Perdere la fede, riconoscere l’omosessualità, abbandonare gli dei ma non le loro storie; una serie di tracce autobiografiche attraverso i libri.
di Edoardo Rialti
E riverso sulla spalliera, le braccia penzoloni, travolto e più e più volte scosso da brividi, mormorò l’eterna formula del desiderio, inammissibile in quel caso, assurda, infame, ridicola, e tuttavia qui ancora santa e veneranda. “Ti amo!”
Thomas Mann
Gli dèi sono cose insolite agli occhi mortali, eppure non lo sono. Egli non aveva la più debole idea fino ad allora del loro aspetto, e perfino dubitava della loro esistenza. Ma al primo vederli conobbe che li aveva sempre conosciuti e comprese la parte che ciascuno di loro aveva avuto per molte ore nella sua vita, mentre egli si era creduto solo, tanto che ora poteva rivolgersi a loro, a ciascuno di loro, e chiedere, non: “Chi sei tu?”, ma: “Eri TU, dunque, per tutto il tempo?”.
C. S. Lewis
Gli anni successivi al mio primo innamoramento per un ragazzo furono come il progressivo allontanarsi d’una nave: il porto che conoscevo da sempre, e i profili dell’entroterra restavano alle mie spalle, e si allontanavano e sbiadivano. Davanti a me si stendeva l’emozione e il timore del mare aperto. Per il corpo e per la mente, che si influenzavano e spronavano a vicenda.
-->Per Dostoevskij, le tentazioni di Cristo nel deserto sono una pagina così geniale, un così portentoso compendio delle costanti ricadute della natura umana nell’adorazione dei bisogni materiali, del magico-miracoloso, e del potere, da costituire una sorta di prova (diabolica) dell’ispirazione divina del Vangelo. Io ho sempre trovato altrettanto geniale (umanamente geniale) la narrazione della Cacciata dall’Eden. Non c’è bisogno di credere in Dio per credere a quel racconto. Quel giardino lo conosciamo tutti, fosse pure come dimensione psichica. L’evoluzione è al contempo un’ascesa e una caduta. Cresciamo in consapevolezza (e quindi in empatia e sofferenza) ma al prezzo di un distacco irrevocabile dalla vastità riposante che abbracciava e superava. E tutto questo non è vero solo a livello collettivo, ma anche individuale. Pensate al vostro primo orgasmo.
Io ebbi la fortuna di fare il gran salto direttamente con un compagno di classe delle medie (a chi oggi mi dice “ma io allora giocavo con le macchinine”, la tentazione di ribattere “E io coi macchinisti” è sempre molto forte), e ricordo benissimo come, quella sera a cena, colori e suoni mi sembrassero improvvisamente più intensi, e pervasi da una sorta di fischio acuto, sempre sul punto di forare la superficie. Una strana commistione di nuova forza- come scoprendo una fontana cui poter attingere in qualsiasi momento- e nuova vulnerabilità (fosse solo perché questo desiderio adesso rendeva i rapporti con altre persone più attraenti e al tempo stesso difficili). L’antico scriba ebreo aveva ragione: “Allora si aprirono loro gli occhi, e si accorsero che erano nudi.”
L’umorismo è un ottimo compagno di viaggio. Ebbi la fortuna di scoprire proprio in quegli stessi anni i libri di Luciano De Crescenzo sulla mitologia e la filosofia greca, e ho già raccontato altrove quanto gli sia debitore. Nuovo Socrate-Esiodo partenopeo, sapeva unire pathos e sincera gratitudine per i maestri e le leggende che raccontava al sole riposante della sua ironia mediterranea. Quando in televisione raccontava Zeus che si incazza ed esclamava “Gesù Gesù!” per poi fermarsi, fissare la telecamera, aprire le mani e precisare “Cioè, non è che avesse detto veramente Gesù Gesù, eh” io ero cotto. Avevo “visto” che umorismo e cultura sono tutt’uno, in questa capacità di muoversi avanti e indietro nel tempo, nel cogliere collegamenti e al tempo stesso irriderli. Che nei suoi libri e nelle sue trasmissioni l’omosessualità fosse una realtà normalissima, ani una sorta di marchio d’elezione dei suoi (e miei) amati Greci, è stato sicuramente un ottimo condimento. Molto prima di leggerlo davvero in Omero, con lui avevo già scoperto che “Afrodite è amante del riso”. Con De Crescenzo venne, naturalmente, il Simposio di Platone- e Lewis aveva ragione le sostenere che un uomo non dovrebbe morire senza averlo letto. Al Wilde delle Fiabe si aggiunse quello di Dorian Gray, che mi inebriò. Il ricordo della fontana di pietra sul Monte Amiata, d’estate, mentre ero a trovare un amico, dove lo iniziai a leggere per la prima volta, è un altro di quei momenti dove posso tornare quando voglio, tanto è vivido. Anche adesso posso sentire la freschezza del bordo di pietra che si scalda al sole, il mormorio dell’acqua alle mie spalle, gli spruzzi che mi solleticano la nuca, e le prime parole del libro.
Lo studio era intriso d’uno splendido odore di rose, e quando la lieve brezza estiva frusciava tra gli alberi del giardino, dalla porta aperta penetrava il pesante profumo delle serenelle, o quello più delicato dei rosaspini. Sdraiato nell’angolo di un divano coperto di stoffe persiane, e fumando, secondo la sua abitudine, un numero indefinito di sigarette, Lord Henry Wotton poteva vedere i fiori di un’acacia, colorati e dolci come il miele, quei rami fragili che pareva potessero appena sopportare una bellezza tanto splendida.
Che i miei ospiti fossero andati a messa, e io fossi rimasto fuori a leggere, è un altro dettaglio che già all’epoca mi colpì come sintomatico d’un intero mutamento d’orizzonte. In terza media la mia tesina spaziava da Dorian Gray a D’Annunzio (recitati a memoria La Pioggia nel Pineto) fino alle droghe. Diciamo che avevo già abbozzato il primo manifesto programmatico del mio estetismo decadente.
Le letture, come tutte le esperienze, funzionano a ragnatela. Ci sono sempre fili da seguire, suggestioni, rimandi. Chiedete e vi sarà dato, assicurava Cristo. Nella prefazione al Dorian lessi che si trattava del primo libro esplicitamente omosessuale contemporaneo, cui sarebbero seguiti La morte a Venezia di Mann e La Ricerca di Proust. Proust sarebbe arrivato qualche tempo dopo, ma nella biblioteca del mio quartiere trovai subito Mann, ed estrassi La Morte dallo scaffale. È un altro momento che ricorderò sempre.
La copertina era un frame dell’adattamento di Visconti, solo che qui Tadzio/Bjorn Adresen sembrava più grande d’età e atletico (in effetti, nel film lui costituì l’unica parziale delusione). Su quella copertina, sembrava davvero ardere della solenne gravità adolescenziale delle statue greche o d’un dipinto di Botticelli. Sia il libro che il film- per molti aspetti persino di più, essendo uno dei pochi adattamenti che supera l’originale e Dirk Bogarde sapeva recitare anche solo con le spalle- mi lasciarono senza parole. Per come raccontavano lo strazio dolcissimo e tragico del desiderio, certo, ma l’omosessualità in entrambi era solo la punta dell’iceberg, o l’occasione montaliana, per una questione più vasta, seppure inestricabilmente intrecciata. Quella dell’esperienza artistica. È il motivo per cui, in quegli stessi anni, scoprii l’altro film che tutt’oggi costituisce un mio amore altrettanto irrinunciabile e fondamentale (e un altro caso di adattamento migliore dell’originale): Blade Runner. Da allora sono state come due pupille che insieme hanno dato profondità e prospettiva allo sguardo. Entrambe, con la maschera di Von Aschenbach che si scioglie al sole mentre tende le mani morenti verso Tadzio in mare e il viso sorridente e rigato da pioggia, sangue e lacrime del replicante Roy, mi hanno fatto “vedere” (espressione più potente e radicale del mero “capire”) che noi ci protendiamo sempre un certo “stato dell’essere”, e invece incappiamo in una mera sequenza temporale. Che l’arte è proprio la consapevolezza commossa di questa vibrazione indefinibile eppure presente, che magari trionfa sul viso amabile di un ragazzo, o in due note al pianoforte, e il tentativo di indicarla, esprimerla, consegnarla. E che questa consapevolezza al tempo stesso ti unisce agli altri e ti isola. Prendete la scena in cui Aschenbach osserva Tadzio che viene baciato sulla guancia dall’amico. Il musicista avvampa e si guarda intorno tra il vergognoso e l’emozionato, come a sincerarsi se altri si siano accorti di un gesto così prezioso. Ma la vita della spiaggia prosegue come sempre, e quello che per lui è un salto vertiginoso, per i due adolescenti non è che un gesto d’affetto naturale e senza particolari implicazioni. La verità, antica come le grotte di Lascaux, è che Aschenbach è l’autocoscienza dell’intera spiaggia (così come il replicante Roy lo è di luoghi e cose “che voi umani non potreste immaginare”). Proprio perché egli non vive e basta, ma si vede vivere, anche le qualità e il valore delle esperienze altrui lo colpiscono con una intensità straziante.
Fin dalla mia prima esperienza con un compagno di classe, scoprii che, sebbene gli altri ragazzi avessero idee ben precise su cosa volesse dire “essere normali, avere la ragazza, etc etc”, era abbastanza facile indurli ad esperienze che a giochi conclusi si affrettavano a ritrattare”
Come avrebbe detto Lewis, Sarei considerato un tipo bizzarro se, in conclusione, suggerissi che proprio la tensione interna al cuore di ogni storia tra il tema e la trama costituisce dopo tutto la sua somiglianza principale con la vita? E se le storie falliscono, la vita non commette forse lo stesso errore? Nella vita reale qualcosa deve succedere, come nelle storie. È questo il problema. Noi miriamo a uno stato e troviamo solo una successione di eventi nei quali quello stato non si incarna mai del tutto. La grandiosa idea di trovare Atlantide che ci prende nel primo capitolo di una storia d’avventura è capace, una volta che il viaggio è iniziato, di scivolare nella mera sensazionalità. Ma ugualmente nella vita reale l’idea di un’avventura svanisce man mano che si presentano i dettagli giornalieri. Questo non perché l’asprezza del momento o il pericolo la mettano da parte. Altre grandi idee – tornare a casa, rivedere l’amata – eludono a loro volta il nostro abbraccio. Supponete pure che non ci sia delusione; persino così, beh, eccoci qui. Ma ora qualcosa deve succedere, e poi qualcos’altro ancora. Tutto quello che succede può essere piacevole: ma può mai una serie del genere incarnare quell’autentico stato dell’essere che desideriamo?
Proprio per questo, come notava Thomas Mann, “uno scrittore è una persona per cui scrivere è più difficile che per gli altri”. Proprio per la consapevolezza del peso che ogni lettera cerca di portarsi dietro, spesso senza riuscirci.
In una triade ideale gli affianco (moooooooolto a distanza) anche lo Stand by me di Reiner, che a sua volta dialogava sia con la mia omosessualità (mi presi una cotta notevole per River Phoenix) che col mio desiderio di essere uno scrittore. è un altro (piccolo-grande, stavolta) viaggio che, alla fine, dopo l’ultima battuta fuori campo “Non ho più avuto amici, come quelli che ho avuto a dodici anni. Gesù, ma chi è che li ha?” ti fa trarre un profondo sospiro e, al pari di Sam Gamgee, e dire “Sono tornato.”
Avevo già notato una cosa, presente fin dall’infanzia, che però adesso spiccava sempre più netta. Per me, leggere una storia che colpisca davvero è sempre un’esperienza che getta una certa luce sulla vita in generale.
Tutto questo non restava solo un viaggio della mente, del cuore e degli occhi. Fin dalla mia prima esperienza con un compagno di classe, scoprii che, sebbene gli altri ragazzi avessero idee ben precise su cosa volesse dire “essere normali, avere la ragazza, etc etc”, era abbastanza facile indurli ad esperienze che a giochi conclusi si affrettavano a ritrattare (inciampavano letteralmente nei loro ormoni), salvo poi ripresentarsi presto a casa mia “per fare i compiti”. Certo, come no. Tutt’oggi, per quanto benedica app come Grindr, sono un entusiasta sostenitore delle seduzioni in campo aperto, in contesti non truccati (è un pò come con la pesca: via, chi baratterebbe una piscina d’allevamento con un bel fiume di montagna?). Anni di molto divertimento, ma nessun innamoramento significativo.
Fu con questo bagaglio (c’era anche il decadentismo porno-soft della Anne Rice migliore, quella del primo Intervista col Vampiro non ancora appesantito da decine di scialbe ripetizioni e de L’ora delle streghe) che arrivai al liceo. Raggiungevo a piedi il Michelangiolo con il Mahler di Visconti e Loreena McKennit nelle cuffie. Sedevo nel chiostro di Santa Maddalena dei Pazzi e leggevo Walter Pater. Avendo fatto delle medie spacca-ossa (latino già in seconda) praticamente vivevo di rendita. Ogni pomeriggio alle 16.30, mettevo il bollitore sul gas, preparavo un Earl Gray con latte, sedevo sulla poltrona di camera mia, appoggiavo i piedi sul letto e mi tuffavo nella letteratura inglese e tedesca, mentre Enya cantava dal lettore cd: Keats, Byron, il De Profundis di Wilde Mann, ma anche i saggi di Mario Praz, che mi hanno insegnato il piacere della comparazione. Facevo teatro ed ero un master dei giochi di ruolo.
Avevo già notato una cosa, presente fin dall’infanzia, che però adesso spiccava sempre più netta. Per me, leggere una storia che colpisca davvero è sempre un’esperienza che getta una certa luce sulla vita in generale. Voglio dire che il mood del libro stesso è come se diventasse una lente con cui osservare e vivere tutto il resto, che mi piaccia o no. Per questo, adesso che ne sono consapevole, so anche scegliere di quale sguardo sento il bisogno in un determinato momento. Se voglio che la doccia e il caffè alla finestra abbiano qualcosa di noir, come per il Marlowe di Chandler, o un western alla MacCarthy. Per qualcuno parrà mero estetismo, ma sarebbe un grosso fraintendimento. Quello che sto cercando di dire e che, per me, una storia ha sempre il potere di continuare a respirarmi addosso. Il mondo diventa vichingo, o lucreziano. Ho passato settimane a guardare il mondo “alla Mann” o “alla Dick”, e ci sono stati momenti in cui mi sono perfino spaventato, domandomi se non fosse una passività pericolosa, come se il mio fosse un mero riflesso di volti altrui. Oggi so che non è così. È uno dei miei tratti che conservo più gelosamente, e non smetterò mai di essere grato di questo patto speziale con la narrazione, che ti fa vivere un pranzo di famiglia con gli occhi d’un mafioso di Puzo o osservare le Olimpiadi con le immagini di Pindaro. Però mi ci è voluto del tempo per capire come distinguere il dono dai suoi possibili rischi e da alcune implicazioni non necessarie, aggrovigliate con altri nodi interiori. Un elemento da tener presente, per capire il perché di certi miei passi negli anni successivi. Per me, le immagini, il valore di certe “scene” sono venuti sempre prima di tutto il resto: filosofia, coerenza razionale, etica, teologia vi erano comprese ed espresse. Anzi, posso dire che mi sono trovato spesso a costruirmi dei sistemi di pensiero che appunto fossero la mia personalissima traduzione d’una intuizione o suggestione narrativa.
La metafora iniziale della barca funziona davvero: Tolkien e quel particolare tipo di immaginario o, pur mai rinnegato, tuttavia mi appariva comunque come un “altro” mondo, cui magari ritornavo con improvvise fiammate che però mal si conciliavano con l’orizzonte nel quale vivevano altri amori, ed altre scoperte. Come potevano conciliarsi Frodo, Gandalf, quel limpido eroismo cavalleresco che, almeno per me, era in inscindibile nesso con la fede cristiana che aveva accompagnato la mia infanzia, e il tormento e il desiderio di un Tonio Kroger, l’ironia raffinata di Lord Henry Wotton, il pulsare bacchico della Santiago di Loreena McKennit, il profumo insostenibile dei fiori nella New Orleans di Anne Rice, la sfida prometeica di Rutger Huaer in Blade Runner?
Anche se Battiato e Wilde mi avevano insegnato ad apprezzare le suggestioni disincantate di un misticismo interreligioso, lo struggimento d’un chiostro al primo mattino, o del canto di un muezzin, in fondo sapevo che nessuno dei due schieramenti avrebbe mostrato pietà per l’altro. Non potevano aver ragione entrambi.
Come conciliare il brivido lungo la schiena suscitato dalla cavalcata di re Theoden fuori del Fosso di Helm con la fitta all’inguine d’un orgasmo pensando a un ragazzo che avevo visto in palestra o all’intervallo? Una contrapposizione che pare incomprensibile e ingiustificata se non si capisce che, in realtà, la vera opposizione era tra le Canzoni dell’Innocenza e quelle dell’Esperienza. Tra ciò che il mondo della religione mi aveva comunicato come “approvato/approvabile” e ciò che invece avevo scoperto come parimenti caro e personale, e che pure contestava o contraddiceva molto, se non tutto, di quella visione del mondo. Tolkien si portava dentro e dietro anche il Cristianesimo, e tra Cristo e l’omosessualità non c’era altra soluzione che un’opposizione diretta ed esplicita. O tornavo in sella accanto a Gandalf (e allora tutto il nuovo mondo che avevo abbracciato andava combattuto al pari degli Orchi come tentazione, male e peccato) oppure dovevo abbandonare l’incanto che mi aveva parlato nella cascata elfica conosciuta da bambino, tra le bellezze e i tormenti della mia rivolta atea/decadente. E anche se Battiato e Wilde mi avevano insegnato ad apprezzare le suggestioni disincantate di un misticismo interreligioso, lo struggimento d’un chiostro al primo mattino, o del canto di un muezzin, in fondo sapevo che nessuno dei due schieramenti avrebbe mostrato pietà per l’altro. Non potevano aver ragione entrambi. Non ci sarebbero stati prigionieri.
Poi, un nuovo inatteso cortocircuito, dove solo la consueta ragnatela di scoperta di associazioni poteva condurmi, e solo un altro ex pagano, che ben conosceva i triclinii dei simposi, poteva sferrarmi.
Amavo già due romanzi adattati per il cinema e interpretati da Anthony Hopkins, Casa Howard (Dei, la scena in cui Wilcox si copre di scatto gli occhi per non mostrare le lacrime) e Quel che resta del giorno (Dei, anche qui, gli archi della colonna sonora di Richard Robbins mentre la telecamera della ripresa finale si allontana da Darlington Hall e spazia sui campi intorno). In entrambi c’erano così tanti dettagli, così tanta atmosfera di quella che consideravo una patria dell’anima, l’Inghilterra. Pensavo che lo stesso mi avrebbe aspettato in Viaggio in Inghilterra di R. Attenborough. Il titolo suonava bene. Mi sbagliavo. In questa versione cinematografica della vita dello scrittore C. S. Lewis (di cui non sapevo ancora niente) c’era molto di più. Tutto quello che già conoscevo e amavo (Oxford nella nebbia del primo mattino, le giacche di tweed e gli scapoli che passeggiano conversando di letteratura, il profumo del tabacco, il the mentre si sbriga la corrispondenza dei lettori, le lezioni sulle allegorie medievali) in Wilde, Pater, W. Woolf e Forster, ma non solo. C’era anche uno scrittore di fantasy cristiano. Lewis mi affascinò subito e decisi di scoprire qualcosa di più. Ricordo bene il reparto di letteratura inglese al primo pian della compianta Marzocco di Firenze. A destra delle scale, ad altezza del torso. Ecco i libri di Lewis. Ne presi uno, Sorpreso dalla Gioia, e dalla quarta di copertina scoprii che Lewis era il miglior amico di… J. R. R. Tolkien. Bam.
Quella sera, divorai l’autobiografia di Lewis, la storia della sua conversione, e, tanto per citarlo a proposito dei libri di MacDonald, che su di lui ebbero un effetto simile “il Cielo si capovolse.” La quantità di esperienze condivise mi lasciò senza fiato. Ci sono autori con i quali condividi persino l’amore per certi dettagli o sfumature dell’esperienza. Lewis fu un incontro simile. Il valore dei miti e di un certo modo di leggere, quel certo modo immersivo di vivere i libri e le storie che già accennavo prima, le trafitture di quella che lui chiamava Gioia, che io associavo a Tolkien e lui ai miti nordici, perfino un certo modo di bere il the, o di inspirare l’aria autunnale…anche lui li conosceva.
Fu davvero un piccolo rinascimento privato, una riconessione. Prendete una pagina come questa, degna di John Donne.
Forse avrete notato che i libri che veramente amate sono legati insieme da un filo segreto; sapete benissimo qual è la caratteristica comune che ve li fa amare anche se non riuscite a tradurla in parole; ma la maggior parte dei vostri amici non la vede affatto e si chiede perché, se vi piace questo, vi piaccia anche quello. Ancora, forse vi siete trovati davanti a un paesaggio che sembrava incorporare quello che avete sempre cercato e poi vi siete girati verso l’amico al vostro fianco, ma alle prime parole tra voi si è aperta una voragine. E non è forse vero che le vostre amicizie più durevoli sono nate nel momento in cui finalmente avete incontrato un altro essere umano che avesse qualche sentore, sebbene vago ed incerto anche nei migliori amici, di quel qualcosa che desiderate sin dalla nascita e che cercate da sempre di trovare, di vedere e di sentire sotto il flusso di altri desideri ed in tutti i temporanei silenzi, tra tutte le passioni più forti, notte e giorno, anno dopo anno dall’infanzia alla vecchiaia? Non l’avete mai posseduto. Tutte le cose che hanno mai posseduto profondamente la vostra anima ne sono state solo degli indizi, barlumi allettanti, promesse mai completamente realizzate, echi che si spegnevano subito, appena vi arrivavano alle orecchie. Ma se questa cosa dovesse veramente manifestarsi, se mai dovesse sentirsi un’eco che non si spegnesse subito ma si espandesse nel suono stesso, voi lo sapreste; al di là di ogni possibilità di dubbio voi direste: ecco quella cosa per cui sono stato creato.
Che un uomo così magnanimo, colto e ironico, così profondamente connesso al paganesimo (capace di non perdere mai il rispetto anche quando condannava l’omosessualità, perché “Eros conservava tracce della sua Divinità”), fosse ridiventato cristiano in età adulta, e anche grazie al rapporto col Tolkien, fu una cosa che mi scosse molto. Sentivo molta nostalgia per quel mondo perduto, per quanto sereno e sostenuto da una famiglia fantastica avevo comunque 14 anni, e la questione dell’omosessualità e della sua contrapposizione a un intero sistema di riferimento, si faceva comunque sentire dentro di me. Una nostalgia carica di domande. Come raccontava lo stesso Lewis nella sua rinarrazione di Amore e Psiche, è proprio nei momenti di maggiore felicità che l’ho provato più intensamente. Mi è accaduto in quei giorni felici quando noi tre stavamo là sulla collina, al vento e al sole. Ti ricordi? Quel colore, quel profumo. E guardare in là verso la montagna, e proprio perché tutto era così bello nasceva in me un desiderio, sempre lo stesso: da qualche parte doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi: Psiche, vieni! Ma io non potevo andare, non ancora, né sapevo dove andare, quasi mi faceva male…”
Mi sentivo improvvisamente legato a tutti quei coetanei, la cui schiacciante maggioranza non conoscevo affatto, e al tempo stesso sprofondato dentro di me, in un dialogo assolutamente unico e privato con un Volto che sembrava trionfare su strati di polvere.
Con questa tempesta dentro, decisi di dare una seconda chance al Cristianesimo, e quando una ragazza di CL mi invitò a degli Esercizi Spirituali, accettai (aspettandomi parecchio silenzio, passeggiate solitarie sulla spiaggia, e certamente non una folla di 4000 ragazzi di tutta Italia). Per molti anni ho raccontato quanto segue come “la mia conversione” (talvolta a folle altrettanto numerose). In seguito, ho riletto quegli stessi avvenimenti alla luce di quanto avevo appreso in fatto di psicologia (basti pensare allo splendido “The God Virus” di D. Ray, “Neuropsicologia dell’esperienza religiosa” di Franco Fabro, “Massa e potere” di Canetti). Ho riflettuto molto sulla natura, le attrattive, i pregi, limiti e gravi difetti (spesso intellettualmente letali) dei movimenti fideistici e ideologici (aggettivo che non ha per me un connotato essenzialmente dispregiativo. E anche se CL si è sempre detta anti-ideologica, costituisce invece una forte e complessa risposta ideologica, direi controriformistica, alle sfide della modernità). Ma scriverne qui sarebbe un trucchetto retrospettivo, ci tornerò sicuramente più avanti. Ma questo non è semplicemente il racconto sul perché abbia dapprima seguito e poi lasciato CL, ma del cortocircuito che mi fece tornare al Cristianesimo e iniziare a lottare con la mia omosessualità e non solo. C. S. Lewis aveva già minato le mura. Adesso la breccia si sarebbe aperta e la fortezza avrebbe capitolato.
Chiedete e vi sarà dato. Bussate e vi sarà aperto.
Giussani, il fondatore di CL, insisteva molto sulla qualità “proustiana” della memoria nei Vangeli, soprattutto quel “erano circa le quattro del pomeriggio” del primo incontro dei discepoli con Cristo, quel dettaglio così insignificante che però, a suo giudizio, era come un suggello di autenticità emotiva, una di quelle precisazioni che palesano un ricordo indelebile. Le mie “quattro del pomeriggio” furono quando le migliaia di ragazzi di CL, che avevano ascoltato in prodigioso silenzio la musica introduttiva di Schubert, attaccarono all’unisono un canto delle Trappiste di Vitorchiano, Liberati dal giogo del male, io, di colpo, ero già a bordo. Ebbi l’assoluta certezza di avere davanti una cosa nuova eppure antica, familiare come il Dio della mia infanzia, che però si rivolgeva a me con parole e gesti che comprendevano e valorizzavano anche i miei amori e interessi (la musica classica, il grido dell’uomo nelle diverse discipline artistiche, il desiderio di amare e essere amati, conosciuti davvero da Qualcuno che ti veda fin nell’intimo…) e li inserivano in una proposta articolata, una lettura complessiva dell’io e del mondo. Mi sentivo improvvisamente legato a tutti quei coetanei, la cui schiacciante maggioranza non conoscevo affatto, e al tempo stesso sprofondato dentro di me, in un dialogo assolutamente unico e privato con un Volto che sembrava trionfare su strati di polvere. Molti hanno raccontato esperienze simili. Uomini e scrittori molto migliori di me, che siano rimasti credenti oppure no. Ma nessuna immagine (dal bigliettino cucito nei polsi di Pascal, al pianto di Agostino) potrà mai eguagliare, a mio giudizio, un’altra immagine di Lewis: quella musica che si percepiva al centro di ogni esperienza pura, e che sempre, all’ultimo momento, era sfuggita dalla memoria, si ritrovava ora finalmente. La musica pura, finalmente. Mi sentì percorrere letteralmente da un brivido, come una fiamma blu, e, come il figliol prodigo, seppi di essere a casa, laddove una parte di me- quella che era sbocciata con Gandalf e Frodo- mi stava aspettando.
Cominciarono così i miei anni da adolescente cristiano, pienamente consapevole e adulto. Lasciai i panni del dandy omosessuale e mi gettai anima e corpo in questo nuovo mare. Fu un’esperienza forte, da principio perfino sconvolgente. Quando una fede religiosa si rinnova o si acquisisce ex-novo, hai la commossa percezione di essere davvero al cospetto costante di un grande Interlocutore, un Potere (vorrei dire alieno per rendere il senso di assoluta alterità) che arde come una macchia di luce ai bordi della tua consapevolezza, e spesso dardeggia in capo aperto, come un sole. Lo scrittore Andrè Frossard l’ha raccontato forse meglio di altri: un mondo, un altro mondo d’uno splendore e di una densità che rimandano di colpo il nostro tra le ombre fragili dei sogni irrealizzati… l’evidenza di Dio… del quale sento tutta la dolcezza… una dolcezza attiva, sconvolgente, al di là di ogni violenza, capace di infrangere la pietra più dura e, più duro della pietra, il cuore umano. La sua irruzione straripante, totale, s’accompagna con una gioia che è l’esultanza del salvato, la gioia del naufrago raccolto in tempo. Queste sensazioni, che trovo fatica a tradurre in un linguaggio inadeguato delle idee e delle immagini, sono simultanee… Tutto è dominato dalla presenza. Se, nei mesi precedenti, prima di entrare a scuola sedevo tra le colonne di un chiostro a osservare il quadrato di cielo sopra di me, adesso invece passavo qualche minuto al cospetto dell’Eucarestia nella chiesa lì accanto, e in quel silenzio, mi sembrava come di scaldarmi al cuore ardente del Grande Re, che mi parlava. C’era poi la vita comunitaria di Cl (le messe, i gesti di caritativa, le assemblee sui testi di Giussani, le vacanze con gli amici) e, naturalmente, un oceano di nuove letture. A Tolkien e Lewis si affiancò la scoperta di Chesterton, che mi esaltò come un vino generoso (o meglio ancora una grappa) per la sua geniale poetica saggezza paradossale, unita a una profonda bontà. Ma fu tutta una cascata di letture entusiasmanti (Eliot, Guardini, Williams, Moeller, Peguy, vero rapper cristiano, Agostino, Edith Stein, Newman, Von Balthasar, Betocchi, Luzi, Shakespeare, Milton, Maritain, Bernanos, Claudel, il Dostoevskij letto con la febbre a 17 anni, Milosz, Thomas Howard, Allen Tate, Michael O’ Brien, C. Hutchinson, certe pagine di Eugenio Corti).
Certo, l’omosessualità costituiva un gran bel problema, ma, da una parte, devo riconoscere alla Cl che ho conosciuto il prego di non essere mai stata moralista (l’inghippo era più a monte, più concettuale e complesso, come cercherò di spiegare nelle prossime puntate): c’era anzi una esplicita valorizzazione di tanti artisti cristiani “feriti” dal dramma dell’omosessualità, basti pensare a Michelangelo, Testori o il Pasolini erroneamente “testorizzato” come direbbe Nicola Mirienzi. Per cui, sebbene non ne parlassi con nessuno (sulle risposte balbettanti che trovai negli adulti e nei sacerdoti anche più ben disposti tornerò più avanti) mi sentivo ultimamente tranquillo. Avevo avuto troppi anticorpi grazie all’affetto dei miei familiari e alle esperienze e scelte passate per non guardarmi con simpatia. Dovevo solo portare la mia “spina nella carne”, come avrebbe detto Paolo di Tarso. Avevo l’orgoglio sottile di chi si sente gravato da un marchio di malinconica elezione. D’altro canto, è proprio vero che dai ragazzi tra i 15 e i 25 anni ricavi i migliori soldati. C’era molta incosciente baldanza, forse. Come scrive Luciano Funetta, “i giovani non sono immortali, sono solo disposti a morire.” Mi sentivo di nuovo a cavallo accanto a Theoden e Aragorn, e il mio conflitto interiore, la mia battaglia al fianco di Cristo sarebbe stato anche contro l’attrazione per i ragazzi. Divenni anzi un esperto in materia di Chiesa e omosessualità, e se molti miei coetanei di CL si potevano divertire a sfottere “i froci”, io che invece non l’avrei fatto né tollerato in mia presenza, ero però molto più consapevole e rigido di loro in materia di ciò che si potesse fare quanto a sessualità e identità personale.
Tuttavia il tempo, il già citato vaccino della mia storia familiare, le letture e, credo, un’ultima onesta connessione con me stesso, un dialogo e un’osservazione interiore mai sopita, a discapito di tanto, mi avrebbero presentato il conto. Giussani raccomandava Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. E il mio amato Lewis notava che Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta ingannando voi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente. Fu proprio prendendo estremamente sul serio questo loro invito ad “auscultare” la mia esperienza personale (letture, studio filologico, scoperte, vicende personali piccole e grandi) che certe domande e obbiezioni si sarebbero fatte sempre più forti. Fino a una imprevedibile inversione a U.
Ho cominciato questo capitolo ricordando Adamo nudo nel giardino, ed è a un altro personaggio biblico che ricorro in chiusura. La conversione di Saulo da fariseo ad Apostolo delle Genti è, al netto delle oscurità sulla vicenda storica, ormai assurta a immagine icastica di ogni zelante sostenitore d’una visione del mondo che, proprio in virtù del suo accanimento ideologico, improvvisamente scopre di essere stato cieco a una verità più grande.
Anche io, come lui, “nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri”, sarei stato folgorato sulla via della mia Damasco, verso cui galoppavo. Solo che a parlarmi dal bagliore accecante non sarebbe stato Cristo, ma tanta parte del mio cuore e della mia mente, contro cui mi ero scagliato in guerra silenziosa ma costante.
[continua…]
0 comments on “Monte Fato #3”