabilmente indietro, a ciò che non si recupera più. Niente di quanto è successo li ha davvero toccati, rendendoli al tempo stesso più forti e più vulnerabili, più aperti alle contraddizioni e quindi alla pietà e immedesimazione. Il mondo è uno spettacolo allestito per confermarli nel sentirsi sempre angariati, mai valorizzati appieno, speciali, meritevoli di una protezione particolare, perché la loro felicità è un dovere.

Ah! – diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: – se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male.

Per questo, come avrebbe notato un grande erede delle inchieste di Manzoni, Sciascia, vede nei Promessi Sposi come una terribile storia nera sulle miserie dell’italiano medio, al termine della quale una sola figura si staglia vittoriosa sui marosi dell’esistenza:

Ed è dietro questa sua apoteosi che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano. Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di lettura dell’opera si chiese: perchè Renzo e Lucia se ne vanno ormai che tutto si è risolto felicemente per loro? Non seppe trovare risposta. E pure la risposta è semplice. Se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a Don Abbondio e al suo sistema; a Don Abbondio che sta lì vivo, vegeto, su tutto e su tutti vittorioso e trionfante nelle ultime pagine del romanzo. Dalla vicenda il suo sistema è uscito collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo

Un’egoistica passività etica e conoscitiva, e un narcisismo camuffati da elogio del quieto vivere, pronti a inchinarsi al nuovo potere, sparlare liberamente di chi si era adulato fino a ieri, capaci di reggere nello stesso piatto le fantasie più selvagge con l’obbedienza ligia a qualunque imposizione, preoccupandosi solo di strappare quanto più benessere individuale. Davanti al Cardinale che gli rimprovera di aver aiutato il potere a opprimere due ragazzi, don Abbondio domanda esterrefatto cosa mai avrebbe potuto fare. E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo. Può sembrare un’ovvietà, e invece è l’unica autentica sfida. Il Sistema Don Abbondio si basa sulla medesima ossessione sanificante che è solo la traduzione al tempo del Covid del culto del benessere. Non c’è spazio per alcuna compromissione (leggi: alcun contagio). Siccome non amano niente e nessuno, credono di amare Dio, scrisse Peguy. Qualunque sia il Dio preferito agli amori sporchi e concreti di questa nostra esistenza.

Tutto quello che ho è una voce
che smuova la menzogna nascosta,
la menzogna romantica annidata nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la menzogna dell’Autorità
i cui palazzi palpano il cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste mai da solo;
la fame non consente scelta
al cittadino o alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.


EDOARDO RIALTI (1982) È TRADUTTORE DI LETTERATURA ANGLO-AMERICANA E LETTERATURA FANTASY, SCI-FI, HORROR, PER MONDADORI, LINDAU, GARGOYLE, MULTIPLAYER. TRA GLI ALTRI HA TRADOTTO E CURATO OPERE DI J.R.R. MARTIN, C. S. LEWIS, J. ABERCROMBIE, P. BROWN, O. WILDE, W. SHAKESPEARE. E’ COLLABORATORE DE “IL FOGLIO” DOVE SI OCCUPA DI CRITICA LETTERARIA E HA SCRITTO LE BIOGRAFIE A PUNTATE DI J. R. R. TOLKIEN, G. K. CHESTERTON, C. S. LEWIS, C. HITCHENS. HA INSEGNATO IN ITALIA E CANADA. DIPENDESSE DA LUI, LA SUA GIORNATA COMPRENDEREBBE SOLO CAFFÈ, SPORT E SCRITTURA.

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1 comment on “Manzoni, pandemia, mentalità paranoide e i pericoli alla fine del lockdown

  1. Renata Carnevale

    Molto gradevole e accurato! È stato un piacere rivisitare pagine tanto amate e frquentate! Grazie!

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