Mondi possibili, waifu e filosofia analitica



Il fenomeno delle waifu, i personaggi fittizi degli anime di cui i fan si innamorano realmente, solleva interessanti domande su cosa è reale e cosa fittizio. Domande a cui la filosofia analitica prova a dare una risposta.


In copertina e nel testo, Carmine Calvanese, Convulsione di palle (1998) – Catarifrangenti su legno, Asta Pananti in corso

di Alessio Montagner

Darling in the Franxx è un anime del 2018, concettualmente molto vicino al più famoso Neon Genesis Evangelion: l’umanità è attaccata da creature misteriose e si difende con improbabili robottoni pilotati, non da militari specializzati con formazione ingegneristica come sarebbe logico, ma da ragazzini qualunque. Una delle cose che distinguono Darling in the Franxx da NGE è però la scelta di focalizzarsi sugli aspetti romantici.

Il protagonista maschile, Hiro, pur presentato come un prodigio, è chiaramente un mediocre: ha un aspetto neutrale, le sue battute sono semplici, i suoi atteggiamenti stereotipati. La protagonista femminile, Zero Two, è l’esatto contrario: ha un aspetto eccentrico (capelli rosa, corna…), un atteggiamento autonomo, intraprendente, amorevole, un passato tragico e quant’altro possa attrarre interesse. Subito, nella prima scena nella quale i due condividono lo schermo, Zero Two appare ad Hiro completamente nuda, glabra come un gatto Sphynx e decisamente procace. La vicenda, dopo una fase positiva passata a seguire la relazione tra i due, prende via via tinte più fosche fino al tragico finale: Zero Two ha dei sogni, vuole smettere di lottare e diventare umana, pone in Hiro tutte le sue speranze perché le fa sentire di poter realizzare i suoi desideri, ma purtroppo questi non potranno realizzarsi.

La strategia è chiara: tutto è pianificato per fare in modo che lo spettatore target (giovane maschio etero) si identifichi in Hiro e si innamori di Zero Two. Funziona, e anche molto bene: Zero Two è diventata subito la regina delle waifu. Cos’è una waifu? Waifu è la traslitterazione in katakana di «wife»: è un personaggio femminile, in genere di un anime, verso il quale si ha letteralmente una cotta. Ebbene, Zero Two è stata, fino a poco tempo fa, il personaggio femminile più ricercato su Google: vi sono frotte di otaku disposti a spendere tutti i loro risparmi in statuine, cuscini abbracciabili e ogni altro gadget abbia la sua forma, e perfino Kim Kardashian ha detto di essersi ispirata al personaggio per la sua acconciatura.

Pare strano che degli adulti si facciano coinvolgere a tal punto da un personaggio di finzione; eppure li capisco; anch’io dopo aver visto il finale sono rimasto sconfortato per diversi giorni. Zero Two è un personaggio fittizio e non dovrei dispiacermi per la sua sorte; eppure questo suo essere finta non fa che peggiorare la situazione: perché se la fine di Zero Two è solo un’immaginazione, il suo non-essere-mai-stata è invece qualcosa di reale, e questo è forse un destino peggiore di una vera morte. 

Zero Two

Com’è possibile emozionarsi per certe cose? È il paradosso della fiction: è impossibile emozionarsi per ciò che si sa essere finto, quindi o in realtà non mi sto emozionando, o inconsciamente credo alla reale esistenza di ciò che vedo. Si potrebbe parlare di sospensione dell’incredulità: ma anche se è un’idea che piace tanto agli scrittori, il consenso tra i filosofi è che non sia questo quel che accade nella testa del fruitore, non è una descrizione corretta del suo rapporto con i personaggi di finzione.

Come nota la psicologa Robin Rosenberg, la cotta è per definizione rivolta ad un personaggio fittizio: la cotta si sviluppa assegnando a una persona che si conosce superficialmente delle proprietà ideali che, con tutta probabilità, non ha. Ma quando ho una cotta, io non mi rendo conto della finzione della persona che sto immaginando: una delle proprietà errate che le assegno è proprio la sua presenza fisica, penso che la mia immaginazione abbia un perfetto corrispondente nella realtà anche quando dovrei capire che così non è. Da questa prospettiva, il coinvolgimento emotivo verso personaggi di finzione non appare così strano.

Sembra quasi esserci qualcosa di religioso nell’atteggiamento che gli otaku tengono verso la propria waifu. D’altra parte, essendo cristiano, anche io credo nell’esistenza di una serie di realtà che non posso vedere, e l’uso di immagini mi permette di mantenere un contatto. L’otaku che spende migliaia di euro in oggetti con l’immagine della sua waifu, fino a costruire un altare di gadget per rendere onore a quel personaggio, fa qualcosa di così diverso? Io stesso, ad un certo punto, ho sentito come se Zero Two dovesse esistere in un qualche diverso piano della realtà, in un mondo possibile diverso dal mio, ma reale.

L’intuizione di cui sto parlando è questa: i mondi delle storie d’invenzione sono degli stati possibili di questo, modi nei quali questo mondo sarebbe potuto essere. Se è così, come posso spiegare il paradosso della fiction? Devo usare un po’ di logica.

Vi è un forte legame tra logica, linguaggio, pensiero e realtà. Io, tramite la mia lingua, esprimo proposizioni. Cos’è una proposizione? Semplificando, se la frase è un insieme di suoni, la proposizione è ciò che questi suoni esprimono: «l’erba è verde» e «the grass is green», esprimono tutte la stessa proposizione, cioè l’erba è verde; quando io dico «alba» esprimo la proposizione alba, quando lo dice Giulio Cesare esprime la proposizione bianca. La frase, quindi, non ha un valore di verità, è la proposizione che esprime ad averlo: la Quinta di Beethoven dirà qualcosa di vero (o falso) solo se interpretata, cioè solo se collego le note a ciò che credo Beethoven volesse dire. Posso così intendere la realtà tramite le condizioni di verità delle proposizioni: la natura è ciò che si dà davanti a me quando esprimendo questa è natura dico qualcosa di vero. Di conseguenza, la proposizione deve essere indipendente dal pensiero: nel medioevo nessun uomo poteva esprimere la proposizione due elettroni in singoletto hanno spin opposto, eppure era già vera. Ciò nonostante, il pensiero può essere inteso proprio come una serie di operazioni sulle proposizioni: per esempio, il mio credere in Dio è l’avere un atteggiamento di credenza verso la proposizione Dio esiste. La logica, come calcolo proposizionale, mi permette di rappresentare e studiare alcune di queste operazioni. Arrivo così alla grande intuizione del matematico Frege: io capisco la realtà tramite il pensiero, e l’unico modo per capire il pensiero è tramite l’analisi matematica del linguaggio.

Dunque, se i mondi fittizi sono stati possibili di questo, per averne comprensione devo analizzare le espressioni relative alla possibilità. La logica che si occupa di questo è la logica modale aletica

Una logica è come una lingua: ha un alfabeto (cioè un insieme di simboli), una grammatica (che mi dice come combinarli), e delle regole d’inferenza che mi spiegano come posso dedurre una formula da un’altra, regole che legittimano il mio dedurre «Socrate è mortale» da «Socrate è un uomo e ogni uomo è mortale». Spesso i logici si accontentano di questi tre elementi, cioè lavorano solo sulla sintassi del loro linguaggio; ma, come con la lingua che parlo, se voglio discutere di verità e falsità in una pluralità di contesti ho bisogno di qualcosa in più, cioè di una semantica.

Posso interpretare la semantica della mia lingua naturale come una funzione insiemistica: da un lato ho l’insieme di tutte le frasi che posso formare, dall’altro ho l’insieme delle proposizioni, la funzione tira una linea tra gli insiemi, cioè assegna ad ogni frase la sua proposizione. In logica modale, similmente, la semantica è un’operazione che si svolge tra insiemi, nel modo tipico di quel settore matematico chiamato teoria dei modelli.

Il filosofo e matematico Quine basa la sua filosofia proprio sull’idea che, posti i due insiemi di frasi e proposizioni, io possa legittimamente porre infinite funzioni possibili, infiniti modi diversi di collegare frasi e proposizioni, ma tutti tali da far risultare ciò che dico vero. Per esempio, io affermo «il successore di un numero naturale è un numero naturale». Nell’interpretazione standard, questa è una frase vera: il successore del numero naturale 1 è il numero naturale 2. Ma se io con «successore» volessi dire figlio e con «numero naturale» cavallo? Direi i figli di un cavallo sono cavalli, che è comunque vero: questo è un modello della frase. 

La semantica, in logica, discute questo: interpreta le frasi specificando quand’è che sono soddisfatte, cioè quand’è che risultano vere. Così, io posso tentare di dire che «Zero Two è un ente possibile», ma per proseguire devo spiegare quali sono i modelli di questa frase, com’è che deve essere il mondo affinché sia soddisfatta.

Il fondatore della semantica più utilizzata per la logica modale è Saul Kripke, un prodigio della logica sin da giovanissimo: pare che a un’offerta di lavoro presso il dipartimento di matematica di Harvard abbia dovuto rispondere «mia madre ha detto che prima dovrei finire le superiori». La semantica di Kripke si basa sull’insieme di tutti i mondi possibili. Cos’è un mondo possibile? Se io tiro un dado, vi sono sei risultati possibili: posso così dire che esistono sei mondi possibili, uno in cui esce uno, uno in cui esce due, eccetera. Uno di questi mondi sarà il mondo attuale, cioè quello reale in cui vivo, quello in cui esce il risultato che effettivamente uscirà. I mondi, insomma, sono null’altro che altri insiemi di oggetti.

Secondo Kripke, quando dico che qualcosa è possibile, intendo dire che vi è un mondo possibile (cioè un insieme che contiene ciò di cui parlo), e che quel mondo è accessibile da questo. Cosa vuol dire accessibile? Come vi è una funzione che collega le mie frasi a delle proposizioni, così questa funzione di accessibilità collega tra loro mondi possibili. E con che criterio li collega? Rispondere a questa domanda vorrebbe dire produrre una spiegazione completa del concetto di possibilità, che è un obiettivo di molti logici e linguisti, ma che va ben al di là degli scopi della semantica formale, che si accontenta di giocare concettualmente con questa funzione.

Dunque, ora posso spiegare cosa vuol dire che Zero Two sia possibile: lo è se e solo se vi è un mondo possibile, accessibile da questo, tale che Zero Two sia uno dei suoi elementi.

Ora immagino che si dia il caso descritto, e che nel mondo possibile di Zero Two vi sia anche io, e che in quel mondo possibile io, avendo studiato di più, sia un dottore anziché un filosofo. Questo io-dottore sono davvero io, che sono l’io-filosofo, o è un’altra persona? Quali sono le condizioni per dirlo? Kripke nota che, per il suo modo di intendere la logica, l’aver avuto origine da una certa materia deve essermi essenziale: se io sono quell’io-dottore, come minimo l’io-dottore deve avere la stessa origine di questo io-filosofo. Secondo Kripke, questo può essere dimostrato.

Immagino esista un qualche altro mondo possibile, con un ente B da me distinto. Per ipotesi, io sono nato dall’embrione X, e lui dall’embrione Y. Riguardo la mia relazione con questo ente, il filosofo Salmon pone tre assiomi. 

Primo: se è possibile che io nasca dall’embrione X e lui dall’embrione Y, le nostre nascite sono compossibili; cioè, se vi è un mondo possibile nel quale io nasco da un embrione, e vi è un altro mondo nel quale lui nasce da un diverso embrione, esiste anche un terzo mondo nel quale tutti e due nasciamo dai rispettivi embrioni.

Secondo: io, in uno stesso mondo, non posso avere più di una origine, non posso nascere da più di un embrione contemporaneamente; cioè, in tutti i mondi possibili, se un qualsiasi ente origina in un certo modo, e un altro ente origina in modo diverso, questi due enti devono essere diversi.

Terzo: se un ente ha un’origine diversa dalla mia, allora quello non posso essere io; cioè, se in un qualche mondo possibile io nasco da un certo embrione, allora, in qualsiasi altro mondo possibile, qualsiasi ente nasca da quell’embrione, quello sono io.

Mi chiedo ora: è possibile che io, in diversi mondi possibili, nasca da diversi embrioni? Salmon dimostra che, dati questi assiomi, tale idea implica un paradosso. La dimostrazione è formale, e chi vuole potrà controllarla in appendice; io cercherò di renderla in lingua naturale.

Pongo la mia ipotesi come vera, ipotizzo cioè che sia per me possibile nascere dall’embrione X ma anche nascere (in un altro mondo) da un diverso embrione Y. Se ciò è vero, è vero anche che è possibile che io origini da X, ed è possibile esista una B (che potrei essere anche io) che origina da Y. Per il primo assioma, deve dunque esistere un qualche mondo possibile W nel quale, contemporaneamente, io nasco da X, e B da Y. Ne consegue, per il secondo assioma, che io e questo B dobbiamo essere diversi. Epperò, essendo vero che B può nascere da un certo embrione, per il terzo assioma è anche vero in tutti i mondi possibili (inclusi W e l’attuale) che qualsiasi ente origini dall’embrione di B è B stesso. Poiché, per ipotesi, è possibile che io origini da Y, in tutti i mondi possibili chi origina da Y sono io, quindi in W io e B dobbiamo essere identici. Ma questo contraddice quanto avevo appena concluso.

Per evitare il paradosso, devo rifiutare l’ipotesi e affermare che, se è anche solo possibile che io nasca dall’embrione X, è impossibile per me nascere da un embrione diverso.

Dal punto di vista formale, l’argomentazione gira, ma è troppo controintuitiva. Io posso fare una serie di affermazioni come «avrei potuto avere genitori diversi», o magari «sarei potuto nascere nel medioevo», e paiono proprio esprimere delle verità: e se sono vere, vuol dire che quell’individuo sarei io, anche se è evidente che dovrei avere una origine diversa da quella che ho avuto.

Carmine Calvanese, Convulsione di palle (1998) – Catarifrangenti su legno, Asta Pananti in corso

Il problema è che per Kripke l’identità transmondana è identità in senso proprio: se io lancio un dado e dico «è uscito tre, ma sarebbe potuto uscire quattro» dico, o meglio stipulo che, nell’altro mondo possibile, questo stesso dado mostra il quattro invece del tre. Se dico che nel mondo di Zero Two sarei calvo, intendo dire che io, proprio io, sono calvo in quel mondo. Certo sarebbe assurdo dire che io sono calvo e capelluto contemporaneamente: la realtà è quella del mondo attuale, i mondi possibili sono pure astrazioni, sono solo una visualizzazione del concetto di probabilità, non esistono davvero.

Ma David Kellogg Lewis, secondo alcuni uno dei più grandi filosofi di sempre, nega questa teoria. La sua idea è quella del realismo modale: i mondi possibili non sono solo astrazioni, esistono tanto quanto il mio mondo attuale. Il mondo nel quale, tirando il dado, esce il quattro, è un vero mondo, come questo, con altre persone che lo abitano. Ma perché dovrei mai sostenere un’idea così eccentrica e, in effetti, incredibile?

Lewis considera il realismo modale un paradiso filosofico. In primo luogo, si tratta di un’idea semplice: è vero che prevedere un numero infinito di mondi, anziché un unico mondo, pare complesso, ma il fatto che vi sia un’unica categoria di mondi, invece di un mondo attuale distinto da tutti gli altri mondi possibili, rende la teoria qualitativamente semplice. 

In secondo luogo, il realismo modale permette di generalizzare la teoria corrispondentista della verità. Cosa vuol dire che una certa affermazione è vera? La teoria più comune è che un’affermazione sia vera se corrisponde ai fatti: «l’erba è verde» è vera se davvero, nel mondo fattuale a me esterno, l’erba è verde. Ma cosa dire di un’affermazione come «sarei potuto essere dottore» (cioè, vi è un mondo possibile nel quale un ente è me ed è dottore)? Se i mondi possibili sono astrazioni, non sono fatti, e l’affermazione non può essere vera in virtù di corrispondenza; ma nel realismo modale sì, i mondi possibili sono fatti.

Infine, in terzo luogo, questa idea implica una semantica molto convincente che rende l’origine inessenziale. Poiché i mondi possibili sono reali, ma io non posso esistere che in un unico mondo (perché altrimenti avrei proprietà tra loro contraddittorie), l’identità transmondana è in realtà basata su controparti: l’io-dottore possibile non è un io io, io esisto solo qui, come filosofo, lui è invece la mia controparte nel mondo di Zero Two. Contrariamente alla relazione di accessibilità, la relazione di controparte non è simmetrica né transitiva. Di conseguenza, non c’è nulla di problematico nel dire che «avrei potuto avere un corpo diverso, sviluppatosi da un diverso embrione»: vuol dire solo che in questo altro mondo possibile ho una controparte corporale e una controparte personale che sono diverse tra loro: vi è una persona che fa le mie veci, e un’altra che fa le veci del mio corpo.

Ma se è così, quali sono le proprietà essenziali? È vero che potrei avere un corpo diverso, è vero che potrei avere una mente diversa, è vero che potrei avere un’origine diversa… quale proprietà resta? Quale proprietà non può cambiare senza che io non sia più io? Risposta: non vi è alcuna proprietà essenziale; io e la mia controparte possiamo avere neanche una proprietà in comune, eppure può esserci identità transmondana tra me e lei. In un realismo modale non-lewisiano si può basare l’identità su una ecceità, un fatto non-qualitativo: si può parlare così di nuda identità, io e la mia controparte possiamo avere in comune null’altro che l’identità, non basata su alcuna proprietà. Come ciò sia possibile, è misterioso, e molti filosofi accusano l’ecceitismo di essere inintelligibile; ma, di fatto, si sta dicendo solo che ciò che può svolgere il ruolo di essenza non è una proprietà, ma qualcos’altro. Cosa? Appunto una ecceità, o forse niente.

Cosa mi dice questo sull’esistenza degli enti fittizi? Vi è stato un filosofo, Meinong, che non si sa se sia austriaco o italiano (gli austriaci dicono che è italiano, gli italiani austriaco, evidentemente non è molto amato). Meinong nota che la proposizione Pegaso ha le ali è vera, ma se è vera deve corrisponde a qualche fatto, eppure Pegaso non esiste. Com’è possibile? Forse, contrariamente a quanto credono i deflazionisti, l’esistenza è una proprietà, e gli enti fittizi «ci sono», sono solo privi della proprietà dell’esistenza. Questa strana idea è in realtà ben sensata all’interno del realismo modale: l’esistenza deve essere intesa come attualità, l’essere presente in questo mondo; ma vi sono enti non-esistenti, ognuno presente nel suo mondo possibile.

Questo porta a una soluzione sorprendentemente semplice per il paradosso della finzione: il mio emozionarmi per la storia di Zero Two è del tutto legittimo perché il suo mondo è un mondo possibile, cioè è un mondo reale, proprio come questo, ed è razionale anche l’atteggiamento degli otaku che la trattano come presente, perché lo è.

Già, una soluzione fin troppo semplice: nonostante il sistema metafisico di Lewis sia il più importante, complesso e strano dai tempi di Leibniz, pressoché nessuno crede davvero nell’esistenza dei mondi possibili. Il consenso tra i filosofi è che questa sia un’idea da rifiutare. L’anti-essenzialismo legato alla teoria della controparte, però, credo sia corretto, e mi fa intuire qualcosa sulle ragioni delle mie emozioni.

Io rifiuto il realismo modale, ma accetto che la relazione tra il mondo attuale e i mondi possibili sia descritta correttamente dalla relazione di controparte (e non di accessibilità), che è una relazione non-simmetrica (cioè io non sono la controparte della mia controparte). Posto ciò, se accetto di non poter assegnare proprietà ad enti fittizi (in quanto, avessero una proprietà, esisterebbero), allora tutto ciò che posso dire su Zero Two è che un certo ente di questo mondo ha la proprietà di avere lei come sua controparte.

Ora però, come esperimento mentale, ipotizzo per assurdo che il mondo di Zero Two sia il mondo attuale, e il mio mondo sia null’altro che un mondo possibile astratto non realmente esistente. Poiché Zero Two non ha un’essenza, posso fare affermazioni come «Zero Two potrebbe non avere i capelli rosa», «potrebbe essere totalmente umana», eccetera, individuando sue versioni in altri mondi possibili. Ad un certo punto, identificherò una Zero Two possibile con un ente del mio mondo, la descriverò con tutte le caratteristiche di una persona di questo mondo, che sarà la sua controparte. Ma il mondo di Zero Two non è il mondo reale, è un mondo astratto che non esiste, mentre il mio mondo è quello attuale: devo quindi scambiare le etichette tra i due mondi. Questa operazione distrugge la relazione? Non vedo perché: come posso fare predicazioni sugli unicorni nella giungla di Meinong, così Zero Two, anche se è diventata un ente possibile irreale, può comunque avere una controparte in questo mondo. Allora, forse non è il mondo di Zero Two ad essere uno stato possibile di questo mondo, bensì è questo mondo ad essere uno stato possibile del suo.

Ciò che voglio dire, in realtà, è più modesto di quanto suoni. Tutta la storia di Zero Two è fittizia, perché in questo mondo non esistono costosissimi robot umanoidi, antiche razze sauropodi che proteggono la Terra e quant’altro; l’essenza della storia, però, è vera: coppie che si conoscono, si innamorano, pongono ognuno tutte le speranze nell’altro, ma non arrivano a realizzare i proprio sogni a causa della violenza e della morte, vi sono, queste sono cose che capitano realmente e neanche molto di rado. 

L’idea è che, anche se gli elementi fantastici di una storia possono stimolarmi, ciò che davvero mi causa emozioni profonde e durature, ciò che mi interroga e mi sprona ad agire nella mia vita, è ciò che vi è di reale nella storia. Cioè, la storia contiene sia elementi reali che fittizi: quelli reali possono causarmi ogni emozione, ma quelli fittizi solo alcune. Se la magia mi emoziona in modo profondo, è per una serie di concetti collegati, come il potere e la conoscenza arcana (tutte cose esistenti anche nel mondo attuale) più che per la magia in sé. Potrei argomentare ciò notando che vi sono emozioni che non posso provare se non per ciò che so essere presente: io posso essere affascinato da Zero Two, ma non posso avere fiducia in lei, o sentirmi a lei sottomesso. Ma questa è per ora soltanto un’ipotesi.


APPENDICE: possibile dimostrazione di un tipo di essenzialismo dell’origine nella semantica di Kripke
Traduco i tre assiomi di Salmon:
P1 ◇T(a,x)⌃◇∃bT(b,y)→◇(T(a,x)⌃∃bT(b,y))
P2 □∀a∀c∀x∀y(T(a,x)⌃T(c,y)⌃(x≠y)→a≠c)
P3 ◇T(a,x)→□∀c(T(c,x)→a=c)
L’ipotesi della mia doppia origine è la seguente:
P4 ◇T(a,x)⌃◇T(a,y)⌃x≠y
Dando P4 per vera, per P1 risulta derivabile nel mondo attuale W la verità di
P5 ◇(Ta,x⌃∃bTb,y)
Di conseguenza, se si accetta la semantica di Kripke, risulta vero in un altro mondo U che
P6 Ta,x⌃Tb,yx≠y     con estensioni    a,b,x,y:α,β,γ,δ∈U
Tramite P2:
P7 a≠b
Per P3 è invece vero in W che
P8 □∀c(T(c,y)→b=c)
Essendo necessario, segue la verità in U di
P9 ∀c(T(c,y)→b=c)
Data l’universalità, posso assegnare a c l’estensione di a (α), e ottengo in U
P10 a=b
Creando contraddizione con P7, quindi devo rifiutare P4:
C ◇T(a,x)→□¬T(a,y)

Alessio Montagner. Nato a Motta di Livenza (1993). Non è laureato. Prima voleva fare l’artista, poi l’ingegnere, poi l’architetto del paesaggio, ora non si capisce. Vive pensando al pragmatismo kantiano e alla statistica psicologica. Nel tempo libero progetta mobili, dipinge ad acrilico, gioca (male) a scacchi.

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