Melograni

Quando in terrazza si accende la lampada cilindrica che si ricarica con l’energia solare capisco che è cominciata la sera e che presto con quel lume sprofonderò nella solitudine.

Nel periodo in cui cercavo di sviluppare il pollice verde coltivando le camelie – si dice che Coco Chanel le prediligesse per la pressoché totale assenza di profumo – capii anche la ragione delle rughe attorno agli occhi di mio padre.

Da bambina mi diceva che nella casa senza vetri alle finestre che sorgeva in corrispondenza della curva a gomito che in salita portava fino a casa ci abitava il vecchio Sergio Carminucci che da trent’anni stava lavorando al perfezionamento di una sua personale arca in vista di un nuovo imminente diluvio universale.

Mi è sempre piaciuto leccarmi le dita dopo aver mangiato i lamponi che, senza essere vista, coglievo nell’orto dei nonni in cui sorgeva l’altare dedicato a San Giorgio e che arrivava fino al fiume. Il vecchio mulino a vento fermo da secoli mi faceva pensare tutte le volte alle foto dei parenti della mamma, appese nella sala buona dove a noi da bambini non era permesso di entrare se non durante i pranzi e le cene delle grandi occasioni come quando per Natale ci trovavamo tutti insieme a recitare poesie e pensierini. Nella sala venivano conservati forse da secoli cibi sott’olio: salsicce, olive, carciofi e l’odore stantio di quelle pietanze antiche si confondeva coi ritratti in bianco e nero dei miei parenti morti appesi alle pareti e io finivo così con l’associare quell’odore a quei volti e quindi alla morte. Provavo un senso di vertigine da cui cercavo di liberarmi correndo fuori fino al castagneto e poi oltre, giù lungo il sentiero delle rane fino al campo di patate che era il confine estremo delle mie esplorazioni.


Nella sala venivano conservati forse da secoli cibi sott’olio: salsicce, olive, carciofi e l’odore stantio di quelle pietanze antiche si confondeva coi ritratti in bianco e nero dei miei parenti morti appesi alle pareti e io finivo così con l’associare quell’odore a quei volti e quindi alla morte.


Quando si rientrava dai campi la sera in mezzo ai cani, sotto i raggi dei tramonti estivi mio padre di tanto in tanto mi chiamava per mostrarmi qualcosa ai lati del sentiero, fragole o asparagi selvatici oppure qualcosa che si muoveva nel bosco circostante: il volo improvviso di un barbagianni, il tronco di una quercia smisurata. In quell’orario e in quelle circostanze la pratica della respirazione gli riusciva più facile, non ansimava nel tratto in salita anche se ormai fumava senza il timore di essere scoperto da mia madre né che io avrei fatto la spia.

L’essenza di violetta, quella di papavero, gelsomino d’acqua e prunella erano quelle che la mamma prediligeva negli anni in cui io avevo ormai smesso di fabbricare le case per i pipistrelli e i fischietti per richiamare le aquile e avevo cominciato a interessarmi a certi trucchi ed essenze che lei gelosa teneva riposti in uno scrigno di metallo che poi nascondeva fra gli abiti delle grandi occasioni sul fondo dell’armadio.

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Quando ripenso a te e ai nostri incontri finisco per perdermi ogni volta nella spira di ricordi che solo per comodità di tanto in tanto fingo di aver smarrito ma quando ripenso a te tutto parte dalla scia di tabacco che da una stanza all’altra faceva da fil rouge tra le nostre conversazioni, effetto delle dozzine di sigarette che ci saltavano di continuo fra le dita fino al silenzio di quell’arco di tempo che va dalle tre del pomeriggio alle ombre di lupo della sera.

Quando lavoravi alla fabbrica di cappe di aspirazione mi dicevi che era solo a pochi minuti di pullman dal centro della città e che era una vera fortuna poter vivere a così breve distanza da una città tanto bella e ricca di spunti.


Trovare un buon libro è come trovare un quadrifoglio, se ne trovano, è statistico ma il rapporto tra trifogli e quadrifogli è di diecimila a uno.


Al corso di scrittura ci conoscemmo nel fumo della pausa di metà lezione, tu indossavi una camicie grigia alla coreana e avevi i polpastrelli gonfi e ingialliti dalla nicotina. Parlavi appoggiato allo stipite della porta d’ingresso mentre davanti a noi le auto sfrecciavano verso i locali del centro pieni di luci fucsia e amaranto, coi tavoli apparecchiati di fiori e posate di delicata porcellana per turisti stranieri, famiglie che cercavano spunti di bellezza, coppie silenziose, ragazze col rossetto rosso come il fuoco dell’estate.

Tutti qui hanno scritto un libro, scrivono tutti, dicesti soffiando lontano il fumo. Del resto si tratta di una questione di aspirazione, come per le cappe. Io avevo il foulard coi quadrifogli che ricevetti dal mio ex numero cinque come regalo per la laurea e cercai di coprirmi la bocca mentre mi scappava da ridere.

Trovare un buon libro è come trovare un quadrifoglio, se ne trovano, è statistico ma il rapporto tra trifogli e quadrifogli è di diecimila a uno. Mi venne naturale di osservare il foulard e poco dopo arrivò a chiamarci la signora Anichini, la grafomane, come la soprannominammo per via dei suoi lunghi periodi e i flussi di coscienza devastanti.


In un determinato arco di tempo compio un certo numero di errori, negli ultimi vent’anni per quanto mi riguarda ne ho fatti almeno tre madornali, ma nello stesso arco di tempo quanti non errori compio?


In un determinato arco di tempo compio un certo numero di errori, negli ultimi vent’anni per quanto mi riguarda ne ho fatti almeno tre madornali, ma nello stesso arco di tempo quanti non errori compio? Non riesco a misurare tutto e per questa ragione ho bisogno di pensare e restare per lunghe ore in camera a fare i conti con questa irragionevolezza dei dati della mia vita. Soprattutto adesso che sono qui. Lo so che a te parrebbe solo un’ossessione e che non saresti d‘accordo con certe mie elucubrazioni. Come il tentativo di catalogare tutte le varietà di fiori dell’orto botanico durante una passeggiata fianco a fianco in cui in teoria si doveva parlare di autori all’avanguardia e tematiche degne di nota. Alla fine deviammo la discussione su discorsi di fantasia come l’ipotetico più grande pittore di gaussiane del mondo oppure circa la fame dei mangiatori di spade. Mangiatori di spade bulimici, divoratori di scimitarre, cannoni e cacciatorpedinieri. Annotai sulla mia agenda i nomi di alcune varietà di fiori che non avevo mai visto e che mi ripromisi di coltivare ed esporre poi nella terrazza tropicale che volevo inaugurare a inizio primavera.

Allora raccontami, qual è il tuo obiettivo nella vita? Chiedesti a bruciapelo.

Vorrei che il mio nome comparisse nell’Enciclopedia Britannica.

In quel momento forse hai sentito l’impulso di prendermi per mano anche se molti sconsigliano di partire dalla mano quando si vuole conquistare una donna, si dice sia preferibile stupirla con un bacio imprevisto, fino a un certo punto credo, che apra poi ogni porta. Io non lo so quale sia il metodo migliore, non saprei davvero dirtelo se avrei preferito un bacio oppure essere presa per mano, mi chiedo a volte che razza di donna io sia diventata dato che non mi raffiguro più scene del genere. Sono diventata la donna che sono sempre stata mi viene da dire ma lo sono diventata fino in fondo e senza più alcuna possibilità di ritirata. Ma questi sono del resto i pensieri che ci si può aspettare da chi si trova nella mia situazione, ospite presso una struttura di questo tipo, in mezzo a persone che non sembrano neppure aver avuto una vita prima di arrivare qui e che anche quando parlano del proprio passato ne parlano come di un sentito dire leggendario, di un sogno, una confidenza fatta anni prima da qualche conoscente ormai scomparso.


Mi piacciono i melograni, i chicchi rossi sembrano contenere un’essenza individuale di ricordi e dolore, un’autonomia, come se ogni chicco avesse una sua breve storia da raccontare, una storia che è possibile riassumere in una sola frase, in un pensierino da scuola elementare.


Stamattina la visita di controllo non ha fatto tanto male e per un minuto sono stata quasi felice. La mente mi si è come sgomberata dalle mosche e dalle formiche rosse che solitamente la abitano. Prima di colazione, quando davanti allo specchio finivo di controllare l’acconciatura e stavo scegliendo il colore del nastro da utilizzare ho provato a ricordare il nome che avevamo dato al gatto che trovammo in strada una sera in cui  ci eravamo avventurati nel silenzio di una passeggiata estiva. Forse lo battezzammo Nataniel dato che stavamo parlando dell’Uomo della sabbia? Sono arrivata in refettorio che c’erano solo Marisa e Lisabetta che raccontava qualcosa a riguardo dei mammuth e della loro estinzione, sghignazzavano come delle sciocche. Ho preso come al solito il tè con una goccia di latte, non te l’ho mai detto ma il suo sapore mi fa ripensare a te ed è bevendolo questa mattina che ho ricordato perché. Mi è tornata in mente il giorno in cui ci siamo salutati prima che tu partissi per la Francia e quella fu la prima volta che osai contaminare il tè con il latte anziché annegarlo nel limone.

Non lo so bene quanto dura la stagione dei melograni, ma nel parco ancora pendono dagli alberi e le cornacchie ripetono ad ore fisse i loro attacchi verso i frutti e lanciano in aria ogni volta miriadi di chicchi insanguinati. Mi piacciono i melograni, i chicchi rossi sembrano contenere un’essenza individuale di ricordi e dolore, un’autonomia, come se ogni chicco avesse una sua breve storia da raccontare, una storia che è possibile riassumere in una sola frase, in un pensierino da scuola elementare. Mi ricordano le persone che stanno qui, non solo i pazienti ma anche il personale: la dottoressa Lulli, le infermiere, i ragazzi delle pulizie. Qui dentro siamo tutti chicchi sanguinanti storie che abbiamo vissuto ma che a volte ci sembra di non ricordare e che confondiamo con le storie che invece ci siamo abituati a raccontare in giro.

Destò molto scalpore in paese quando il vecchio Sergio Carminucci orgoglioso decise di mostrare a tutti la sua arca, frutto di trent’anni di lavoro forsennato e di totale isolamento. Eccola qui, ecco dove ci metteremo in salvo dal diluvio disse mostrando alla folla di curiosi la nave che aveva così pazientemente costruito dentro una bottiglia di Cocacola.

L’ossessione per le storie, per le cose da raccontare, il coraggio di raschiare il proprio fondo, di scuotere tutti i tappeti, scostare le tende per far luce nella stanza e vedere come stanno le pareti, lo stato della tinteggiatura, come se potesse anch’essa invecchiare e presentare rughe e avvizzimenti del tempo. Ne parlavamo insieme, se ricordi, della sincerità nel raccontare. L’ossessione per le storie, quelle che chiedevo al babbo la sera per prender sonno e che lui non mancava mai di inventarsi ma che mi raccontava a bassa voce affinché io fossi l’unica a sentirle, forse per pudore che anche la mamma sentisse quelle storie di fantasia e si facesse un’idea strana dell’uomo che aveva sposato.

Forse ti chiederesti perché dopo tanti anni ho deciso di scrivere proprio a te tutte queste cose e questi pensieri la sera prima dell’operazione. Se stessi davvero spedendo queste parole a un indirizzo preciso a cui corrisponde la tua vita attuale anziché averle tirate giù di fretta sul retro di alcuni vecchi moduli forse leggendole ti chiederesti perché una vecchia signora abbia pensato proprio a qualcuno con cui si è sfiorato qualcosa svariati decenni prima, qualcuno che per di più ha deciso di scomparire e non dare spiegazioni. Ma io non ho più bisogno di spiegazioni, questo forse è il motivo e sono sicura che se per qualche motivo riuscissi a indirizzarti queste parole tu lo capiresti e forse a te verrebbe chissà come in mente il nome di quel gatto che vezzeggiammo complici i1n quella notte d’estate.

di Luca Saracino


Luca Saracino è
a) Nato a Fiesole nel 1980. Laureato in letterature comparate, vive e lavora a Firenze. Ha pubblicato le raccolte di racconti Prima del capolinea (2012) e Silenziosamente (2014) con Edizioni della Meridiana. Dal 2008 al 2015 ha scritto su Siamelli, blog di cui è cofondatore. Da Febbraio 2015 scrive sulla rivista on line L’irrequieto. Da gennaio 2016 scrive sul suo nuovo blog, Dinosauri.
b) Un pettine.
Tutte le illustrazioni sono di (c) Wikimedia.

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