È giusto etichettare dittatori e leader politici estremisti e violenti come “mostri”, o è una strategia controproducente, figlia di un’analisi superficiale della situazione politica?
In copertina e nel testo: Rutilio Manetti, Il Tempo strappa le ali ad Amore (1629), Asta Pananti di settembre
Qualche mese fa, la casa editrice nottetempo ha pubblicato una raccolta di saggi socio-politici dal titolo Strongmen. Il libro contiene sei contributi di altrettanti intellettuali provenienti da diverse democrazie del mondo; ognuno di loro si esprime riguardo al leader populista e reazionario della propria nazione: gli “uomini forti” sono Donald Trump, il Primo Ministro indiano Narendra Modi, Vladimir Putin, Erdogan, il brasiliano Bolsonaro e Rodrigo Duterte, Presidente della Repubblica delle Filippine. L’intento generale di Strongmen è mettere a confronto i risultati delle spinte neonazionalista presenti da qualche anno in molti Stati di diritto, esaminare le singolarità di ogni caso e cercare un minimo comune denominatore che sottende ognuna di queste nuove e fosche situazioni politiche.
Il primo a prendere la parola è il curatore di Strongmen, Vijay Prashad, storico indiano e insegnante al Trinity College di Hartford. La sua introduzione fornisce un’analisi asciutta ma completa dei fattori economici, sociali e culturali che hanno portato le democrazie mondiali a trovarsi in pericolo. Nonostante questo, il contributo di Prashad – intitolato Il ritorno del mostro – può sollevare importanti questioni ideologiche e politiche.
In breve, nel suo contributo (un estratto lo si può trovare anche in questo altro articolo), Prashad dà la sua personale visione riguardo all’avvento dei nuovi leader populisti e di estrema destra, descrivendoli come dei «nuovi mostri» che discendono da quei «vecchi mostri» fascisti del secolo scorso, come Hitler, Mussolini, Franco e altri. Questi «mostri di oggi» sono i guardiani di un capitalismo allo sbando, che ha distrutto ogni collettività con l’individualismo sfrenato e ha causato un terribile divario tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più in miseria; il ruolo dei «nuovi mostri» è quello di veicolare la rabbia sociale verso i più deboli, come i migranti, gli omosessuali o le minoranze etniche, allo scopo di mascherare e preservare quello che è il vero problema, ovvero un sistema economico-finanziario mondiale giunto al collasso.
Al di là della comunque buona qualità dell’intervento di Vijay Prashad, non concordo sull’etichettare come “mostri” i soggetti del discorso. Sebbene i politici in questione rappresentino alcuni degli aspetti più deprecabili dell’essere umano, quali il razzismo, la violenza deliberata e l’abuso di potere, accontentarsi di affibbiare loro connotati de-umanizzanti può rivelarsi errato ed eccessivamente semplicistico, nonché molto lontano da quella che sarebbe un’analisi critica, profonda e consapevole del problema dei populismi e della rinascita dei fascismi. Quanto è davvero corretto, quindi, scambiare uomini per mostri, a prescindere (ma non troppo) da quello che compiono e rappresentano?
Tutto questo può sembrare una polemica oziosa. Eppure, alcuni dei più grandi autori del Novecento – uomini che hanno vissuto sulla propria pelle tutto ciò che oggi sembra tornare – hanno trascorso la propria vita nel tentativo di dare alla società umana, attraverso la testimonianza e la scrittura, i concetti e gli strumenti giusti affinché essa imparasse a maturare la giusta consapevolezza nei confronti dei nazifascismi e di tutto ciò che hanno comportato. E, a dirla tutta, nessuno di loro parla di «mostri», demoni o simili, ma pone al centro di ogni discorso l’uomo, in tutta la sua nudità e complessità, e senza utilizzare altre comode rappresentazioni.
Jorge Semprún (1923-2011) è stato uno dei più importanti scrittori e uomini di cultura spagnoli del secolo scorso. Nel 1943 viene arrestato dalla Gestapo in quanto partigiano, e finisce internato nel campo di concentramento di Buchenwald, da cui farà ritorno due anni più tardi. Rimpatriato, inizia a lavorare come giornalista, e nel mentre milita nel partito comunista spagnolo e scrive libri.
-->L’opera più importante di Semprún, La scrittura o la vita, è una specie di diario-testimonianza della sua difficoltà di tornare alla vita quotidiana dopo la prigionia nel Lager, e del tormentato rapporto tra la natura di quell’esperienza e il bruciante bisogno (e dovere) di riuscire, attraverso la scrittura, a renderla in tutta la sua complessità.
In questo senso, non è un caso che La scrittura o la vita abbia, in epigrafe, un’emblematica citazione dell’intellettuale francese André Malraux: «Cerco la regione cruciale dell’anima in cui il Male assoluto si oppone alla fratellanza». Il concetto di «Male» è un assillo che tormenta Semprún lungo tutto il libro, nonché per tutta la sua vita post-Buchenwald: qual è il rapporto tra l’uomo e il Male, declinato nella realtà storica della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto? Esiste un’Umanità del Bene separata da quella del Male? E, in caso affermativo, in che modo e per quali ragioni è capitato che la seconda in modo così terribile alla prima, causando una tragedia ai limiti del dicibile?
Quello che Semprún, attraverso Malraux, chiama «Male assoluto» deriva, in realtà, da un’antichissima branca della teologia che si interroga sul rapporto tra la giustizia divina e l’esistenza del male. In questo caso, Semprún riprende Immanuel Kant (1724-1804) e il suo trattato La religione entro i limiti della sola ragione del 1793. Tenacemente illuminista, il filosofo tedesco afferma che il Male non è un’entità esterna, incombente e autonoma dall’essere umano, ma è una qualità radicata all’interno dell’uomo stesso. L’uomo tende per natura verso il male, che è quindi non universale ma un «Male radicale (radikal Böse)», innato, intrinseco all’umanità stessa. L’uomo, pertanto, sceglie liberamente di perseguire il male, pienamente conscio di allontanarsi dalla legge morale.
In uno dei primi capitoli de La scrittura o la vita, Semprún riprende la teoria di Kant: «Das radikal Böse. Il Male non è inumano, certamente… Può essere, semmai, l’inumano nell’uomo… L’inumanità dell’uomo, in quanto possibilità vitale, progetto personale… In quanto libertà… È quindi assurdo opporsi al Male, prenderne le distanze, con un semplice riferimento all’umano, alla specie umana… Il Male è uno dei progetti possibili della libertà costitutiva dell’umanità e dell’uomo… Della libertà in cui si radicano a un tempo l’umanità e l’inumantà dell’essere umano».
Il disumano è un aspetto dell’uomo. Al centro della contrapposizione manicheistica male/bene c’è sempre l’essere umano, che può incarnare, in base alle scelte che fa, alternativamente l’uno e l’altro estremo; come il Bene, anche il Male è esclusiva e totale responsabilità dell’uomo: non ci sono mostri, demoni o forze sovrumane che lo causano – dal comune cittadino al gerarca nazifascista.
La lucidissima prospettiva di Semprún – nonché il suo estenuante sforzo di fornire una testimonianza e un’analisi più profonde e illuminanti di una più facile e superficiale stigmatizzazione del nemico – è adottata anche da molti altri testimoni, filosofi e intellettuali, sia a lui contemporanei che postumi. Nondimeno, c’è chi, partendo e sposando la stessa linea di pensiero, estremizza la questione dell'”umanizzazione” del male, spingendosi oltre, fino alla provocazione.
Un esempio tra tutti è lo scrittore franco-americano Jonathan Littell (1967), autore del tanto dibattuto Le benevole, pubblicato nel 2006. Littell non ha vissuto la Seconda guerra mondiale, ma il suo è un romanzo storico che scandaglia la storia e la mente di Maximilien Aue, immaginario ufficiale delle SS. Ne Le benevole, Littell (che oltretutto è ebreo di origine) non cerca solamente di compiere la titanica impresa di immedesimarsi e rappresentare ciò che ancora oggi è tabù, ossia l’intima psicologia di un nazista, ma fonda l’intera opera sul presupposto che non esiste alcuna differenza tra un uomo nazista e un uomo non nazista, tra un “cattivo” e un “buono”; anzi, le due personalità sono perfettamente sovrapponibili, addirittura fraterne: uno è semplicemente colpevole di determinate azioni, l’altro no. Non c’è alcuna differenza di qualità tra i due. Per questo, il romanzo è stato oggetto di numerose polemiche e indignazioni, come in questo articolo, ad esempio.
Le benevole inizia in modo brutale, catapultando immediatamente il lettore nel centro ideologico del romanzo: «Fratelli umani, lasciate che vi racconti come è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non ci interessa. […] Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. […] Non penso di essere un diverso. Per ciò che ho fatto c’erano sempre delle ragioni, ragioni umane. […] Vivo, faccio il possibile, capita così a tutti, sono un uomo come gli altri, sono un uomo come voi. Ma via, se vi dico che sono come voi!»
Il male visto nella sua proverbiale banalità, che, su falsariga del pensiero della Arendt, in Littell è inteso come «male comune»: non solo nel senso di “ordinario”, appartenente a tutti i giorni, perpetrato dal lavoro e dal pensiero quotidiani di uomini qualunque all’interno dell’immensa macchina nazista; ma, anche, con il significato di “comunanza”, di appartenenza a tutti gli uomini in quanto tali, in modo indiscriminato e senza alcuna categorizzazione a priori. Ci sono uomini che scelgono di assecondare la parte maligna della propria natura, mentre altri che se ne tengono ben lontani e, a volte, tentano anche di combatterla. Nonostante questo, ognuno è e resta un essere umano e nulla di più.
Arrivati a questo punto, è lecito porsi alcune domande. Guardando alla sostanza, quanto può davvero influire, ai fini del la vita civile, etichettare come «mostri» dei politici dall’ideologia opposta alla nostra e spesso antidemocratica? Quali cambiamenti può mai portare, nel pratico, scegliere di adottare una prospettiva più sottile e riflessiva quando si deve parlare di loro?
Un ultimo autore, questa volta italiano, può aiutare a vedere l’intera questione da un punto di vista più concreto e significativo: Primo Levi (1919-1987). Per l’autore torinese, una testimonianza approfondita, acuta e per nulla schematica delle atrocità naziste era essenziale per due motivi: documentare la propria esperienza e affidarla alla coscienza di chi non sapeva, ed educare e ammonire le generazioni future, affinché Auschwitz non si potesse mai ripetere. I sommersi e i salvati (1986), l’ultimo libro di Levi e suo testamento spirituale, è un’opera mossa dall’intento di restituire ai lettore l’esperienza del Lager nel suo massimo grado di complessità, affinché i lettori possano trarne i giusti strumenti per interpretare il presente e preservare un futuro di pace.
Nel capitolo più importante del libro, La zona grigia, Primo Levi si impegna a scardinare tutti i discorsi schematici che vogliono mettere le vittime da una parte e i carnefici da quella opposta. La retorica del “noi-loro”, “amico-nemico”, “umano-disumano” non rende giustizia non solo alla complessità della vicenda, ma ne deforma la verità storica, pretendendo confini netti che non posso esistere. Tra l’innocenza completa e la colpevolezza più totale è presente una «zona grigia», composta dalle infinite possibilità in cui la natura umana può rapportarsi nei confronti del bene e del male; diversi gradi di collaborazione, di correità e di resistenza da parte non solo di chi stava nel Lager, ma anche chi vive e si rapporta con noi quotidianamente: uomini grigi, ambigui, pronti al compromesso, ma che «erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso».
Primo Levi è ben conscio di quanto sia irresistibile la tentazione di dissipare ogni ambiguità in favore di risposte semplici e confortanti. È fondamentale, però, vincere ogni istinto al manicheismo, cercando di percorrere una strada più complessa ma che è fondamentale per lo sviluppo di un maggiore occhio critico e di una prospettiva acuta e adatta ad analizzare la realtà che ci circonda al di sotto della sua superficie. Solo in questo modo ogni individuo può davvero imparare dal passato per edificare un futuro migliore: «Da molti segni», scrive Levi, «pare sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori […]. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai […]. È indispensabile conoscer[lo] se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare».
È racchiuso qui, allora, il senso dell’intera questione. Le parole che scegliamo di usare implicano l’adozione di un certo sistema di valori e prospettive con cui descrivere il presente. Una specifica deissi della realtà che ci circonda non è solamente ancorata all’hic et nunc: la nostra percezione del presente, veicolata dal linguaggio, non solo influisce enormemente sul modo di analizzare e affrontare le sfide del contemporaneo, ma determina anche come noi ci rivolgiamo al futuro e, nel migliore dei casi, quanto di esso riusciamo a presagire.
Ecco perché, nel nostro caso, anche quello che può sembrare un banale e irrilevante scambio dei termini «uomini» e «mostri» forse non è così banale e irrilevante. Il problema dei nuovi fenomeni populisti che mettono in pericolo le democrazie è un problema così complesso che non si può affrontare brandendo giudizi e parole a mo di accetta, come fa Vijay Prashad o chiunque pretenda di stare al riparo dietro il muro: di qua i buoni, gli uomini, i giusti, di là i cattivi, i mostri, i tiranni. Questa prospettiva è errata e fuorviante: in primis perché, ragionando con categorie stagne, si azzera la possibilità (e lo sforzo) di compiere un’analisi più profonda che porti un arricchimento sia ai lettori che ai dibattiti sull’argomento; successivamente, perché nascondersi dietro etichette e risposte facili sottende una rinuncia alle proprie responsabilità, non solo di intellettuale ma anche di cittadino. L’esempio ci può venire dagli autori sopracitati (insieme a tanti altri), che hanno saputo assumersi le proprie responsabilità di fronte a qualcosa di ben più atroce di Donald Trump, Erdogan, o, perché no, Matteo Salvini (I demoni di Salvini): autori e testimoni, ma uomini come loro e come noi, che, oltretutto, non disponevano dei potenti mezzi divulgativi e cognitivi di cui noi invece disponiamo.
In conclusione, quindi, mi sembra sbagliato parlare di mostri o demoni: demonizzare il presente è il modo più miope e letale di affrontarlo. Gli oscuri leader politici che ci spaventano, in quanto simboleggiano la ricomparsa di un passato che non deve tornare, purtroppo non sono mostri, ma uomini. E hanno ottenuto il potere grazie al voto uomini come loro, che evidentemente si sentono rappresentati in ciò che proclamano. Se si vuole davvero porre un’alternativa – nonché un rimedio – a questa deriva della democrazia, ci si deve sforzare di avere il coraggio di nominare e affrontare le cose nel più consapevole e lucido dei modi, o perderemo il futuro in una mistificatoria caccia al soprannaturale.
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