Perdere la fede, riconoscere l’omosessualità, abbandonare gli dei ma non le loro storie; una serie di tracce autobiografiche attraverso i libri.
Se si ha carattere si ha anche una propria esperienza interiore, che ritorna sempre.
F. Nietzsche
Andando per la strada del salto nel vuoto, capivo appunto che ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo.
C. Pavese
Vi sono infatti tante e tante cose,
-->che io purtroppo ancora non conosco:
diversi in ogni prato e in ogni bosco
il verde e il profumo delle rose.
J. R. R. Tolkien
Io e te, sulla spiaggia di casa
E Atena, la dea cui fulge lo sguardo,
sorrise; lo accarezzò con la mano, e perse
aspetto di donna, bella, grande, di opere splendide
esperta; e il suono gli volse di alate parole:
[…] Noi due faremo che tutto riesca nel modo migliore.
Odissea
Ci sono poche immagini che mi commuovono, fino a sentire le lacrime pizzicarmi gli occhi, come questo momento di affetto tra Atena e Odisseo. Quel noi due, io e te. Quell’infinita distanza e quella prossimità, quel gioco di squadra. La scena si svolge sulla spiaggia di Itaca, dove Odisseo si è finalmente ritrovato dove anni di peregrinazioni. E inizialmente non riconosce né la patria, né la dea. L’aveva invocata per tutto il corso del poema, ma solo il lettore era davvero consapevole del suo operato costante dentro e dietro il dipanarsi degli eventi. Dopo tanta invisibilità, dopo tanti accenni e segni ambigui, i due sono finalmente faccia a faccia, sulla sabbia di casa. Atena sorride. Ce l’ha fatta: L’ha portato a casa. Attraverso le battaglie e l’infinita distesa del mare. Possono sedere come due vecchi amici, e decidere le prossime mosse. Insieme.
Credo che non poco di questa scena abbia influito anche sull’immaginazione di un “pagano convertito” come C. S. Lewis, che, proprio quando deve descrivere l’incontro col divino oltre la soglia della morte, sul limitare della patria definitiva, torna, come il Dante del Paradiso, a rievocare metafore pagane, e la stessa intimità misteriosa, lo stesso ri-conoscerci di quell’antica scena sulla spiaggia, alla fine di tanti viaggi: Gli dèi sono cose insolite agli occhi mortali, eppure non lo sono. Egli non aveva la più debole idea fino ad allora del loro aspetto, e perfino dubitava della loro esistenza. Ma al primo vederli conobbe che li aveva sempre conosciuti e comprese la parte che ciascuno di loro aveva avuto per molte ore nella sua vita, mentre e gli si era creduto solo, tanto che ora poteva rivolgersi a loro, a ciascuno di loro, e chiedere, non: “Chi sei tu?”, ma: “Eri TU, dunque, per tutto il tempo?”. Tutto ciò che essi erano e ciò che dicevano in questo incontro risvegliava delle memorie. La confusa coscienza di amici che gli stavano intorno, che aveva ossessionato le sue solitudini fin dall’infanzia, trovava finalmente la spiegazione, quella musica che si percepiva al centro di ogni esperienza pura, e che sempre, all’ultimo momento, era sfuggita dalla memoria, si ritrovava ora finalmente.
Il racconto di questo mio percorso immaginativo e spirituale descrive una parabola che dal paganesimo passa al cristianesimo e approda all’ateismo/agnosticismo. Dall’incanto degli Elfi ai sacramenti, che sembravano assumere in sé la “magia bianca” dei miti e delle storie che avevo amato di più, inserendole in un più vasto orizzonte morale, ma al prezzo di sacrificare (letteralmente) tanto che avvertivo parimenti decisivo della mia identità. L’omosessualità non era in questo senso che la punta dell’iceberg della stracitata metafora, l’aspetto più vistoso non di un mero elenco di aspetti, ma di strati su strati di dimensioni interiori. Le esperienze, le letture e la riflessione mi avevano fatto scoprire la falsità della pretesa religiosa e delle risposte del cristianesimo, e nelle voci di Nietzsche e Morgan (solo per citare i nomi più significativi) avevo “visto” (con gli occhi della mente e del cuore, colmando un vuoto immaginativo che mi interrogava molto) come si possa vivere una vita piena, capace di salvaguardare tutto ciò a cui avevo sempre tenuto di più, restando solo sulle proprie gambe. Affidando gioie e dolori solo alle nostre parole interumane, come direbbe Lacan, senza cedere ai diktat di un Logos soprannaturale. Resta però da domandarsi cosa resti di quel duale omerico, di quel sorriso d’intesa tra Atena e Odisseo, anche in mezzo alle lacrime, alla polvere e al sudore del cammino quotidiano. Altri la formulerebbero forse come una questione sulla permanenza del sacro nel mondo contemporaneo, ma ciò ai miei occhi assumerebbe una implicazione ritualistica che non mi interessa (non in primo luogo, almeno). Ciò che conta davvero, per me, è anzitutto cosa resta del mito, di quella conversazione interiore, quel gioco di sguardi, quella carezza tra divino e umano, che può sbocciare sempre e dovunque, dal tuffarsi in mare al sedere in silenzio sui gradini di un tempio. Dal passeggiare in un bosco nella luce sonnolenta di agosto al leggere una storia commovente.
Ho cominciato questo racconto proprio sui gradini delle rovine romane del tempio di Fiesole, ed è lì che torno adesso. Non cesseremo di esplorare, scriveva Eliot, e alla fine di tutto il nostro esplorare, / giungeremo dove siamo partiti / e conosceremo il posto per la prima volta. Cosa vi trovo, adesso, quando chiudo gli occhi e ascolto il vento che fruscia tra gli olivi? Gli antichi si addormentavano sui limitari dei templi, per ascoltare la voce del dio. Cosa mi dice, adesso, quella voce? Mi parla ancora, o è solo un’eco destinato a sbiadire sempre più? Sono solo o c’è davvero qualcuno?
Come notava T. Mann, La gioia che un sistema metafisico ci offre, e la soddisfazione che deriva dal vedere il mondo spiritualmente organizzato in un ordine logico, armonicamente costruito sulla base del pensiero, sono sempre di carattere soprattutto estetico. La loro origine è la stessa del piacere, dall’alto, e in fondo sempre sereno piacere che l’arte ci offre con la sua azione consolatrice, col suo potere di chiarire, dominandola, la confusione della vita. Accorgersi di questo sottile piacere è decisivo anche per non lasciarsene determinare, per uscire da questa griglia interpretativa nella quale tendiamo, quasi inesorabilmente, a scivolare. Al tempo stesso, Chesterton diceva che in fondo nella vita non siamo tanto persuasi da un sistema filosofico coerente quanto dal potere che esercitano su di noi libri, volti e paesaggi. Una serie di dettagli, nei quali però si comunica qualcosa che li supera. Proprio per questo, alle balbettanti conclusioni di questo percorso, sento la necessità anche io di tratteggiare alcune piccole scene. Immagini disparate, che si riferiscono a eventi apparentemente slegati, e che forse hanno un solo comun denominatore. Gli occhi di chi scrive.
Nell’opera del mondo
Ne abbiamo avuto l’esperienza, ma ci è sfuggito
Il significato,
e avvicinarsi al significato restituisce l’esperienza
in una forma diversa, al di là di ogni significato
che possiamo assegnare alla felicità.
T. S. Eliot
Percorro il binario per prendere l’ennesimo Freccia Rossa verso Milano (Silvio Pellico scrisse Le mie prigioni, ogni tanto penso che dovrei scrivere I miei treni). Una ragazza, già sul predellino del suo scompartimento, saluta il suo ragazzo che resta terra. Questi si alza sulle punte dei piedi e la bacia.
Non è certamente la prima volta che lo vedo succedere, ma tutte le volte, sorrido tra me. con un’allegria che risulta persino più intensa perché ricordo molto bene come avrei reagito diversamente, anni fa. Quando lottavo ancora per uniformare la mia omosessualità ai precetti della Chiesa, avrei scostato gli occhi da quella scena come se fosse abbagliante. Vi avrei visto ardere tutto ciò che invece sentivo negato a me. La possibilità di riposare nella propria attrazione, nel proprio affetto, nel proprio amore. La possibilità di comunicarlo col gesto più semplice e profondo di cui disponiamo. Tutte cose che, nel prendere sul serio lo sguardo cristiano sulla sessualità, mi erano interdette. Magari non avrei neppure distolto lo sguardo, e dentro di mei li avrei benedetti. Avrei scoccato una veloce preghiera per loro, e in essa ci sarebbe stato mescolato l’orgoglio e il rancore del diverso e dell’eletto, dell’eroe ferito a cui Dio chiede un cammino e un fardello speciali. Al pari del pastore solitario che guarda con benevola superiorità le pecore che si limitano a brucare l’erba, com’è nella loro natura. Cosa ne sanno della benedizione di cui godono ogni istante? Solo il pesce tirato fuori dall’acqua sa davvero quanto sia preziosa, l’acqua, diceva Tolkien in una lettera. È il vecchio trucco già studiato da Nietzsche: non c’è orgoglio più bruciante di decide di compensare, dentro di è, un’ingiustizia, senza affrontarla e risolverla davvero.
Eccomi invece a sorridere con loro. Quel moto di tenerezza e pulsione sessuale, quella tenerezza e quella fame, quell’omaggio e quel morso, mi stanno estremamente simpatici. Ci vedo convergere e soprapporsi ed esprimersi così tanto. Miliardi di anni di evoluzione, dalla linfa degli alberi ai corteggiamenti dei piccioni, si fanno società, cultura, storia personale, lui e lei. La bocca mi baciò tutto tremante. La più intensa e anche sincera delle mie preghiere passate non è che un pallido abbozzo del tifo solare, e del tutto sprovvisto di risentimento, che adesso provo per loro. Perché finalmente ho imparato a parteggiare e benedire così anche il mio stesso sangue, e la storia che si porta dentro.
Sono a casa mia. E in camera da letto dorme un ragazzo con cui mi sono incontrato la sera prima per divertirci insieme. Alla fine, con sua parziale sorpresa, gli ho detto “Perché non resti a dormire?”
Mi godo come sempre il silenzio della mattina, quando il viale non è ancora percorso dalle macchine, e si sente solo qualche autobus. La coscienza di essere sveglio, delle cose da fare, si posa pian piano dentro di e, come una nave che finisca silenziosamente in fondo al mare. Guardo le foglie verdi dell’albero fuori della finestra del salotto. La caffettiera inizia a borbottare. Verso il caffè in una tazzina e la porto in camera da letto. Dei, quelle spalle, che emergono dal lenzuolo. La curva disegnata dall’ovale del bicipite a riposo. Ci sono persone che dormono serie, come se stessero fronteggiando un’equazione matematica o un problema metafisico (Vanni Santoni mi direbbe che forse è proprio così). È un’immagine trita, lo so, ma quando lo scrollo appena e gli parlo all’orecchio si stira davvero come un cucciolo.
“Uhm?”
“Caffè.”
Sbatte gli occhi e si rialza un po’. Prende il caffè e lo sorseggia. Chiacchieriamo un po’ ma avverto che ancora un po’ sconcertato. Gli chiedo cosa c’è. Abbozza un sorrisetto incredulo. “È che credevo che queste cose succedessero solo nei film.”
“Perché no?”
E mentre sorridiamo insieme, so che non permetterò mai più a niente e nessuno di farmi condannare tutto questo.
Sono in una chiesa cattolica, mentre viene celebrata la Messa. Di tanto in tanto mi piace andarci, soprattutto in occasioni feste più importanti come il Natale o la Pasqua, e assistere al rito. Qui, dove la preghiera è stata valida, diceva Eliot, a eespirare la vecchia magia. Anche se non ci credo più, posso comunque immergermi nel fiume dei ricordi e delle emozioni passate. E pure qui, sia da un punto di vista collettivo che personale, c’è così tanto fuso e sovrapposto, ed è bello sfogliarlo, strato dopo strato. Miseria e nobiltà del genere umano. Parole e gesti che arrivano dai Misteri Eleusini e la costante tendenza del genere umano a riposare nel gregge. Regressioni infantili e immagini cosmiche. Errori di traduzione che hanno intercettato archetipi e ne hanno forgiati di nuovi. Patriarcato (duemila anni di show esclusivamente maschile, anche se negli ultimi anni si vedono lettrici e chierichette) e intuizioni profondissime Osiride fatto a pezzi, Bacco consumato dai fedeli. Il lavoro e il trascorre delle stagioni. Sensi di colpa ed espiazioni. Musica davvero celestiale (Bach o Palestrina) e motivetti insipidi e rassicuranti come i sentimenti che vogliono ispirare. Parte decisiva di ogni rito è la sua ripetitività. Guai alle varianti e alle innovazioni. Solo così il tempo diventa qualcos’altro. Danza e danzatore coincidono. Ho scoperto che anche il filosofo ateo Daniel Dennett lo fa spesso, e per ragioni simili (si fotografò a Natale con l’albero addobbato, e Sam Harris rispose con una foto con l’abete a bruciare nel caminetto- sfumature). Egli è convinto che il culto soprannaturale letteralista sbiadirà, ma che sarebbe un peccato (il lessico gioca scherzi divertenti) se buttassimo via il bambino (il senso di comunità rinforzato dalle tradizioni e dall’arte) con l’acqua sporca.
Talvolta ho quasi voglia di mettermi in fila con gli altri e ricevere la comunione. Proprio perché non ci credo. Quanto ritroverei di me stesso, della mia storia, in quel filo di farina che si scioglie sulla lingua? “La madeleine spirituale” suona come una banalizzazione o un esperimento estetico alla Huysmans. Ridurre Dio alla somma delle volte in cui ci hai creduto, analizzare al microscopio ciò che prima invece vivevi. In realtà, a trattenermi non è un senso di rispetto (non sto offendendo nessuno, perché non c’è nessuno, appunto, ed è una delle vittorie più scaltre delle religioni quella di esigere un presunto rispetto che non estenderesti mai ad altre esperienze altrettanto umane) ma le possibili implicazioni politiche e sociali. Certo, non sono in una parrocchia di CL. Qui praticamente nessuno mi conosce davvero e trarrebbe conclusioni indesiderate (MA ALLORA RIALTI E’ ANCORA IN CERCA MA ALLORA FORSE DIO GLI STA PARLANDO ANCHE DENTRO LA CONFUSIONE DELLA SUA IDEOLOGIA GENDER-OMOSESSUALISTA OH DIO AIUTALO RAGGIUNGILO ORA VADO A SORRIDERGLI). Magari sono cattolici progressisti che su aborto, diritti sociali, ecologia, sessualità la pensano come me, o non sentono qualsivoglia differenza come problematica. Magari persino per alcuni di loro è solo un vecchio rito, un simbolo, su cui investono un’attenzione che differisce solo in grado dal gesto di simpatia e curiosita che compio nei confronti del mio passato. Ma so bene che molti, qui, non battono ciglio nel sentire parole e immagini che hanno segnato la rovina di generazioni. Che, al netto delle tante parole di accoglienza “pratica” e gli inviti a “non giudicare”, la Chiesa continua a condannare ciò che per me costituisce il meglio della vita, e non mi riferisco semplicemente alla sessualità, ma a una percezione del mondo e di sé stessi che integri anche quella in una prospettiva libera e autentica. Che ancora fa sentire tanti aspetti veri della vita come sbagliati, distorti, peccaminosi, e mutila l’esistenza e il suo cammino già così difficile sul letto di Procuste di un Cielo ideologico, di un bene che non emerge passo passo dalle nostre giornate ma cala dall’alto. E io non voglio contribuire minimamente a rafforzare tutto questo, nella compiaciuta superbia dei farisei e neppure nelle ferite uggiolanti dei più deboli, e neppure nell’ambiguità interpretativa dei migliori. Tantum religio potuit suadere malorum. Al tempo stesso osservo un uomo con la moglie già persa nelle nebbie di quella che l’esperienza familiare mi ha insegnato a riconoscere come demenzia precoce. La donna fissa davanti a sé, al tempo stesso rigida e inerte. Lui la tiene per il braccio e le sussurra piano quando alzarsi, sedersi, genuflettersi. Dire che quel viso magro, seminascosto dalla barba bianca, è stanco triste rassegnato, sarebbe comunque riduttivo. Ma l’amore e l’attenzione traspaiono anche in quelli che paiono gesti quasi automatici anche da parte sua. So benissimo che ci sono migliaia di situazioni come queste, fuori delle mura d’una chiesa, che persone d’ogni cultura e ideologia sanno dar prova dello sacrificio personale, per mille e nessun motivo. Non siamo nella Giornata di uno scrutinatore di Calvino. Questo caso particolare non irradia alcuna santità particolare, ma è vero al pari degli altri, e il giorno in cui non sapessi accorgermene non sarei certamente più libero bensì più schiavo del mio passato. Sono in piedi in fondo alla navata, vicino alle porte. Davanti a me, un bambino giocherella gattoni sul pavimento, per lui così insolito. Alza il viso a farmi vedere un giocattolo, io gli faccio una linguaccia e sorrido. Lui ricambia entrambi. La mamma lo acciuffa con un’espressione che riesce ad assommare approvazione e correzione, come sanno fare solo loro, e si inginocchia accanto a lui, cercando di insegnargli a fare altrettanto. Sarebbe così facile se le menzogne e gli errori fossero legati sollo allo scherno, alle percosse, alle umiliazioni, all’ipocrisia. Che dire quando sembrano essere indistinguibili dall’amore con cui vengono comunicate, e da tutta la verità cui si accompagnano?
Ho scelto di iniziare con queste immagini, questi quadri, proprio per ribadire l’evidente non conclusività di questa conclusione. Il che naturalmente non vuole giocare la carta-così facile- della sospensione di giudizio. Queste mie pagine non si arrestano sulla soglia d’una possibile fede futura e questo non perché, come direbbero i ciellini, “tengo chiusa la categoria della possibilità” Io non sono pre-cristiano- come spesso la Chiesa cerca comodamente di bollare tanta parte del mondo contemporaneo- ma uno che, per citare la Scrittura, il cristianesimo “l’ha misurato, e l’ha trovato mancante.” Al tempo stesso, non si tratta neppure di un testamento (ho ancora un paio di bei libri da scrivere, e parecchi altri assai migliori da tradurre, spero) e tantomeno di un De rerum natura. Si è trattato piuttosto di sostare e fare il punto durante una scalata in montagna. “Sono arrivato fin qui. Il percorso è stato questo e quello. Da questa sporgenza della montagna ecco il paesaggio che si stende ai miei piedi. Per proseguire, dovrò mettere la mano lì, e poi lì.” Spesso mi sono sentito nella stessa situazione descritta da Tarchetti (“Temo d’immiserire il valore e l’aspetto delle mie passioni, tentando di manifestarle; temo obbliarle tacendole. Perché ella è cosa quasi agevole il dire ciò che hanno sentito gli altri-l’eco delle altrui sensazioni si ripercuote nel nostro cuore senza turbarlo-ma dire ciò che abbiamo sentito noi, i nostri affetti, le nostre febbri, i nostri dolori, è compito troppo superiore alla potenza della parola. Noi sentiamo di non poter essere nel vero”) ma solo fino a un certo punto. Avevo infatti rifllettuto coì a lungo su ciò che ho provato a raccontare, che quando si è trattato di scriverlo sono rimasto stupito della velocità del processo, e anche dalla sua onestà di fondo. Certo, ci sarebbe molto altro da aggiungere, sfumare, approfondire, ma anche questo è possibile accusarlo solo adesso che queste parole sono già state battute e pubblicate. E se non ho alcuna pretesa di essere già arrivato su (quale poi?) cima, ciò non impedisce neppure do comunicare le scoperte fatte durante il percorso, e alla luce delle quali si ha intenzione di affrontare i passi successivi, dalle ferrate ai punti più pianeggianti. Quelle che seguono non sono tanto delle conclusioni, quanto la comunicazione di alcune urgenze concettuali. Alcuni elementi utili all’arrampicata.
Elogio della complessità
Una mitologia è un quadro completo dell’uomo nel mondo.
G. Steiner
Allora si aprirono loro gli occhi, e conobbero di essere nudi.
Genesi
Una delle battaglie più decise del nostro tempo- sobbissati come siamo da uno tsunami di informazioni e dati, e dall’urgenza di una comunicazione collettiva così martellante e pervasiva da farci spesso confondere l’istintivo con l’autentico- è lo sviluppo e la difesa e la trasmissione di una scienza della complessità. Dobbiamo difendere con le unghie e con i denti questo elemento fondamentale della maturità individuale e sociale. La cultura in fondo è proprio la scoperta che si si può e si deve leggere lo stesso fenomeno, dentro e fuori di noi, in modalità diverse.
Se dovessi definire la mia posizione riguardo alla religione, mi sentirei descritto forse solo da un agnosticismo non debole. Con questa espressione voglio dire che, senza potermi naturalmente pronunciare sull’esistenza o meno di Creatore (Wittgenstein docet) rigetto decisamente tutte le soluzioni antropomorfiche che sono la spina dorsale delle religioni, e che al tempo stesso rifiuto decisamente quel dualismo vita mortale/vita terna, materia/spirito, corpo/anima che è a sua volta il menu platonico che affiora anche nei ristoranti più insospettabili. L’invito di Sofronia a Olindo, mentre tutti e due stanno per essere bruciati vivi nella Liberata di Tasso, Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti/e liet aspira a la superna sede./Mira ‘l ciel com’è bello, e mira il sole/ch’a sé par che n’inviti e ne console, mi pare una delle più tragiche e sintesi di quanto affermavano davvero Feuerbach e Marx sulla sublimazione del dolore. Un amico credente, persona seria, colta e profonda, mi ha scritto che questi miei pezzi vogliano “eliminare” il fardello di dolore e fatica che si accompagna a ogni esistenza umana. Che alla luce di quanto ho provato a raccontare, una persona così dotata si sia sentita spinta a muovermi questa obiezione, secondo me testimonia ancora una volta il corticurcuito alla base della risposta religiosa: pensare che quel modo di rispondere a un problema sia l’unica possibilità di assumerlo davvero, e conferirgli significato. E viceversa. Che solo quel determinato significato “salvi”-cioè conservi e riscatti- quella determinata esperienza. A parte il fatto che si sono dolori che sarebbe bene eliminare eccome, pesi ingiustificati, fardelli che nessuno dovrebbe portare; che il cristianesimo-e più specificamente il cattolicesimo- sia spesso andato in passato anche recente a braccetto con i tiranni, è solo un’estensione su più vasta scala del medesimo problema di connivenza con una lettura violenta della storia personale e collettiva. Ma anche liberi da tutti questi ceppi (e un certo modo di guardare alla propria identità affettiva costituisce proprio questa crudele e innaturale camicia di forza, questo Generale Franco interiore), è profondamente ingiusto e parziale sostenere che l’unico modo di abbracciare davvero la nostra mortalità, le tragedie, gli inciampi, le domande e le ferite che costellano ogni vita, sia in una prospettiva metafisica o fideistica. Per quanto mi riguarda, la vertigine di stare solo sulle mie gambe, di dover imparare che il bene e il male, l’amore, la compassione, la lotta per migliorarsi e imparare sempre di più l’amore, la dedizione e il coraggio, è una posizione metafisica, e ha reso la vita, le sue gioie e i suoi affanni, ancora più belli, proprio e non sebbene siano così fragili, effimeri. Perché imporsi dolori, mutilazioni e pesi che sono solo figli della paura, di moti ancestrali, di tabu, della nostra tendenza a gettarci sulle risposte più ovvie e prestabilite, anziché usare le nostre energie migliori per ascoltarci davvero, per camminare insieme e sorriderci, nel cuore delle nostre battaglie personali e comuni? Leopardi l’aveva già cantato molto meglio di così. E Nietzsche ci ha fatto a sua volta vedere, che una coscienza tragica non è pessimistica, o, appunto, superficiale. Una delle conquiste più complesse ma belle della vita è appunto che ci sono domande senza risposta, o che si possono abbracciare sena risposte consolatorie (e ogni menzogna o parzialità ideologica o fideistica sventola sempre una consolazione più approssimativa e immediata del difficile impegno quotidiano con sé stessi. È molto più facile credere che tutta la sessualità prematrimoniale sia sbagliata, e che tutta l’omosessualità sia sbagliata tout-court, che imparare a decidere e valutare nella circostanza specifica). In un bel romanzo della calvinista M. Robinson, il figlio ateo del pastore si rifiuta di pregare a cena. Il padre gli rinfaccia addolorato che sta umiliando una tradizione di famiglia. Il figlio rispettosamente ribatte che “Quando era bambino ragionavo da bambino. Da uomo ho messo via le cose infantili”. Parole di San Paolo.
Pacem in terris
Non siamo tutti pieni d’odio.
Un sacerdote in Rinnegati, di R. K. Morgan
Io sento una gran tristezza nell’appartenere a una Chiesa sui cui giornali le cose non hanno mai il loro nome…il cuore si schiera irresistibilmente.
Don Milani
Un uomo andò da Maometto e disse: «Oh, profeta, a chi devo la mia amicizia più sincera?» Il profeta rispose: «A tua madre.» L’uomo lo incalzò: «E poi a chi?» Il profeta ripeté: «A tua madre.» L’uomo insistette: «E poi a chi?» Il profeta ancora una volta rispose: «A tua madre.» L’uomo domandò ancora: «E poi a chi?» E il profeta disse: «E poi a tuo padre.»
Proverbio somalo
Le religioni sono false, eppure al loro interno annoverano uomini e donne eroici, dotati di una passione profonda per la vita, d’una sensibilità dolorosa e franca per le sue contraddizioni insolute, d’un senso bruciante delle ingiustizie sociali e delle ipocrisie, e di un gran senso dell’umorismo. Tra le loro fila non incontri solo San Cirillo (il vescovo e DOTTORE DELLA CHIESA che tramò l’assassinio della filosofa Ipazia) o Sai Baba, ma anche la fioritura dell’itijihad, il pensiero critico musulmano, e lo humour metafisico dei detti chassidici. Per non parlare dei pensatori e degli artisti, un fiume di bellezza, poesia, saggezza, e senza tener conto del fatto che ogni grande personalità può comunicare al mondo intuizioni nobili e allo stesso tempo conati retrogradi o violenze psicologiche (basti pensare a Lutero, o agli Esercizi di S. Ignazio). Tra i miei amici ho la fortuna di annoverare credenti che, laici o religiosi, sono tra le persone migliori che conosca. Gli episodi attribuiti a Gesù in difesa delle “peccatrici”, alcune risposte di Maometto, i gesti di Gandhi e Luther King, appartengono al patrimonio migliore e perenne dell’umanità. Per molti essere religiosi in fondo vuol dire e credere che la vita e l’amore sono più forti della morte e del male. Non c’è alcun paternalismo nel sostenere che molte persone nobili e generose credono di doverci credere, e schierarsi, anche così, dalla parte di chi combatte per il bene, la compassione, il servizio. Le famose ragioni del cuore di Pascal. Nei migliori dei casi ciò li fa lottare contro i pantani delle stesse concezioni dogmatiche, o quantomeno viverci profondamente a disagio. Come si chiedeva Pasolini in Marxismo e cristianesimo, vorrei che mi si dimostrasse perché un cattolico non può accettare delle riforme di struttura della società. L’antropologo Yuval Harari traccia interessante distinzione tra religione (una serie di affermazioni sul mondo e sull’uomo che stipula un patto con la divinità) e la spiritualità (una serie di domande sull’uomo e sul mondo che accompagnano un cammino interiore): non è certamente un caso se tutti i grandi riformatori religiosi siano stati dei contestatori spirituali che reagivano alla sclerotizzazione dei sistemi religiosi di riferimento: Gesù in mezzo ai Farisei, Lutero durante la vendita delle indulgenze… che poi le loro stesse provocazioni vengano mummificate dai loro successori, è una tendenza umana che non riguarda solo il sacro.
In queste settimane ho letto/riletto contemporaneamente “Gilead” della già citata M. Robinson e “Bruciare tutto” di W. Siti, rispettivamente la storia di un saggio e gentile pastore protestante, consapevole che “non si può affermare nulla su Dio da una posizione difensiva” e che la verità sta più in due operi che ridono o due fidanzati che si bagnano sotto un ramo carico d’acqua piovana che in tante affermazioni dogmatiche, e di un intelligente e financo generoso prete cattolico, le cui rigidità e assolutismo religiosi sono però un recinto e una fuga per tenere malamente a bada le sue attrazioni pedofile, mai davvero affrontate, con conseguenze devastanti per lui e per gli altri. Sono quasi due poli icastici di tutto il bene e tutto il male che puoi trovare in una lettura religiosa e confessionale del mondo e dell’uomo. E comprendere davvero un fenomeno, per quanto mi riguarda, vuol dire appunto comprendere la parte di umanità cui si appella, nel bene e nel male. Da questo punto vista, confrontarsi con il fenomeno religioso- per la vastità delle sue implicazioni-ricorda più il gesto di passarsi tra le mani un prisma che un ciottolo dalla forma e dal colore chiaramente identificabili. Vuol dire confrontarsi con il meglio e il peggio di noi, e tutto ciò che sta nel mezzo. La fonte di luce contro cui ho sollevato il prisma per osservarlo meglio sta tutta in quell’espressione. Dentro di noi. Ed è qui che la già invocata Musa della Complessità deve venire in nostro soccorso.
Non credam ut intellegam
L’acqua è il liquido più puro, più limpido, più trasparente: in grazie di queste sue qualità naturali è l’immagine della purezza immacolata dello spirito divino. Ossia: l’acqua ha per se stessa significato, in quanto acqua; per le sue qualità naturali viene santificata, prescelta quale organo o strumento dello Spirito Santo. Da questo punto di vista vi è nel Battesimo un significato naturale profondo e una certa bellezza.
L. Feuerbach
E credi ai mostri, credi ai corpi imbestialiti, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.
C. Pavese
Ogni credenza ha il suo rovescio. Se ci sono diecimila contadini medievali capaci di far esistere i vampiri con la forza della loro credulità, può essercene uno, e probabilmente bambino, capace di immaginare il piolo con cui ucciderli. Ma un piolo non è che uno stupido pezzo di legno. La mente è invece la mazza con cui conficcarlo nel cuore.
S. King
Sono seduto sui gradini del tempio a Fiesole. Ed è così, sono solo. Eppure non lo sono. Quel che voglio dire è che Atena non è meno presente e commovente adesso che so che si tratta di uno specchio della saggezza cui cerchiamo di conformarci e ispirarci, cui cerchiamo di attingere per riflettere e agire. Non è per questo meno vera, anzi. E non si tratta di una mera lettura allegorica, giacché l’allegoria è solo una razionalizzazione del potere che su di noi esercita una mitologia. Ci sono delle verità, tanto emotive che concettuali, che puoi esprimere solo con una storia più grande di tutto ciò che sai ricavarne in termini di moniti e istruzioni. Solo un cieco morale sarebbe incapace di percepire la tragica forza di Maria sotto la croce di Cristo. Come si fa a non sottoscrivere che vi udiamo pronunciare, senza bisogno di parole, una cosa che conosciamo bene tutti? Possiamo analizzare le nostre reazioni, e affermare che, al pari della Natività, è un altro archetipo della condizione materna, quello dello strazio di assistere comunque alla crocifissione del proprio figlio, fosse solo per l’ineluttabile avanzare della morte. Ma ciò non esaurirebbe la sua ricchezza. Al pari delle scene in cui la Ninfa Teti esce dal mare per consolare Achille sulla spiaggia, sul confine dove si incontrano le acque immortali di lei e la sabbia bagnata di sangue mortale di lui, entriamo più in uno spazio di verità che in un mero contenuto intellettuale. E gli esempi tratti dal sacro sarebbero infiniti, da Siddartha che medita sotto l’albero a Mosè che può scorgere la Terra Promessa solo di lontano. Ma torniamo alla scena della Crocifissione. La maturità intellettuale sta proprio nel percepire che quella sostituzione vicaria, quell’uomo che soffre, è al tempo stesso commovente e immorale, nel suo riproporre un ancestrale capro espiatorio (chi conosce la storia del pensiero cristiano, sa bene come il tema dell’offerta giusta e immaacolata per placare il giusto sdegno di Dio, sia sempre più sottaciuta, soprattutto in secolo che ha portato Dio, e non l’uomo, sul banco dei testimoni, eppure si tratta sempre di un’asse portante della teologia cristiana, per quanto sinistro). C’è la genuina commozione per l’esempio morale (un uomo buono che muore dopo un processo-beffa, un benefattore dell’umanità che, al pari di Gandhi o dei Gracchi, viene assassinato) e al tempo stesso l’infantilismo della devozione per qualcuno che non si limita a sostituirsi a te sul patibolo (come il protagonista del Racconto di due città di Dickens, o Valjean nei Miserabili) ma pretende di assumersi le tue colpe morali, il tuo stesso peccato.
Oppure prendiamo l’Eucarestia: anche qui, come non ravvisarvi l’ultima manifestazione d’una dinamica immaginativa la cui lunga scia risale alla notte della nostra coscienza come specie? Il desiderio di partecipare alla vertigine della vita divina, come nei misteri eleusini e dionisiaci, di indiarsi direbbe Dante, e, anche qui, il cannibalismo rituale di mangiare un Dio che si fa agnello, come nello sparagmòs greco, un sacro stupro (sì, la religione riesce ad accostare queste due parole, anche oggi) che è al tempo stesso onore e colpa. In questo animismo convivono il meglio e il peggio, e spesso la stessa intuizione ha due facce, o tre, o quattro (desiderare di uscire da sé è al tempo stesso nobile e meschino, a ben pensarci). La cultura è proprio comprendere questa intelaiatura, apprezzarla e al tempo stesso prenderne le distanze. Ciò permette a mio avviso di continuare ad attingervi, con ironia e commozione, ma sempre pronti a tener testa a tutte le narrazioni più facili cui siamo pronti a rivolgerci per risolvere il problema della nostra vita e del nostro cammino nell’universo.
Ecco perché, al pari di Atena o Dioniso, anche Cristo è vero senza esserlo. Questo non vuol dire (attenzione!) che sarebbe stato meglio se il mito fosse una effettiva verità storica, perché c’è così tanto di irricevibile in esso. I Vangeli contengono delle falsità storiche, intellettuali e morali, ma al tempo stesso, in quel volto e in quella storia sono confluite verità che forse non potremmo esprimere altrimenti, e ogni riformatore spirituale e sociale (magari nella sua versione romantica più facile, basti pensare a Che Guevara) avrà sempre qualcosa di lui, di “cristico” appunto. In questo senso, la teologia cristiana è falsa regina, ma vera profetessa, quando afferma che Cristo precede l’esistenza terrena di Gesù. Lo precede e gli sopravvive.
Da questi grandi miti universali, creduti per secoli, mi sposto su una narrazione più recente, e che ha avuto tanto peso in queste miei pagine. Quanto tempo ho impiegato per comprendere il cortociruito emotivo alla base del mio rapporto con Tolkien, la sovrapposizione che avevo operato tra cosa avevo letto e quando l’avevo letto, gli anni sereni della mia infanzia e della mia fede in Dio. Molti, con circostanzi diverse dalle mie, hanno incontrato quella storia alla luce di sensibilità diverse, ma in realtà credo che il mio caso particolare sia stato un bene, per quanto complicato, perché mi ha fatto prendere Tolkien e il mito profondamente sul serio. Per me quella storia, alla luce del cristianesimo, è stata per anni radicalmente vera. La vita era davvero un viaggio tra luoghi bellissimi e orribili, e una battaglia contro le potenze dell’oscurità, dentro e fuori di noi, sostenuti da saggezza e bellezze molto più grandi delle nostre povere forze. Da sacrifici e canzoni, e da una Potenza e una Grazia che, dall’altro delle stelle più remote, arrivava a brillare nella fiala elfica che portavi appesa alla cintura. Adesso che non sottoscrivo più l’orizzonte religioso che alla base di uno sguardo come quello che ha immaginato Il Signore degli Anelli, anche il viaggio di Frodo verso Monte Fato è, al tempo stesso, vero e non vero. E pure in questo caso, non si tratta di dover elencare gli elementi e le intuizioni profonde e contrapporvi quelle false. La stessa scena, la stessa immagine può essere al contempo vera e falsa. A un certo livello, non è vero che la vita è una valle di lacrime nella quale portiamo il peso del peccato. Ma, a un altro livello, è vero che nella vita arranchiamo sotto pesi e responsabilità che sembrano schiacciarci e consumarsi. Gandalf induce Frodo a sperare perché “c’è un’Altra Potenza in gioco”. Al di là dell’immedesimazione con lo sguardo di ogni autore, elemento base per apprezzare davvero la qualità di ogni opera letteraria (un tema che ha delle implicazioni molto complesse e importanti, e sui tornerò nelle Appendici- Tolkien docet anche qui- a questo scritto a puntate) a questa frase io, nella vita di tutti i giorni, non solo non credo, ma guardo con sospetto qualsiasi considerazione sulla vita umana si fondi o si appelli a questa potenza superiore per indirizzare la vita personale e collettiva. Ma anche quel desiderio di non essere soli a combattere è a sua volta non vero e vero; che gli uomini abbiano immaginato e sperato che, nella loro lotta contro i mostri, non si trovino solo affiancati dalla solidarietà dei propri fratelli e sorelle d’arme, ma che forze più antiche e sagge di noi prendano a loro parte alla battaglia, soccorrendoci quando tutto sembrerebbe perduto, è a sua volta falso, umano troppo umano, forse perfino infantile, eppure commovente. Come la voce che i protagonisti bambini dell’It di Stephen King sentono mentre, inermi eppure coraggiosi, affrontano l’orrido mostro che si annida nelle fogne della loro violenta e ottusa cittadina- resisti, sii forte, sii valoroso, combatti per il tuo fratello, per i tuoi amici; credi, credi in tutte le cose in cui hai sempre creduto, credi che se dici al poliziotto che ti sei perduto, lui ti accompagnerà a casa sano e salvo, che c’è una fata che fa collezione di dentini e vive in un grande castello di smalto, e Babbo Natale costruisce giocattoli sotto il Polo Nord, assistito dalle sue schiere di Elfi, e il Capitan Mezzanotte esiste davvero; credi che tutte le persone intorno a te ti vogliono bene ancora, che il coraggio e’ possibile, che le parole ti usciranno di bocca corrette e senza esitazioni; Non sarai più perdente, non ci sarà più nessuno rannicchiato in un angolo a tremare, non ci sarà più nessuno nascosto a piangere per qualcosa o qualcuno che non sei stata in grado di salvare. Credi in te stesso, credi nel fuoco di quel desiderio….Un Arrivano i Nostri! cosmico. In questo senso, i norreni avevano profondamente ragione: forse gli dei non possono impedire ai mosti di vincere, ma non per questo smettono di combattere al nostro fianco. E che gli esseri ammantati di luce siano un sole che arde solo nei cuori dei mortali vestiti di stracci non li rende per questo meno veri.
C. Hitchens citava un’immagine del cattolico Leon Bloy, che Graham Green aveva voluto in exergo a un suo romanzo su fede e adulterio: Ci sono recessi nel povero cuore dell’uomo che ancora non esistono e nei quali il dolore entra affinché abbiano vita. E sfidava il suo lettore a pensarci su: erano parole valide solo per chi credeva nella transustanziazione? Allo stesso modo, domandiamoci, le immagini con cui Tolkien descrive la commozione di Sam Gamgeee l’esercito dei Popoli Liberi nell’ascoltare il Bardo- Ed egli cantò, a volte in Lingua Elfica, a volte nell’idioma dell’Ovest, finché i loro cuori, trafitti dalle dolci parole, traboccarono, e la loro gioia fu simile a spade, e il loro pensiero vagò nelle regioni ove delizie e dolori sono un’unica cosa e le lacrime sono il vino del godimento–sono forse vere solo per chi crede davvero nell’eucatastrofe?
Alla fine del suo splendido A viso scoperto, Lewis faceva dire alla regina Orual, la sorella brutta e gelosa di Psiche, che finalmente fronteggia a viso scoperto il dio Amore.
Avevo terminato il mio primo libro con le parole “gli dei non hanno una risposta”. Ora so, Signore, perché tu non dai risposte: tu stesso sei la risposta. Davanti al tuo volto ogni domanda muore sulle labbra. Quale altra risposta sarebbe soddisfacente? Parole, soltanto parole, da far scendere in campo contro altre parole. A lungo ti ho odiato, a lungo ti ho temuto, forse potrei….
Amarti anche se non ti crediamo, possiamo finire noi per lei?
Paradossalmente è stato proprio l’ateismo a riconciliarmi con gli dei, a salvarli. Non dobbiamo smettere di cantare, e credere nella magia, ma possiamo capire che stavamo guardando allo specchio, cercandovi i volti dei nostri padri e madri, le nostre insicurezze, i nostri slanci, le nostre viltà e il nostro desiderio di contribuire alla storia del mondo. La frase di Lewis a Dio, di Odisseo ad Atena, è rivolta in fondo al mistero del nostro io, quel fiume sotterraneo nel quale scorrono tanti volti, reali e immaginari. Eri tu, dunque, per tutto il tempo?
Continueremo a vedere Atena al nostro fianco, che ci sorride ironica e si siede sulla sabbia, per trovare insieme il modo di tornare a casa, per squadrare la strada del mare, il campo di battaglia, le insidie dei Proci, in limpide geometrie comprensibili. Apollo Arciere e Profeta tenderà l’arco al nostro fianco. Sentiremo la voce allegra del vecchio Poseidone quando ci tufferemo in acqua, e le risatine delle Ninfe che si nascondo dietro gli alberi dei boschi, osservando la goffaggine dei mortali che si aggirano nel loro regno, molti più antico del nostro. Continueremo a chiacchierare con Odino, Signore dei Corvi, e tracannare una birra insieme, in attesa di raggiungere i nostri padri nel Valhalla. Danzeremo con Dioniso in ogni festa, addenteremo la sua carne e ci faremo mangiare da lui, e getteremo via il nostro io come una veste troppo stretta. Guarderemo le spade conficcate nel cuore della Mater Dolorosa e ci troveremo i nostri strazi per coloro che amiamo, o quelli di coloro che ci amano. Nel cuore dell’inverno, ci raccoglieremo con canti, scherzi, cibo e doni per festeggiare la nascita di un Bambino, e il lento ritorno della luce. Resisteremo alla magia, al miracolo e al potere insieme a Cristo nel deserto, o a Buddha circondato dalle figlie di Mara, e tutto questo senza piegarsi ancora ai sacrifici umani fisici e spirituali che invece le religioni esigono, e continuando a dire vaffanculo ovunque accada ancora. Parafrasando Leon Bloy, ci sono recessi nel cuore umano, nella violenza insensata dell’universo, nelle sofferenze di chi non ha voce, dai bambini agli animali, che si possono fissare solo con gli occhi cupi e nichilisti del Solimano di Tasso: e mirò, benché lunge, il fer Soldano;/mirò, quasi in teatro od in agone,/ l’aspra tragedia de lo stato umano:/i vari assalti e ’l fero orror di morte,/ e i gran giochi del caso e de la sorte. Frodo cederà il passo a Ringil Eskiath, Enea a Mesenzio che gli mostra la mano e sorride feroce: Dextra mihi deus.
Per questo, faremo bene a tenerci sempre ben stretti anche l’orgogliosa rivolta degli angeli caduti così come la rievoca il Satana di Tasso. Ridotto a un mostro orrendo nel cuore dell’inferno, egli non scorda quando di ferro e d’alte fiamme cinti, pugnammo contra ‘l celeste impero. Mi basta mormorare quelle poche sillabe, per sentire un brivido lungo la schiena. Ci sarà sempre bisogno di attingere a quella versione alternativa della storia, a quel coraggio che fa affidamento solo su stesso, quella volontà che si fascia di ferro e fuoco ed è in grado di sfidare i buoni e giusti sfoggiando un bene alternativo. Un altro mito, non meno necessario. Nei demoni e negli dei vedremo ciò che ammiriamo e ciò che temiamo (e magari desideriamo senza il coraggio di ammetterlo), e la nostra perenne tendenza a umanizzare il cosmo. Da questo immenso bagaglio di prodigi, meraviglie e imbecillità possiamo- e dobbiamo- attingere tutta la sapienza e l’ispirazione che questo continuo discernimento, questo vaglio e dialettica interiore possiedono. Senza per questo piegare le ginocchia, o delegare a riti e tabù le scelte individuali, o ostinarsi a credere ciò che scienza e filologia hanno già smascherato, e senza permettere che ci si appelli a quelle stesse storie o immagini per sacrificare sul monte Moria- novelli Isacco- la propria intelligenza e affettività. C’è tanto altro da amare, dentro e fuori di noi. Forse, non c’è regalo migliore per i nostri figli che un passato pieno di Dei, senza alcun altare su cui bruciare fiori o far scorrere il sangue.
Di fronte a tante tenebre, esterne ed interiori, che minacciano noi stessi e degli altri, non smetteremo così di cantare, di sorriderci a vicenda, calarci l’elmo in testa, e andare a combattere, qualunque sia la tempesta che si addensi all’orizzonte.
E saremo soli, e non lo saremo.
Lette tutte le puntate del tuo Monte Fato, Edoardo, è stato bello, grazie.
Carissimo, hai scritto un capolavoro assoluto. Un abbraccio.