Tommaso Lisa ci racconta la storia vera di una fascinazione, la sua, di una relazione tra un entomologo dilettante e un coleottero dei funghi: l’esperienza della meraviglia di un adolescente che lascerà poi all’età adulta lo spazio del disinganno.
IN COPERTINA e nel testo,The Grand Parade Frederick Parkhurst Dodd
Questo testo è un estratto da “Memorie dal sottobosco” di Tommaso Lisa. Ringraziamo Exorma per la gentile concessione.
di Tommaso Lisa
Resta un mistero che cosa induca l’entomologo a scegliere il complesso studio o la semplice collezione di una famiglia d’insetti. La medesima incognita che si cela dietro ogni scelta nella vita.
Perché vogliamo una cosa piuttosto che un’altra? Perché qualcuno sceglie gli appariscenti Carabi, o i Buprestidi metallizzati, e altri invece i minuscoli e grigi Scolitidi? La figura di Ercole al bivio attraversa i millenni, è sempre attuale e così emblematica da agire anche qui. Ciò che meraviglia è che anche l’analisi minuziosa e asettica, entomologica appunto, sembra trovare fondamento in un desiderio irrazionale, una mancanza. In quale interstizio delle norme e delle regole l’io decide di insediare la ricerca, indirizzando le domande e identificando sé stesso? In quale ostinata missione fatta di sezionamenti, estrazioni di edeagi, notomizzazione di antenne e antennomeri, enumerazione di “pigidi penzolanti” (avrebbe detto il buon Carlo ne L’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda), in quale maniera può finalmente dire “sono un entomologo”? È il fascino di ogni atto fondativo, quella che, con un non iperbolico eccesso, si usa definire una “vocazione”. C’è qualcosa che “chiama”: un aruspice scruta i punti cardinali sulla sommità d’un poggio gettando al vento dei fili. Lo immagino che traccia una circonferenza, interrando come deposizione rituale un’ascia, un liuto e uno scudo in bronzo al centro di quello che diventerà poi nei secoli il centro urbano sul quale oggi s’accalcano le auto, i cablaggi delle fibre ottiche, gli scooter, il traffico delle merci e dei turisti. Quanto coraggio, per dire “io sono specialista di qualcosa”. Quanto coraggio per dire “io sono”. Quale coraggio per dire “io sono un entomologo”.
Mi bruciano gli occhi dopo tanto guardare nel microscopio. Ho oltrepassato il mezzo del cammino della vita.
Cosa sarà di me, di mio padre, di mio figlio e di questi insetti tra altrettanti anni quanti mi separano da quell’epifania?, mi domando, non senza spavento.
L’ho sempre deliberatamente ignorato. Questo Diaperis di certo anche adesso, in quest’istante, riposa dentro i funghi e sotto le cortecce di chissà quale tronco, qui nei dintorni della città.
Si dice debba o possa accadere così, da un giorno all’altro, senza alcun preavviso una mattina qualunque: per strada non c’è più traffico e regna il silenzio. Oppure si blocca tutto: la televisione non funziona. Tutti i canali oscurati, blackout delle linee, niente internet. Error qualcosa. Clicchi sull’interruttore della corrente in salotto e non si accende alcuna luce. I satelliti iniziano a cadere dal cielo come gli aerei con tutte le persone dentro. È la fine del mondo. Il break even point della catastrofe? I treni finiscono la loro corsa sulle rotaie. Nelle gallerie. Niente informazioni. Solo una smisurata luna nel cielo nero. O un sole all’orizzonte zigrinato di cirrostrati, tondo e rosso come il Diaperis.
-->Semiosi dello scolitide
La raccolta entomologica – il repertorio di insetti e il thesaurus di esperienze, oltre alla vivacità di queste bande orizzontali arancioni – allontana per un attimo lo spettro della melancolia. Rimango sempre meravigliato che molti insetti siano coltivatori di funghi, per lo più le termiti e le formiche. Si trasmettono attraverso il Dna le competenze necessarie a tagliuzzare foglie, riporle in depositi e inserire il micelio trasportato in una poltiglia di bave. La trasmissione del carattere e delle esperienze è dunque genetica, in ogni comunità di esseri?
Penso agli Scolitidi, che vivono talvolta assieme ai Tenebrionidi (non a caso il grande Fabricius si sbagliò, classificando gli Ips all’interno dei Diaperini). Possiedono delle tasche piene di spore, chiamate micangi. Scavando le gallerie nel legno vi inoculano le spore prelevate appunto da queste tasche. Introducono nel legno i funghi e iniziano a coltivarli nelle gallerie per utilizzarli poi come nutrimento. Per lo più coltivano Ambrosiella, Rafaellea, Dryadomyces e alcuni lieviti. Quando il micelio inizia a crescere, gli Scolitidi devono pulire in maniera accorta la superficie dalle cellule di altre specie fungine nocive, onde potersi nutrire della specie coltivata o ricavarne nutrimento per le larve. Quest’ultime si sviluppano a gruppi in singole gallerie riempite di micelio.
Non smetto di meravigliarmi: in maniera simile alle formiche, ma senza far parte di una società organizzata, questi microscopici coleotteri eusociali (ossia che vivono in gruppo e si coordinano pur non avendo ruoli prestabiliti) sembrano essere portatori di una forma di saggezza. Tutto ciò rende chiaro, evidente, che il coleottero non è situato nel suo giusto posto in una scatola entomologica. Mi domando quanta fatica deve fare per rodere la pasta del legno, per nulla nutriente, al fine di portare dentro muffe e spore nutritive, in un arcaico processo di coltivazione, di coltura, di cultura della materia inerte, di quella che gli aristotelici chiamavano la hyle appunto, la “sostanza”. Le apparizioni spettrali degli Scolitidi emergono nella spaccatura che separa la realtà dalla sua rappresentazione linguistica. Quanta fatica deve fare un coleottero come questo per farsi un corpo, per divenire un corpo. Quale tormento è inscritto nella sua forma per tante reiterate metamorfosi? Per comprenderlo devo capire il suo habitus, le sue prassi di vita.
Cerco una sintonia, mi metto in ascolto di qualche segnale in mezzo ai licheni e alla borraccina. Ausculto dei ticchettii di mandibole sul legno a far da cassa di risonanza, come un pizzicato su uno strumento a corda. Come un cricchiare elettrostatico, un rumore di fondo. Non sono in grado di avvicinarmi più di tanto a loro, perché il linguaggio mi allontana.
Sogno e realtà
Estraggo dalla libreria un altro libro di Ernst Jünger. Sfogliando Foglie e pietre, a pagina 111 del racconto Soggiorno in Dalmazia scopro che, in più di un’occasione, sono capitate anche a me esperienze simili. Forse che un’affinità elettiva ci unisca? mi domando leggendo: «No, la realtà è non meno magica di quanto il magico non sia reale […] Era questa la meraviglia che ci incantava da bambini nelle immagini doppie osservate allo stereoscopio: nel preciso istante in cui esse si fondevano in un’immagine sola, vedevamo schiudersi in esse la nuova dimensione della profondità. Sì, è così: il tempo ci ha ravvicinati alle antiche formule magiche, a lungo dimenticate eppure sempre presenti. Il senso incomincia, esitando, a filtrare nella grande opera in cui tutti lavoriamo, e che ci tiene avvinti».
Soltanto che per me la “nuova dimensione della profondità” è, ancora una volta, senza scampo, quella in cui sto vivendo. La meraviglia diventa una specie di cadersi addosso, ripetutamente, e scoprirsi sempre quasi uguali.
Così, praticando entomologia, ho la conferma che l’immaginario è reale: è nascosto nel bosco subito fuori città, o in cantina, o al di là della vecchia recinzione di una fabbrica dismessa. Ogni volta che vado in cerca di un insetto vengo traslato in un altro mondo, anche quando mi trovo nel parco vicino casa o in una desolata area industriale abbandonata in prossimità del quartiere in cui abito da una vita. In tali luoghi, familiari eppure estranei, non vado a caccia d’insetti come una creatura superiore che dall’alto allunga la sua mano, bensì sprofondo in un abisso esposto all’incontro con l’imprevisto, l’inatteso, la sospensione del sapere in un limbo d’incredulità.
Nel periodo preadolescenziale in cui incontrai per la prima volta il Diaperis soffrivo di un disturbo psicosomatico lieve. Era un tic: sbattevo frequentemente le ciglia con un testardo palpito, quasi un sospetto. I fibrillanti scotomi non invadevano ancora il mio campo visivo e tutto il resto appariva chiaro e distinto. Ma strizzavo gli occhi, come incredulo di fronte alla realtà delle cose.
Camminavo adagio contando i sassi per terra, lungo il sentiero. Enumeravo anche anemoni e pervinche, disposti secondo geometriche costellazioni, attraversando un “cerchio di streghe”, miceli di funghi che si irraggiavano tutto intorno. La vita ripeteva sé stessa, come consuetudine, replicando e variando forme in una competizione per il gene migliore. Ma non è certo la competizione l’unico scopo di questo spettacolo, c’è spazio anche per la collaborazione tra organismi, purché la storia d’intrecci prosegua: l’importante è che il sistema di relazioni non si fermi e si autoequilibri nella maniera più efficace, affinché il discorso appaia infinito.
Trovai anche diversi funghi gelatinosi, il vomito dei gatti delle streghe, alcune specie di Tremella. Orecchi di legno. Barbe appese ai rami, funghi dentiformi che spuntano dal legno, tra i licheni colorati. Falli eretti tra l’erba. Il bosco, come una super-creatura, un macro-organismo, mi ascoltava, mi guardava. Attraversavo il teatro in cui si svolge lo spettacolo ancestrale della selezione e della ripetizione. Un grazioso licenide del rovo, con la superficie alare inferiore verde smeraldo, adatta a confondersi quando è posato sul prato, danzava svolazzando in difesa del suo territorio.
Ma anche questo linguaggio, del quale cerco ad arte di sabotare le strutture, è automatismo, un disporsi delle parole nella mente che mi parla e fa agire secondo le finalità della grammatica, l’utile della sintassi. La logica del senso indirizza il desiderio: sono intrappolato dalla ramaglia di questi verbi contorti, in questo reticolo di frasi, nel sottobosco fonetico. Nella pania. Nel panico.
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