No, non siamo in un “nuovo Medioevo”



Oggi, per via del riscaldamento globale e della crisi ecologica dovuta all’attività antropica, si parla molto di “apocalisse”, di “nuovo Medioevo” e persino di “nuova era oscura”, ma c’è un errore di fondo. Il Medioevo non fu il periodo buio che molti di noi credono sia stato, e ci sono buone ragioni per evitare di paragonarlo alla contemporaneità.


In copertina e lungo il testo: “Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo”, affreschi di Ambrogio Lorenzetti 

di Dario De Marco

Nel novembre del 2017, mentre era appena scoppiato il caso Weinstein e i movimenti #quellavoltache e #metoo scoperchiavano un calderone di sopraffazioni e orrori, un lungo post su Medium ci faceva fare un giro in una galleria di orrori virtuale ma non per questo meno sconvolgente: YouTube. Il suo autore, l’artista e scrittore James Bridle, si sentiva addirittura in obbligo di anteporre il disclaimer sui contenuti sensibili, e specificava di non aver postato il pezzo sul suo blog per tenere in qualche modo la materia lontana da sé. La materia in questione erano i video più inquietanti di sempre diretti a un target di bambini piccoli: video montati e indicizzati da macchine (o peggio, da persone che pensano come macchine) in cui venivano mostrati pupazzi e personaggi dei cartoni animati compiere azioni che andavano dal demente al terrificante. Da Hulk che apre delle porte dietro le quali ci sono vari colori e urla disperato finché non trova il verde, all’Uomo Ragno che viene sepolto vivo insieme a Elsa di Frozen e Peppa Pig. A rendere ancora più weird il tutto, il contrasto tra la natura giocosa dei personaggi, la musica allegra e la ritmica in loop, alcuni effetti sonori come applausi e risate finti ripetuti ossessivamente, l’estetica ipersemplificata e rozza del montaggio, la crudeltà o l’insensatezza di certe scene. Per carità, nulla che un genitore di un bambino tra gli 1 e i 3 anni, quorum ego, non avesse notato con apprensione, provando a strappare di mano il cellulare ai figli riluttanti, o almeno a cambiare video: ma detto bene e sistematizzato. Soprattutto incrociato con la considerazione che da un lato i piccoli dagli anni ’10 vengono lasciati soli con il babysitter YouTube – e sono in grado di usarlo, grazie al touchscreen e all’abilità di navigare nelle preview – dall’altro questi video, prodotti massivamente, erano in grado di scalare le posizioni grazie appunto a quantità e indicizzazione: anche partendo dal cartone più innocente sul canale più ufficiale, nel giro di uno, massimo due correlati si finiva nella fogna. La cosa più inquietante di tutte era che non si capiva quale fosse lo scopo di questi contenuti-mostro: semplicemente provare a scalare i meccanismi algoritmici di una piattaforma globale, o allevare una generazione assuefatta alla violenza? Il bubbone esplose, di Peppa Pig killer ne parlarono ovunque, noi genitori tech ci sentimmo a un tempo additati come irresponsabili e capiti nelle nostre paranoie.

Da allora le cose sono andate molto meglio per tutti. Per i bambini, dato che YouTube introdusse controlli più severi e filtri che, detta due anni dopo, sembrano reggere. E per James Bridle, che da artista che si occupa e preoccupa di tecnologia, è diventato autore di un piccolo caso editoriale, nel quale quel post è confluito diventando il capitolo di una trattazione più ampia: Nuova Era Oscura (Not – Nero Editions). L’idea è affascinante: internet e la tecnologia più avanzata come scale che invece di ascendere al cielo precipitano all’inferno. Il libro è bello e documentato, anche se forse a volte per voler strafare gli scappa qualche errore: per esempio nel citatissimo passaggio che spiega come tra i vari disastri collegati al riscaldamento globale ci sia l’aumento della CO2 nell’atmosfera e quindi la diminuzione dell’ossigeno, il che ci porta ad avere meno carburante per il cervello e quindi a essere più stupidi (non è vera né l’una cosa – aumenta l’anidride carbonica ma non diminuisce l’ossigeno – né l’altra: sennò dal Tibet alle Ande sarebbero tutti scemi). Ma qui non ci interessa il dettaglio, bensì il paradigma. E quello del “nuovo medioevo” sta diventando centrale, ben più che una buzz word di successo. Negli ultimi tempi infatti si moltiplicano gli articoli e le analisi che individuano dei parallelismi, in modo banale o arguto, tra questi tempi e l’età di mezzo. E non parlo delle lamentazioni che scattano implacabili quando vengono a galla pratiche o leggi ferocemente regressive (contro l’aborto, ad esempio): Aiuto, questi vogliono riportarci al medioevo! Ma di qualcosa di più profondo.

Medioevo à la carte

Una giovane vergine viene dalla periferia dell’impero per ammonirci in nome di un’entità superiore sulla brutta piega che stanno prendendo gli eventi, e si mette alla testa di un esercito per salvarci. Di chi stiamo parlando? Di Greta Thunberg, ovvio. Ma anche di Giovanna d’Arco, volendo. Il paragone tra la pulzella d’Orleans e l’attivista svedese è stato avanzato da più parti, sia con intento elogiativo. Margaret Atwood in questo articolo ci mette in guardia contro i rischi, contro l’entusiasmo acritico: in fondo Jeanne era una dilettante allo sbaraglio, e la società dei competenti – ma ignavi – una cosa simile non la può sopportare. Ma di suggestioni ce ne sono parecchie, a cavallo tra il Medioevo e quel medioevo mentale che è l’immaginario fantasy. Uno specchio magico per spiare a distanza quello che fanno gli altri, gli amici ma soprattutto i nemici: che cos’altro è, se non questo, Instagram? Ma la magia, che esista o meno, influenza il nostro modo di agire nella realtà: così per esempio alcune religioni antiche vietano tassativamente di pronunciare il nome di Dio e presso molti popoli nordici nominare la parola “orso” era tabù, perché si credeva che il solo termine potesse evocarne la presenza fisica, una presenza quasi certamente mortale. Oggi sui social network facciamo una cosa molto simile, quando evitiamo di scrivere una parola per non essere bollati in qualche modo dall’algoritmo o per non essere bannati dal social (il ban è l’esilio, ovvero la morte civile). Io per esempio ho passato settimane di sofferenza fuori da Facebook per aver scritto “terroni”. Appartenendo alla categoria e avendolo fatto con ironia, credevo di essere al sicuro, ma il social network non conosce né Dop né virgolette.

Secondo lo storico Richard Wunderli l’uomo medievale viveva in un mondo “incantato, che era separato dal potente regno degli spiriti, degli angeli, dei santi e dei demoni, da una barriera porosa e traslucida”. Non siamo molto diversi noi, ancora una volta, separati rispetto al dorato mondo delle celebrity da uno schermo sottile, e interattivo. Passando alle cose più serie, è anche innegabile che stiamo assistendo a una riconfigurazione di alcuni diritti soggettivi quali si sono determinati in età moderna: la proprietà privata innanzitutto. La prima a perdere colpi è stata la proprietà intellettuale: immagini musica e testi in rete navigano liberamente, e se anche il diritto d’autore formalmente resiste, sono gli autori a non riuscire più a vivere con i propri diritti. Ma s’avanzano la sharing economy e la smart economy: non siamo proprietari del software che usiamo ma meri titolari di una licenza d’uso; non possediamo automobili e biciclette, preferendo prenderle in prestito alla bisogna. Le nostre stesse case, con tutti gli oggetti che si parlano tra di loro e soprattutto che si interfacciano con cloud remoti, grazie all’internet of things sono un po’ più comode, e un po’ meno nostre. Ci sembrano modelli tecno-economici molto avanzati, e lo sono, ma per molti versi ricordano le istituzioni pre-moderne. Secondo alcune esperti di cybersicurezza, la realtà in cui ci muoviamo è intrinsecamente feudale: doniamo la nostra creatività, il nostro tempo libero, la nostra stessa essenza (contenuti, preferenze personali, dati sensibili) a dei Landlord, che oggi portano i nomi di Google e Facebook, i quali sono remoti nello spazio e invisibili e le cui decisioni sono governate da una logica imperscrutabile; in cambio otteniamo una non meglio definita protezione. Di sistema quasi feudale, riferendosi alla sproporzione di potere tra le piattaforme internazionali e i lavoratori, parla anche il Financial Times (non Lotta Comunista), concludendo che i rider e gli autisti di compagnie tipo Uber potrebbero prima o poi costituirsi in gilde, per assicurarsi la portabilità delle proprie credenziali, proprio come gli artigiani di mille anni fa.

Ci sono suggestioni più estemporanee, come il parallelo tra Donald Trump e un eroe Greco o Sassone: non quanto a nobiltà d’animo ma quanto a retorica pomposa e atteggiamento smargiasso (“braggadocio”). Ci sono echi sotterranei: nel Medioevo le persone credevano che Dio le vedesse dovunque e in qualsiasi momento, oggi sospettiamo che Google ascolti le nostre conversazioni attraverso i microfoni dei cellulari e qualche altra divinità malvagia ci guardi dalle telecamere dei nostri computer. E ci sono visioni più ad ampio raggio: che cos’è il riscaldamento climatico se non il nuovo millenarismo, e quanti di voi leggono Antropocene ma pronunciano Apocalisse? La decrescita – felice o infelice – che ci attende inesorabile, non  ricorda i secoli bui, di depressione materiale e morale? È arrivato il momento di ribaltare la narrazione.  

Mai stati così bene

Tutti questi ragionamenti, anche quelli che sembrano – e sono – più acuti, si fondano però su un assunto sbagliato: che il Medioevo sia stato un’epoca oscura. È un errore grossolano, una cosa che ormai non si dice neanche più ai bambini, ma che evidentemente a livello subcosciente continua a funzionare. Innanzitutto parliamo di un periodo di mille anni: il doppio del tempo che divide noi dalla fine del Medioevo; e pensate quante ne sono successe da allora. Per cui se è vero che effettivamente i primi secoli dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente furono abbastanza deprimenti dal punto di vista economico e intellettuale, da prima dell’anno 1000 in poi fu un continuo progresso. Spesso poi attribuiamo al Medioevo cose che cronologicamente neanche gli appartengono (esempio classico: l’Inquisizione, che diede il meglio di sé nel 1500). Quando addirittura non proiettiamo su quell’epoca timori e pregiudizi del tutto contemporanei. Lo abbiamo sentito e risentito, da storici popolari come Jacques Le Goff e Franco Cardini, Umberto Eco e Chiara Frugoni, e oggi dalla star Alessandro Barbero, eppure non ce ne facciamo una ragione. Ecco per esempio proprio Cardini, ricordando Le Goff

“Aveva scritto da poco un libretto sugli intellettuali e la vita universitaria uscito in italiano col titolo Genio del Medioevo (Mondadori 1959), che per molti anni fu una lettura obbligatoria che noi imponevamo agli esami. Resisteva ancora, attardata nelle pieghe della semi-cultura diffusa e nel conformismo scolastico, l’idea di un Medioevo “oscuro”: quello povero, ignorante, barbaro e superstizioso di cui aveva parlato Voltaire. Noialtri (…) non condividevamo certo quel genere di pregiudizi: eppure, la franchezza con cui Le Goff ci mise davanti a un Medioevo luminoso, razionale, felice, libero, stupì e quasi scandalizzò perfino noi.”

Ma appunto, parlava degli anni ’60. Oggi, chi non vuole cedere alle sirene accelerazioniste (se il comunismo era il socialismo più l’elettricità, l’accelerazionismo è il comunismo più l’intelligenza artificiale) rischia di cadere nella fallacia neo-medievista. Ma appunto è una narrazione che va ribaltata. Il sillogismo dovrebbe essere semplice: se siamo nel nuovo medioevo, e il medioevo è stata un’epoca di progresso, allora siamo in un’epoca di progresso. Evviva, ci attende una nuova era chiara. Giusto? Più o meno.

C’è chi pensa davvero (Medioevo un attimo tra parentesi) che stia andando tutto bene. O meglio, che non siamo mai stati così bene prima d’ora. In media, s’intende. È la tesi di Steven Pinker, già anticipata nel 2011 da Il declino della violenza, ed estesa a tutti i campi in Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso (Mondadori, 2018). Nello stesso anno è uscito anche Factfulness di Hans Rosling (Rizzoli), che dice tutto già dal sottotitolo: Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo. Un libro affascinante e confortante, con dei bellissimi grafici e argomentazioni basate sulla più ideologica delle scienze esatte: la statistica. Vedete, dice Rosling, noi pensiamo che il mondo vada a catafascio, che ci siano miliardi di persone in povertà, centinaia di milioni senza luce elettrica e acqua pulita, milioni di bambini non vaccinati e di bambine senza accesso all’istruzione primaria. Ma non è così, lo dicono i dati: e li sciorina. Certo, aggiunge, peccato che ci sia il piccolo dettaglio del riscaldamento globale, ma anche lì c’è motivo di essere ottimisti, perché sui pericoli gravi che ci attendono siamo ben informati.

Peccato, aggiungiamo noi, che i dati sono neutri, ma non lo è il modo di organizzarli: se per esempio si va a vedere quante persone hanno accesso “a un qualche tipo di elettricità” il numero sarà altissimo, ma dobbiamo essere coscienti che con quella formula così ampia comprendiamo anche gli abitanti della baraccopoli nigeriana che accendono qualche lampadina con un vecchio generatore a gasolio, o gli afgani che hanno case allacciate alla rete ma la corrente gli viene tolta 23 ore su 24. Sulla grande sperequazione globale, quella che divide nord e sud del mondo, Rosling tuona: è un paradigma che va abbattuto. E divide gli abitanti del pianeta in 4 categorie, mostrando come le due estreme, dei più ricchi e dei più poveri, siano minoranza numerica, e come quasi tutti viviamo in una gigantesca middle class. Attenzione però a dove si piazzano i confini, perché per Rosling gli appartenenti alla categoria 2, quindi quelli catalogabili come upper middle, non i ricconi ma i benestanti, sono i due miliardi di persone che lavorano 16 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, guadagnando meno di 16 dollari al giorno, senza previdenza e assistenza. Benestanti.

Tornando al Medioevo. Sarebbe da vedere in quali casi dal paragone con l’oggi c’è da trarre conforto, e in quali no. Per dire: il grande progetto di Google Books, che è partito 15 anni fa e non finirà mai, si propone di digitalizzare – quindi salvare e conservare – tutti i libri mai stampati, con vari gradi poi di accessibilità al pubblico a seconda del copyright, ma non è questo che importa ora. È un’impresa titanica e nobile, non dissimile da quella dei primi monaci copisti, che protetti nei loro monasteri mentre fuori infuriava la barbarie, tramandavano il sapere degli antichi. Conservare la conoscenza umana, e renderla accessibile a tutti… o meglio: conservare la conoscenza in un posto, e detenerne le chiavi, è precisamente quello che faceva la Chiesa all’epoca e fa Google adesso, mentre fuori infuriano le fake news e l’information overload. Le chiavi però sono sempre nelle salde mani di pochi: che sull’accesso possono decidere, e cambiare sempre idea.

Forse allora è il caso di riesaminare una per una molte di quelle suggestioni. Partendo proprio da Giovanna d’Arco. Come ci insegna la sua vicenda, ma anche quella di Caterina da Siena, le giovani che sentivano la voce di Dio non venivano affatto accolte trionfalmente e acriticamente. Quell’epoca che ai nostri occhi era dominio di creduloni e baciapile, in verità aveva un’organizzazione sociale molto pratica e razionale: gli uomini dovevano lavorare e produrre, le donne dovevano sposarsi il prima possibile e mettersi a fare figli, perché pochi ne sopravvivevano e quindi il bacino di partenza doveva essere ampio. Certo, credevano in Dio e avevano una vita spirituale più sincera di quella attuale, ma non erano pronti ad accettare qualsiasi voce si proclamasse venire dal mondo sovrannaturale. (Attenzione: quando dico società pratica e razionale non intendo condivisibile. Ingabbiate in questi ruoli, soprattutto le donne facevano una vita di fatiche e sacrifici, e l’afflato mistico era infatti – benedetto – un modo per sfuggire, per ribellarsi) In questo, è sicuramente maggiore il credito che oggi diamo al mondo delle celebrity: davvero pensiamo che siano persone in carne ed ossa, e non maschere che inscenano ogni giorno la rappresentazione della propria vita; davvero riteniamo siano a portata di clic, appena al di là del sottile vetro dello smartphone, e andiamo in estasi le rarissime volte che riceviamo un feedback (mi ha ritwittato!). Siamo molto più creduloni noi, uno a zero per il Medioevo.

E poi ci sono i nomi impronunciabili, i tabù. Non ricordiamo di persone storiche fulminate da una divinità per averne pronunciato il nome e nel passato in certi luoghi incontrare un orso era talmente probabile che forse più che pensarlo bastava uscire di casa. Al contrario le parole che usiamo in rete vengono davvero captate e usate dagli algoritmi; e se scrivo “tœrrone” un’entità non umana, un algoritmo, mi punisce davvero con un ban, un’eliminazione dal social senza possibilità di appello (infatti non l’ho scritto, rileggi).

Capitolo feudalesimo. Qui bisogna intendersi: che la proprietà privata non sia nella natura umana è un fatto (il bambino dice “è mio!” perché lo ha sentito dire prima da noi, ammettiamolo). Quindi ben potrebbe venire, o tornare, un’epoca in cui il valore prevalente è l’uso, e non il possesso. Certo, sarebbe un peccato se questa sostanziale abolizione della proprietà privata valesse solo per i sudditi, e non per i padroni del vapore, ma è proprio quello che succederà. Soprattutto attenzione, quando parliamo di feudalesimo, a dire “servi della gleba” e intendere “schiavi”: non che la loro fosse una vita invidiabile, ma i servi della gleba non erano cose, proprietà privata (Pernoud, Medioevo, un secolare pregiudizio, Bompiani, 2001). Lo schiavismo è esistito in epoca classica, e ha ripreso vigore in epoca moderna: la schiavitù di massa è stata inventata dopo la scoperta dell’America con la deportazione di milioni di africani; ed è stata abolita in molti casi non prima della seconda metà dell’Ottocento. Altro autogol per noi.

Vogliamo parlare dell’Apocalisse? Mille e non più mille, disse nessuno mai. Almeno, durante il Medioevo. La convinzione che attorno all’anno 1000 tutti attendessero la fine del mondo è una proiezione nostra, una leggenda nata in epoca moderna, neanche negli anni successivi al Medioevo ma molto dopo: uno dei principali mattoni di quell’edificio di pregiudizi per cui c’era bisogno di un passato da disprezzare per dare risalto alla nostra epoca illuminata. Certo, allora si aggiravano i predicatori, in quella come in altre epoche, proprio come c’erano i mistici: ma non è che gli si desse molto credito, e anzi erano un pericolo innanzitutto per la Chiesa. La storia della terra piatta poi, come Barbero insegna, è una vera delizia: più ci si allontana dal Medioevo, più questa leggenda prende forma. Prima come proiezione, appunto, poi come teoria del complotto. Risultato: l’epoca nella quale hanno vissuto più persone che credono che la terra non sia un globo, è proprio questa. 

L’equazione va quindi, tutto sommato, ribaltata a nostro discapito: il Medioevo è stato un periodo di progresso (dal quale tutt’al più abbiamo da imparare: vedi il metodo dei monaci per non farsi distrarre dal multitasking), l’evo attuale molto meno. L’unica cosa che possiamo rivendicare come nostra è proprio quella di cui andare meno orgogliosi. Perché è vero: in ogni epoca ci sono state persone che credevano di vivere alla fine dei tempi. Noi lo sappiamo.


Dario de marco Si occupa principalmente di letteratura fantastica. Giornalista, ha co-fondato il mensile Giudizio Universale e collaborato con testate troppo numerose per poter stare in questo margine. Ha pubblicato due autobiografie, una travestita da romanzo (Non siamo mai abbastanza, 66thand2nd) e una da saggio (Mia figlia spiegata a mia figlia, LiberAria); la terza sarà in forma di racconti.

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