Perché i giovani istruiti hanno bisogno di ostentare?
di Enrico Pitzianti
Non riesco a liberarmi da una certa insofferenza verso il divismo. È un rigetto istintivo, che di norma smorzo ripetendomi che le disparità tra i singoli e le loro opinioni sono indiscutibili ed è quindi sensato, per esempio, che il prestigio di cui gode un importante politico abbia un peso specifico diverso da quello dell’uomo qualunque. Nonostante ne capisca la ratio però, l’insofferenza riaffiora appena ve n’è occasione: il selfie col personaggio della TV, l’autografo sulla copia del disco e così via.
Non è chiaro se l’atto del divizzare – una specie di moderno “mitizzare” – sia un riconoscimento che viene attribuito al divo da parte di altri o se invece basta un’autoproclamazione. Viene da pensare che siano necessari una serie di passaggi: l’aspirante divo si deve esporre anche a comportamenti inusuali, esibizionistici, così da ottenere un’attenzione che non gli era rivolta col semplice status di ricco o famoso.
Se è vero che nel presentarsi a un pubblico nasce il germoglio del divismo, allora il “divismo in potenza” risiede in come ognuno di noi si espone in società, nell’immagine che si vuol dare e nel teatro quotidiano che si imbastisce per realizzarla.
Scrivendo di tanto in tanto per la pubblicità, mi è capitato di avere sotto gli occhi le tendenze di mercato di alcuni brand per il 2017. E ho provato un filo di disorientamento nell’osservare che cresce la tendenza a indossare i marchi anche tra gli “istruiti”. Con questo termine parlo della nicchia composta da giovani laureati, spesso millenial, che un tempo si identificava con le controculture e che oggi, sembrerebbe, ha perso l’imbarazzo dell’ostentazione del marchio e del pauperismo. Si tratta di persone politicamente alfabetizzate ed eticamente formate: ma se un tempo evitavano i marchi, o almeno quelli troppo evidenti (Nike, per esempio, tradisce endorsement all’ultracapitalismo) oggi invece si lasciano stregare come il resto della borghesia, un po’ tamarra un po’ pop.
C’entra sicuramente la perdita di fascino dell’estrema sinistra, ma avere addosso loghi di dimensioni sempre più evidenti, non è solo frutto dell’inerzia con cui il capitalismo conquista le nicchie culturali.
È come se la dipartita definitiva dell’anticapitalismo dallo scacchiere politico globale abbia levato la camicia di forza agli istinti venali della classe media e alla sua necessità di status symbol. Certo che era (ed è) deprimente il finto povero con le polacchine sgualcite, ma lo è altrettanto il finto tamarro che ostenta loghi enormi, come se puntasse a un mini-divismo formato rapper.
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Normalmente nell’universo del marketing gli istruiti sono acquirenti difficili, diffidenti, eppure oggi succede che alcuni si dimostrino disposti a pagare il marchio, quasi a prescindere dalle caratteristiche intrinseche del prodotto. Se di norma chi è stregato dai capi firmati è un “grezzotto da periferia” o “un superficiale” oggi sembra che sia crollato l’ultimo bastione borghese allergico al divismo, quello di chi, tra gli istruiti, evidentemente, non trova più un buon motivo per non ostentare.
“L’istruito brandizzato” è una novità da guardare con sospetto. Perché se i grezzi e i superficiali sono coloro che, nella visione comune, sono destinati a venerare i marchi, un certo tipo di istruiti opera scelte più focalizzate sul rapporto qualità-prezzo. Il dubbio è che manchi la sincerità di apparire per chi si è “realmente”, come se ci si travestisse con una giravolta ironica utile a sdrammatizzare su se stessi. Ci si impegna ad apparire esteriormente come persone alla mano, popolari quanto un ragazzetto in tuta, mentre sotto questa superficie dominano valori e riferimenti culturali opposti.
La brandizzazione degli istruiti avviene grazie al cedimento della sinistra radicale. Ma sorge il dubbio che l’ostentazione dei marchi possa avere un’altra ragione: la stessa per cui si ostenta nei ghetti afroamericani: sbandierare pubblicamente l’avercela fatta economicamente, l’aver battuto la povertà, anche se in questo caso non è quella del ghetto, ma quella del precariato.
Da questo punto di vista il termine “arricchito” non è un sinonimo di mancanza di eleganza, ma un complimento: equivale al riconoscimento sociale dello status di “persona riuscita”. Il ricco che è tale da generazioni conosce bene il modo di rendersi la vita facile e non ostenta esteticamente, risparmia: perché è difficile diventare ricchi e l’unico impegno da prendere seriamente quando lo si è già è fare di tutto per rimanerlo. Al contrario il ricco del ghetto, come il rapper, ha un’urgenza, quella di dimostrare la propria ascesa sociale, conseguentemente ostenta e spreca anziché risparmiare.
Ma se il giovane occidentale istruito fa già parte della classe media perché dovrebbe ostentare di appartenervi? Be’, forse oggi tale appartenenza non è più scontata.
Che l’impoverimento dei giovani della classe media occidentale crei bisogno di rivalsa non è poi così assurdo. Con prospettive economiche da rivedere al ribasso e aspettative da mille euro mensili è sensato dimostrare di potersi permettere gli scarpini nike o le polo firmate. Forse l’urgenza è proprio quella di dimostrare di aver sovvertito un destino fatto di povertà e precariato. Il cavallino Ralph Lauren come simbolo di riscatto, esattamente come succede nei ghetti statunitensi: capacità economiche da esibire alla faccia di un destino da probabili poveri che sembrava già scritto.
È brutto immaginare che anche tra gli istruiti, che potrebbero creare le nuove tendenze e non cedere alle vecchie, l’impoverimento della classe media abbia intaccato il socioletto stilistico fino a normalizzare un divismo formato rapper. Il marchio ostentato, infatti, per quanto coperto da mille strati di ironia, rimane sinonimo di venalità. Il tutto è ancor più ridicolo se l’ammaliato dai marchi è lo stesso che si addolora per la scomparsa dei partiti anticapitalisti.
La Dark Polo Gang nel singolo “Sportswear” fa l’elogio del consumismo vuoto e ultra materialista, figurativizzandolo in un’estetica da millennial “arricchito”, col collezionismo di sneakers, simile a quello di Riff Raff e di altri rapper che all’estetica luccicante aggiungono un velo di ironia marchettara. Non c’è nulla di male, si tratta di un universo musicale e culturale che, sebbene ampiamente sdoganato, rimanda ancora a un certo riscatto economico oltre che culturale. Non c’è quindi da sorprendersi se lo stesso immaginario da dente d’oro sopravviva anche tra chi non viene dalla miseria o dai ghetti, perché miseria e ghetti possono tranquillamente essere potenziali – o diventare metaforici e quel luccichio, quel bling-bling, rimarrebbe coerente.
Gli swoosh e i cavallini sulle magliette si addicono ai rapper perché sebbene ci possa essere ironia non c’è ipocrisia, nessuna contraddizione con la natura umana di chi li indossa. Il problema nasce quando questa doppiezza c’è, e, nei casi in cui si è degli istruiti, politicamente alfabetizzati, o semplicemente capaci organizzatori della propria vita secondo regole più complesse del “pensare solo ai soldi” l’ipocrisia è evidente. Ci si veste da tamarri, ma non lo si è.
Questa discrepanza tra apparenza e identità personale è la base della cosiddetta hipsteria. Il termine hipster era utilizzato in origine per definire i bianchi che ascoltavano musica da neri e anche se oggi il termine è usato più come sinonimo di “modaiolo” l’attualità del significato primigenio rimane intatta: classe media bianca che si atteggia da nera. L’hipster barbuto, quello che va scomparendo, ha lasciato il posto a tante altre varianti estetiche in cui il minimo comune denominatore rimane l’ironia. Avremo il look metallaro decontestualizzato, il look raver addosso a un medioborghese laureato in sociologia e così via. Ciò che rimane è la discrepanza tra apparenza e sostanza, e quindi l’ipocrisia (un tempo si chiamavano poser). Un’ipocrisia tutt’altro che innocua, perché il ragazzo con gli occhiali tondi alla Yoko Ono e la maglia coloratissima lo immagineremmo alla mano, magari con in testa idee misticheggianti, e scoprirlo uno snob fa sorridere. Proprio come fa sorridere scoprire che i ragazzi della Dark Polo Gang vengono da quartieri romani bene come il Rione Monti.
La moda cavalca i trend e li esaspera, così questa discrepanza tra contenuto e contenitore è portata all’estremo e ci tocca vedere una miliardaria come Kim Kardashian indossare una felpa sul cui cappuccio rosso campeggia il simbolo del comunismo. Tutto orchestrato per poter gioire dei like dei propri follower grazie all’ironia: Kim Kardashian + falce e martello = Lol.
Oggi il mercato non ha quasi più nemici, in occidente gli anticapitalisti prendono pochissimi voti e probabilmente il trend non si invertirà. Eppure rivendico la repulsione verso l’ossessione finto-ironica per i loghi, che attira lo sguardo, porta follower e click, ma rimane ridicola quanto un comico che si affatica a far ridere. Oltre agli idoli, forse, dovranno cadere anche i divi.
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