Perdere la fede, riconoscere l’omosessualità, abbandonare gli dei ma non le loro storie; una serie di tracce autobiografiche attraverso i libri.
di Edoardo Rialti
Quello che è universale non è quella figura in particolare, ma l’arrivo di qualche messaggio, non perfettamente intelligibile, che risveglia questo desiderio ed avvia l’uomo a bramare qualcosa all’est oppure all’ovest del mondo; […] In Pagus, come ho detto, qualche volta era un’Isola ma, spesso, fu anche una figura di gente più forte e più bella di quella che siamo noi. Talvolta era una figura che narrava una storia.
C. S. Lewis
Ed ecco, c’è in noi un mondo d’amore per qualcosa, pure se ignoriamo che cosa al mondo questo qualcosa sia.
Thomas Traherne
A quella vista, Egar avvertì una fitta attraversagli l’inguine
-->R. K. Morgan
Ho aperto gli occhi, ed ero in assedio. Cavalieri biondi scagliavano frecce dall’alto di una fortezza massiccia, sotto un cielo scarlatto, su un’armata nera che ruggiva, e soffiava “come un campo scosso da una tempesta”. Alcuni dei mostri dagli elmi cornuti come vichinghi cadevano con un gorgoglio. Calpestati da passi incuranti, subito rimpiazzai da altri guerrieri bestiali. E altri. E altri.
Molti scrittori (infinitamente migliori di me, beninteso) hanno raccontato la prima immagine che si è impressa al loro sguardo e al loro cuore, come il sigillo d’una missiva di cui solo gli anni avrebbe svelato il contenuto. G. K. Chesterton ricorda il teatrino di carta realizzato da suo padre, una sorta di occhiolino da parte di Dio, il primo Padre Dilettante dell’universo. C. Hitchens (tanto per saltare da tutt’altra parte dello spettro ideologico), la prua della nave che lo portava a Malta da bambino, il primo confine sul quale avrebbe camminato la sua mente così ricettiva delle sfumature e perfino delle contraddizioni della natura umana.
Io, si quid est (direbbe Matilde di Canossa), per prima cosa ricordo un assedio. Quello del Fosso di Helm, nel Signore degli Anelli di Ralph Bakshi, un cartone che a quattro anni avevo già visto così tante volte (complici le polmoniti) da aver rotto la videocassetta. e il mio ricordo ha la peculiarità di non riferirsi al film in sé, ma al mio personale ri-esprimerlo. Quando parlavo di trovarmi in mezzo all’assedio non mi riferivo affatto alla mera visione del film, perché una delle prime riprese domestiche dei miei genitori si apre col sottoscritto che incede per la stanza reggendo una spada di plastica sulla testa, a imitazione delle picche con teschi d’ariete degli Orchi dello stregone Saruman il Multicolore (eccolo lì, il GENDER! Sono anni che mi diverto, quando qualcuno mi dice “ma tu non sembri gay” a ribattere che amare da sempre spade e guerrieri che passano tutto il tempo a INFILZARSI forse non è meno indicativo, o forse che possiamo semplicemente smetterla con questi schemini) e stramazza a terra, colpito al cuore da una freccia dei valorosi cavalieri Rohirrim. È anche la prima testimonianza del mio costante parteggiare per i cattivi, per quella loro tenebrosa ambizione che li fa marciare verso una verità più grande della conoscenza, come direbbe Steiner.
Il primo ricordo che ho di Tolkien è dunque come il cerchio di un sasso già finito sott’acqua. Non ricordo la prima volta che vidi il cartone, che per questo motivo, a livello della mia coscienza e autoconsapevolezza, è come se ci fosse sempre stato. Come i bambini spartani, sono nato in battaglia. Tra spade e scudi. In compagnia di Gandalf, Frodo, Aragorn, Sauron il Crudele. E anche se i cattivi riscuotevano già la mia simpatia (altro grade amore interpretativo – e qui il gender si spreca! – era la strega Malefica della Disney, con la sua eleganza triste, con il suo aristocratico “O no!” alla fuga del principe. Questa sì che è gente che sa come si parla!) la scena che già allora mi regalava i brividi riguardava invece i protagonisti positivi. Certo, adoravo quando Saruman apriva una breccia nelle mura della fortezza e i pochi ma eroici Rohirrim si ritiravano nelle grotte, incalzati dalla marea nera degli orchi che ridevano e latravano la loro gioia crudele sotto la musica corale di Rosenman (great staff, by the way. Fanfara wagneriana quanto volete, ma chissenefrega). Un soldato in fuga si voltava fulmineo e menava un fendente sul ventre dell’inseguitore più vicino (che squarci brutali, sono tutt’oggi ammirato dalla brutalità di quel cartone). Non vedevi se poi sopravvivesse a quest’ultimo scatto, quasi di stizza. Ma amavo ancor di più l’alba del mattino successivo, quando re Theoden, Aragorn e i pochi sopravvissuti avevano l’audacia disperata di lanciarsi fuori a cavallo. Un’ultima travolgente aristia accompagnata da una tempesta di corni, che sembra poi doversi arrestare ed essere inghiottita da quella foresta di nemici. Ed è allora che Gandalf il Bianco arrivava con i rinforzi, oltre ogni speranza. Un vecchio mago su un cavallo bianco, vigoroso e inesorabile come un profeta o il Cristo dell’Apocalisse, che brandiva una spada mentre i cavalieri intorno lui strillavano come pellerossa. E gli Orchi fuggono urlando. Ancora oggi la ritengo una scena assolutamente superiore, per pathos, alla sua resa nel film di Jackson. Combinava due elementi così diversi. L’ultima battaglia, l’ultima corsa con le armi in pugno. Quella che combatti e corri anche se sai che ti aspettano la morte e la sconfitta, ma non per questo ti fa abbandonare i tuoi amici o ciò che hai cercato di difendere. Una galoppata nella quale tutto, proprio perché è sull’orlo del precipizio, rifulge di un’ ultima ardente bellezza. E, d’altra parte, l’enorme sollievo di un soccorso in cui ormai non speravi più, che ribalta le sorti, e ti fa vedere che non eri solo. Che altri amici stavano arrivando in aiuto alla battaglia.
Non lo sapevo allora, ma stavo già incontrando così due sindromi che mi avrebbero accompagnato sempre: il Ragnarok (gli dei ed eroi nordici che escono dal Valhalla per la battaglia finale, consapevoli che ognuno di loro ucciderà/sarà ucciso da un mostro. C. S. Lewis annoterà nel suo ultimo libro Ho creduto in Dio prima di credere nel paradiso. E persino adesso, perfino se – supponendo l’impossibile – la Sua voce mi dicesse indubbiamente ‘Ti hanno ingannato. Non posso fare niente del genere per te. La mia lunga battaglia con le forze cieche è alla fine. Muoio, figlioli. La storia sta finendo’ sarebbe quello il momento per mutare casacca? Forse che io e te non faremmo come i vichinghi: i giganti e i troll vincono, moriamo dalla parte del giusto, assieme al Padre Odino) e l’eucatastrofe coniata dal prof. Tolkien in persona, “l’improvviso ribaltamento positivo che ti fa venire le lacrime agli occhi”.
Se voleste dare un’occhiata, ecco qui:
C’era già un’altra scena, proveniente da tutt’ altro cosmo immaginativo, che amavo altrettanto. E che regalava la stessa strana carica elettrica: il momento in cui Odisseo, travestito da mendicante, si propone di partecipare alla prova dell’Arco d’Oro che Penelope ha richiesto ai Proci. Non solo il vecchio straccione tende l’arco impossibile e fa centro attraverso le dodici scuri, ma getta via i panni, ringiovanisce di colpo e, affiancato da Telemaco ed Eumeo, mentre la vecchia nutrice Euriclea (la prima tata della storia!) sbarra le porte e Atena si appollaia su una trave come una rondine, dice (alla Clint Eastwood) “E ora miro ad un altro bersaglio.” E li uccide tutti, quei bastardi. Quando, anni dopo, scoprii che anche Lewis la amava e la definiva appunto “eucatastrofica” citando l’amico Tolkien, sorrisi come chi veda chiarire a se stesso qualcosa che, in un modo o nell’altro, sentiva già da tutta la vita. Lo sapevo.
Non è cosa da poco entrare nel Regno degli Elfi, e scoprire che la magia, i draghi, gli eroi e gli Dei, Tolkien e Omero erano veri, tutti veri.
In una certa misura, fin qui, si trattava solo del potere “nudo e crudo” delle storie e delle immagini, se volete. La prima netta percezione del valore estetico delle parole in sé venne (e credo ne sarebbe stato contento) dal Fantasma di Canterville di Oscar Wilde, quando avevo sette-otto anni. Certo, amavo anche quella felicissima commistione d’humour e pathos. Ma qui si trattava anche di come le cose venivano dette, espresse, descritte. Stephen Fry (si parva licet) si innamorò a 12 anni d’una battuta dall’Importanza di chiamarsi Ernesto (“Spero, Cecilia, di non offendervi se dico con franchezza che voi mi sembrate la personificazione dell’assoluta perfezione”), tanto da ripeterla come un mantra o una litania del rosario. Per me furono accostamenti come “Anch’egli si alzo con un debole grido di gioia, le prese una mano e, chinandosi con la grazia dei bei tempi antichi, gliela baciò. Le sue dita erano di ghiaccio, le sue labbra bruciavano come fuoco, ma Virginia non vacillò mentre lui la guidava attraverso la sala buia”.
Credo di non sbagliare nel sostenere che parte consistente dell’incantesimo dello stile di Wilde risieda negli accostamenti tra i sostantivi e i colori accesi degli aggettivi. Tinte così limpide che potrebbero trapassare uno scudo. Cose come “La neve ricoprì l’erba col suo gran mantello bianco, e il Gelo dipinse d’argento tutti gli alberi”. Nelle succinte note biografiche lessi anche che Wilde (nato lo stesso giorno di mio fratello e NON MIO, argh!) aveva subito un processo e una lunga e dolorosa incarcerazione. Anche qui, quando anni dopo scoprii che Wilde era stato condannato per provare ciò che faceva sussultare il mio stesso cuore, l’emozione fu una strana commistione di sorpresa e (non saprei dirlo meglio, temo) non-sorpresa. Di conferma. Come poteva essere altrimenti, visto quanto mi colpiva e sentivo affine il suo modo di indicare persino certi dettagli apparentemente insignificanti? Come certe rivelazioni che gettano una luce su una persona che già conosci, i conti tornavano finalmente.
Ripercorrere davvero gli anni delle elementari dovrebbe includere tante, troppe cose: una serie pressoché infinita di libri (Lupo Solitario, e molto più i romanzi dei Libri Game), cartoni (sono più figlio dei Cinque Samurai che dei Cavalieri dello Zodiaco. Ma come scusante posso accampare che ero innamorato di Rasta-Signore della Guerra e Demone delle Illusioni), fumetti (Zagor e Martyn Mystere). Le estati divine (come direbbe il Camus delle “Nozze a Tipasa” o il Pavese del dialogo “I due”, dove Achille e Patroclo ricordano quei mesi che scorrevano in un lampo e i giorni che non passavano mai)) sulla spiaggia di Follonica, o sul dondolo in giardino, nella nostra casa sugli Appennini, aspettando che mia madre arrivasse con la corriera e un nuovo manuale dei giochi di ruolo (che leggevo famelico più per gli elementi narrativi che neanche per le partite). Devo però correre a una data spartiacque. Dove, ancora una volta ma con un’intensità mai conosciuta prima, tanto da diventare una sorta di cartina di tornasole , un’esperienza personale e una lettura si sarebbero illuminate a vicenda.
Non è cosa da poco entrare nel Regno degli Elfi, e scoprire che la magia, i draghi, gli eroi e gli Dei, Tolkien e Omero erano veri, tutti veri.
Avevo nove anni e i miei genitori avevano portato mio fratello e me a trovare un’anziana amica di mia nonna, che viveva a Gaiole. Era un bel sabato d’autunno ed erano anche le prime settimane della mia prima, effettiva lettura de Il Signore degli Anelli di Tolkien. A sua volta una sorta di riscoperta, visto che conoscevo la trama (per la prima metà, fin dove arrivava Bakshi) e i personaggi a menadito. Amando già i racconti fantastici, mi trovavo nella situazione di un ebreo dell’impero romano, che dopo anni trascorsi nelle sinagoghe di provincia, possa finalmente contemplare il grande Tempio di Gerusalemme, e aggirarsi estasiato nelle vicinanze del Santo dei Santi. Era come passare dagli schizzi al grande capolavoro finale, o dagli echi alla voce vera e propria. Tolkien non era bello. Era al di là di ogni speranza.
E fu proprio con i capitoli iniziali negli occhi e nel cuore (ero al Concilio di Erlond, se ricordo bene) che guardavo il paesaggio dal finestrino, con il libro accanto sul sedile, come un talismano col quale non si debba interrompere il contatto, fosse solo con le mani. Dopo aver pranzato dalla nostra ospite, andammo a vedere una piccola cascata. Ricordo che parcheggiamo la macchina sul bordo della strada, e scendemmo per una ventina di metri, tra gli alberi e il tappeto di foglie. Il sole stava tramontando, ma era una giornata di ottobre, calda e luminosa. Davanti a noi avevamo la cascata, illuminata di spalle. Non credo fosse alta più di otto-dieci metri. Qualunque somma di dettagli e particolari risulterà sempre, sempre inadeguata a ciò che provai quel giorno. Parlare della luce dorata che filtrava dalle foglie rosse e brune, degli spruzzi d’acqua, del profumo, non basta. Posso solo dire che non avevo mai visto qualcosa di così bello. E l’enfasi va tutta sul così. Fu come se per una frazione di secondo mi mancasse il fiato, e la prima parola che mi attraversò la mente fu “Elfico”. Non è un trucchetto retrospettivo: ricordo benissimo che subito dopo articolai un ò meglio quell’impressione fortissima, dicendomi che “allora Tolkien aveva ragione”, che il mondo ospitava davvero una misteriosa bellezza magica, che tuttavia mi pareva già di conoscere, come se si appellasse a tutto un paesaggio interiore, atto di personaggi, dettagli, accenni presenti nelle storie che amavo. Era una sorpresa, ma anche una riscoperta, e, anche qui, una riconferma. Eppure dire questo è indicare solo la spuma del mare. In fondo non si trattava di eventi o pagine specifiche (per quanto alcune sembravano incarnarlo a loro volta) ma di uno stato di cose, di una certa qualità. Come una nota musicale, che contenesse tutto che mi colpiva e al tempo stesso lo superasse. Non avevo mai provato nulla di simile. Probabilmente resati fermo in quello stato un solo secondo, eppure, tutto il pomeriggio trascorse come trasfigurato. Ancora oggi posso tornarci col pensiero e immergermi. Anni dopo, fu con emozione quasi sconcertata che scoprii come Lewis conoscesse bene ciò di cui sto balbettando. E lo sapesse additare molto meglio di me.
È difficile trovare le parole adatte per descrivere la sensazione che provai; la parola più vicina ad esprimerla è “l’enorme beatitudine” dell’eden di Milton (purché si dia a “enorme” il suo antico e pieno significato). Si trattò, naturalmente, di una sensazione di desiderio; ma desiderio di che? Tutto era durato non più di un attimo; eppure, al confronto, nulla mi era parso così straordinario…Desiderai con quasi dolorosa intensità qualcosa che non potrà mai essere descritto e infine, come negli altri casi, mi ritrovai nel medesimo istante già lontano da quel desiderio e bramoso di riaccedervi.
Chiamatelo Sublime come i Greci e i Romantici, Numinoso come Frazer o Otto. Per me l’espressione più bella resta quella di Pavese, nell’ultima battuta dei dialoghi con Leucò:
E credi ai mostri, credi ai corpi imbestialiti, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
Dilla dunque, la cosa.
Quei loro incontri.
Le Ninfe, gli Elfi, gli Dei… chiunque/qualunque cosa fosse, aveva posato i suoi occhi dorati su di me, e mi aveva sorriso e parlato in una lingua che non mi stupivo di conoscere già. L’avevo incontrato. E sapevo che tutto il meglio e il peggio della mia vita, da quel momento in avanti, avrebbe in qualche modo avuto a che fare con quel momento. Ne sarebbe stato un’eco, una valorizzazione, o un tradimento.

Tutto ciò viveva in perfetta, gioiosa e serena simbiosi con la mia religiosità di bambino. Nessun trauma o coercizione, sia per l’estrema ampiezza di vedute dei miei genitori che per il mileu assolutamente multi-culti della famiglia (grazie alla mia meravigliosa nonna psicologa, ero già un discreto esperto in mitologia e religioni comparate) che per l’ambiente sereno e giocoso delle suore salesiane, che ricordo tutte dotate di grande affetto, un sincero desiderio di far star bene i bambini e una notevole dose di senso dell’umorismo. Niente di tenebroso o opprimente. La mia maestra mi fece addirittura il regalo (conoscendo il mio amore per loro rispetto agli esecrati cow-boy) di farci fare uno spettacolo di Natale dalla parte degli Indiani d’America (altro mio cattivo preferito era l’avversario di David Crockett, un capo tribù dal poco solenne nome di Stecca Rossa. Sic). Non solo amavo la dimensione narrativa dalla Bibbia e della fede (dall’ambientazione egizia e più generalmente medio-orientale delle vicende di Mosè e del Nuovo Testamento a narrazioni molto più domestiche eppure fiabesche come Don Camillo), ma Gesù era davvero un amico con cui chiacchieravo anche io per la strada tornando a casa.
Conoscevo così bene il Vangelo, che spesso mi rileggevo la sera, da spiegare alla suora catechista che il Cesare di cui parlavano Luca e Matteo NON ERA GIULIO CESARE. Amavo fare il chierichetto, la ricchezza dei passaggi liturgici (come diceva Bill Maher, “Non so se i cardinali cattolici siano tutti gay, ma cavolo se sanno tirar su uno spettacolo!”), le letture, e il silenzio che ti avvolgeva entrando in chiesa. Un silenzio vivo e attento. Dove quel Re immensamente buono, tanto da considerarsi tuo amico, ti capiva e conosceva. Comprese le storie che amavo e che, visto che le sentivo così necessarie e mie, così legate al meglio della mia vita, erano anche legate a Lui, che aveva la saggezza di Gandalf e il giovane coraggio di Aragorn. Sapevo già distinguere la diversa qualità d’un emozione narrativa o immaginaria dal mondo vero della religione e della fede, ma sentivo anche che le due cose sconfinavano eccome, anche solo perché ero sempre io a provarle entrambe. C’era una dimensione magica nei miracoli ed eucatastrofica (ovviamente) nel Mar Rosso o nella Resurrezione. Al tempo stesso, le emozioni che la narrativa e le storie mi suscitavano avevano a che fare col cuore e col centro della vita tout-court. Mi era stato insegnato che Dio non solo ci aveva creato, ma faceva il tifo per ciò che eravamo. Per me dunque Gesù sapeva quanto amassi le battaglie e gli incantesimi. Era stato lui a mettermeli dentro, no?
Tutto ciò aveva una sua dimensione icastica nella notte di Natale: lì la magia era differenziata, ma unitaria. Il freddo della notte inoltrata, il profumo dell’incenso e delle candele, la lunghezza diversa e piacevolmente stancante della messa, il presepe e il racconto della Nascita, erano tutt’uno con l’emozione di scrutare il cielo buio, e sapere che da qualche parte stava volando Babbo Natale.
Ed è con la riposante fiducia in questa alleanza che arrivai all’altra grande svolta della mia vita. Un evento che a sua volta mi colpi come una martellata, o una pugnalata, non meno struggente e caro della cascata elfica nel bosco. Ma con una notevole differenza: che stavolta si accompagnava a un tumulto di emozioni non del tutto rassicuranti, e niente affatto serene. E che sembravano suonare una musica in netto contrasto con tanto di ciò che conoscevo e amavo con pari trasporto, ma senza turbamento.
Gli inizi sono sempre difficili, scriveva il rabbino Chaim Potok. Uno dei versi più divini della Bibbia è proprio l’autorevolezza fondativa di quel In Principio. E un grande ebreo del nostro tempo, Oliver Sacks, ricordava il detto di Kierkegaard per cui la vita va vissuta in avanti, ma la si capisce guardandosi indietro. Più ci penso, più posso spingermi nel pozzo del passato, e rintracciare tracce precedenti della mia omosessualità.
Persino nei fantasy di Lupo Solitario ebbi le guance in fiamme quando lessi del giovane mago Oberon (il primo biondo sbagliato, direbbe Mario Fortunato) che dopo una faticosa giornata di viaggio si massaggiava il petto in una tinozza d’acqua calda. Ma un sol punto fu quel che mi vinse. Eros poteva aver certamente saggiato la mia armatura con qualche frecciatina di preparazione. Ma adesso che mi aveva studiato, come i Rohirrim al Fosso di Helm, sapeva dove puntare per trapassare metallo e cuoio, e farmi sanguinare davvero.
Tornami a mente il dì che la battaglia
D’amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
Avevo 11-12 anni, ed eravamo ad un campo estivo della parrocchia, sugli Appennini, a inizio settembre. Era sera e avevamo finito di giocare; alcuni dei miei compagni tornavano dalle docce. C’era un ragazzo di nome Marco (biondo sbagliato n.2) che conoscevo solo di vista. Ricordo che io stavo per entrare nel casermone in legno delle docce e lui invece ne usciva. Indossava i jeans e aveva un asciugamano sulla spalla del petto nudo, già atletico. Nell’incrociarci mi sorrise.
E anche stavolta fui come investito da un’onda. La luce dorata della sera d’estate, il profumo frizzante dell’aria e del legno, quei riccioli d’oro, la pelle abbronzata, le linee tornite dei muscoli, il sorriso. Mi sembrò di prendere fuoco, e mi sentii improvvisamente spaventosamente goffo. Come con la cascata, non aveva mai visto niente di così bello. Solo che stavolta era un qualcuno ben preciso, che non mi conosceva e non condivideva nessuno dei miei interessi (io mi ero portato dietro un libro su Artù e il Santo Graal), e che un istante dopo era già a parlare di calcio con altri ragazzi. E di ragazze. Qualunque reazione sarebbe stata sbagliata, inadeguata, ridicola. Mi vedevo “da fuori”, stranamente consapevole di me stesso, emozionato come fossi inciampato in un tesoro in un campo, e al tempo stesso confuso e spaventato. Persino l’amarezza nel sentire (confuso, ma esplicito) quanto tutto ciò fosse incomunicabile (non solo perché sbagliato, perché non-ci-si innamora-dei-ragazzi, ma proprio perché affondava le radici nell’indicibile) mi era stranamente cara. Persino rigirarsi quello struggimento dolceamaro, quel ferro nelle viscere mi sembrava preferibile al non provarlo affatto.
Quando, anni dopo, lessi nella Vita Nova che Dante si era innamorato a nove anni di Beatrice, vedendola a una festa di bambini, al netto della evidente cornice allegorica, non ebbi fatica a credere all’ultima verità psicologica del racconto. Come direbbe Auden, innamorandoci saltiamo improvvisamente dall’interesse per l’esistenza dell’altro/altra allo stupore per la sua essenza. Io e Marco non avevamo quasi niente in comune, e in un altro avrei giudicato i suoi interessi e atteggiamenti indifferenti o persino noiosi. Invece, eccolo lì, a bruciare come una fonte di calore anche quando non lo scorgevo direttamente, a mensa o nel campo da gioco, eppure un radar costante mi segnalava la presenza incandescente.
Niente di sessuale, la questione era infinitamente più ampia: ricordo bene come trascorsi sveglio quella notte in dormitorio, mentre speravo l’insperabile. Che quel ragazzo sentisse, come attraverso delle onde, che io ero sveglio, che mi sentivo solo e che si infilasse accanto a me, e mi abbracciasse. E fu anche la prima volta che avvertii con nettezza che tutto questo mare di emozioni, assolutamente mie e che non sentivo affatto in contraddizione con altri aspetti di me stesso, che conoscevo da un pezzo, non quadrava affatto col sereno ordinamento del mondo che la mia educazione cattolica mi aveva dato. Sapevo bene (ero il capo-chierichetto!) che avrei dovuto chiedere a Gesù di farmi sentire la Sua vicinanza in quel momento di confusione, nostalgia di casa. E ricordo benissimo anche che mormorai un “Gesù, scusami, ma non ce la faccio. Sono stanco. Ho bisogno di lui” prima di scivolare in un sonno inquieto, come dicono gli scrittori a fine capitolo.
Le dramatis personae era già tutte elencate. Il sipario si era aperto. In un certo senso, gli anni successivi sarebbero stati solo uno sviluppo di quest’unico dramma. Come e se riuscire a conciliare l’emozione suscitata dalla terra degli Elfi, le cui magie e confini bizzarri non mi spaventavano affatto, e questa nuova fitta al cuore e alle viscere, sul limitare di un altro regno, che invece non conoscevo, eppure mi chiamava a sua volta come un’altra patria. Sapevo solo che entrambe le ferite correvano sul mio corpo, e che se già la prima mi differenziava da molti coetanei (mi ero TRAVESTITO DA DANTE A CARNEVALE ALLE ELEMENTARI, SIC) dandomi però anche il prestigio del narratore e dell’inventore di giochi e avventure, questa nuova differenza era molto più difficile da gestire e comunicare. Sapevo che per la Chiesa non era né normale, né giusta. Cosa ne pensava il Grande Re, l’Amico che conosceva i moti più profondi del mio cuore, di questo fiore complicato che mi era sbocciato nel petto? Erano due terre nemiche, costrette a farsi guerra, oppure si trattava d’un unico paesaggio?
Gli anni, le esperienze e le letture successive avrebbero documentato e alimentato i miei tentativi di trovare una risposta, e una identità corrispondente. Per molto tempo mi parve che non fosse alcuna conciliazione possibile, ma solo un grande abisso, come quello che separa il Seno di Abramo dalla Gheena della parabola di Epulone. Non potevo saperlo, ma era anche il contrasto tra la pace edenica dell’infanzia e i turbamenti dell’adolescenza. L’idillio era rotto. Avevo morso il frutto dell’Albero della Conoscenza, mi si erano aperti gli occhi, e avevo scoperto che ero nudo.
[continua…]
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