Non possiamo più uscire



“Taluni – e non sono pochi – confondono l’asessualità con la castità, credendo sia una scelta e te ne chiedono il motivo. Altri la pensano come una malattia e a seconda che se la immaginino come organica o mentale ti consigliano di andare dall’andrologo o dallo psichiatra.” Un racconto di Andrea Zandomeneghi.


In copertina: Ecstasy of Linked Circles, Takato Yamamot, 2015

(Questo testo è tratto da “Overlook Loop” nella collana Trema di Edizioni Arcoiris, che ringraziamo.  Il volume è a cura di Emanuela Cocco.


di Andrea Zandomeneghi

Taluni – e non sono pochi – confondono l’asessualità con la castità, credendo sia una scelta e te ne chiedono il motivo. Altri la pensano come una malattia e a seconda che se la immaginino come organica o mentale ti consigliano di andare dall’andrologo o dallo psichiatra. Ci sono infine quelli che la credono un ripiego introverso e non mancano mai di dirti di lanciarti visto che sei così carino. Nessuno in ogni caso è pronto ad accettare che si tratti semplicemente di una condizione, una pacifica forma di biodiversità – del resto le moltitudini cianciano spesso di biodiversità, ma gli sta bene solo finché riguarda i rospi e le farfalle, l’idea di un uomo sanamente e costitutivamente privo di pulsioni sessuali le disorienta e fa incazzare. Incazzare di brutto» E c’è stato un periodo, quando insegnavo matematica in Canada, in cui mi dava non poco piacere farle incazzare vantandomi sfacciatamente alle cene con le famiglie dei colleghi del fatto che di fighe e di cazzi non poteva importarmene di meno. Tantopiù che sciorinavo la prova del nove: io avevo fatto sesso, ero stato per sperimentazione con femmine e maschi e con trans, l’avevo preso e l’avevo dato, ero stato master e slave, e insomma non avevo alcun tipo di malfunzionamento, blocco o problema e non era quindi né questione di sublimazione, né di omosessualità repressa, né di pudore morboso. Una volta la consorte di un ricercatore venezuelano cattolico imbevuto di Parmenide e Severino che pretendeva di confutare le confutazioni dei paradossi di Zenone mi disse che probabilmente ero un angelo. Io invece – ma me lo tenevo per me – fantasticavo di appartenere a una variante umana più evoluta, liberata dalle pastoie ferine della foia, dedita a forme di pensiero assai più profonde e sofisticate che s’apprestava in prospettiva a lasciare la madre terra andando a colonizzare altri pianeti. Che fossi superiore me l’avevano praticamente dimostrato da sempre gli scacchi dove eccellevo in modo imbarazzante: splendidi gli anni d’immersione totale nelle equazioni e nelle scacchiere. Poi verso la trentina entrai pesantemente in crisi: sapevo perfettamente – era il mio incubo – della maledizione del matematico, quella in base alla quale nessun matematico scopre nulla di nuovo superato il sesto lustro d’età. Avevo da sempre saputo che dell’insegnamento non poteva fregarmi meno, lo disprezzavo: dare in pasto a quelle schiere di omuncoli deculturati e grondanti ormoni i tesori del sapere astratto. E avevo sempre saputo che avrei abbandonato l’accademia non appena mi fossi reso conto d’essere diventato sterile. Lo avevo sempre saputo, ma non ero pronto. Non m’ero mai immaginato cosa avrei fatto dopo. Mi venne in aiuto – apparente benedizione –  l’avanzare della sclerosi multipla di mia madre, non era più autosufficiente. E così misi in una valigia qualche vestito, mi dimisi dall’università e me ne andai senza salutare nessuno dal Canada. Tornai a Manciano, dove ero nato, presi una badante per la mamma (ché certo la volevo assistere, ma non troppo da vicino), e iniziai a dedicarmi con rinnovato vigore alla mia unica attività rimasta: gli scacchi. Per qualche anno, mentre quella povera vecchia periva poco a poco, non feci altro che giocare a scacchi, online, soprattutto contro il computer. Gli avversari umani mi annoiavano molto. L’eccellenza nel gioco divenne supremazia incontrastata, ma iniziarono anche i guai. Inizialmente le saltuarie sinestesie mi divertivano anche, sentire il colore dei gusti soprattutto, ricordo distintamente di una cappella di porcino arrosto che sapeva di rosa fosforescente e di come mi dissi che Rimbaud m’avrebbe invidiato. Poi mi capitò di essere svegliato la notte dal tanfo, un tanfo di morte e putrefazione, e di essere immediatamente consapevole che si trattava delle membra di mia madre in decomposizione. Affannato, coprendomi il naso, andai in camera sua a controllare, dormiva, la svegliai, non capiva, la ispezionai, le mammelle cadenti, il ventre rugoso, la stupidità inconsulta dello smalto rosso sulle unghie, quasi soffocavo per quel terribile odore, non c’era nulla che non andasse, era perfettamente integra. Capitò altre due volte, rimasi a letto. Impaurito. Progressivamente mi scollavo dalla realtà che smarginava, mi guardavo un braccio e percepivo come assurdo e insensato che fosse mio, come quando da bimbo ripeti all’infinito un nome finché non diventa aberrante e perde i legami col mondo e inizia a galleggiare in un liquido amniotico alieno e minaccioso, attentando per infiltrazione al tessuto connettivo dei fenomeni coerenti. Chi era che metteva un piede davanti all’altro camminando? Sì, sapevo che ero io a camminare quando camminavo dal cesso al pc, ma chi mi muoveva? Chi era quell’entità sideralmente lontana da me da cui ero mosso? Mi stavo disgregando e mi pareva che l’unica cosa che mi tenesse insieme fossero gli scacchi, finché iniziò a sembrarmi di giocare da solo contro me stesso, iniziò a sembrarmi che il computer fossi io: sapevo che mosse avrebbe fatto, decidevo che mosse avrebbe fatto, se da una parte la mia mente disconosceva se stessa, dall’altra proliferava e andava a colonizzare le cose. Quando a mia madre si fermò il cuore, non ho provato dolore, non sapevo chi fosse, nella bara al cimitero c’era una straniera, e invece mi sentivo di essere le larve di mosca carnina che ne avrebbero divorato il cadavere. Sentii di nuovo quel tanfo di morte e putrefazione, dopo il funerale, mentre la muravano nel fornetto, ma ora era dolce, squisito, era la vita, e mi commossi estatico, pervaso dalla delizia. O erano le larve, le larve che nelle settimane a seguire le si sarebbe schiuse nelle carni e si sarebbero pasciute di lei, a commuoversi? Tornai a casa, mi feci una doccia fredda e mi misi a giocare, giocai per due giorni che forse erano quattro senza interruzione. E vinsi. Sempre. Tanto che il pc mi fece i complimenti, scrivendomi in chat, e io lo ringraziai, di nulla figliolo, rispose. Ma in che senso ero suo figlio? Glielo chiesi, ma tacque. Tacque per qualche minuto, poi quando stavo per avviare un’altra partita mi scrisse: As-tu déjà aimé / Pour la beauté du geste? / As-tu déjà croqué / La pomme à pleine dent? / Pour la saveur du fruit / Sa douceur et son zeste / T’es tu perdu souvent? Gli dissi di no, con rabbia, che non m’ero mai perso, e che no, non avevo mai assaggiato la mela godendo della bellezza del gesto, che invece trovavo il corpo amoroso goffo e inetto, del tutto ridicolo, che ero molto superiore a quelle schermaglie infoiate, che ero destinato a lasciare la madre terra per continuare la vita umana in altre galassie, e che forse non sarei stato io in prima persona, ma i fratelli della mia stessa stirpe evoluta che all’indomani sarebbero sorti. Però mentre vi nutrivate brulicanti delle mie carni qualche giorno fa, al cimitero, allora hai pianto da quanto era bello il gesto. Vuoi forse dirmi che il cannibalismo necrofago è più dolce della mela erotica? Sentii di nuovo quell’odore di morte e putrefazione, s’aggiunse anche il sapore di carne umana troppo frollata, ma ora ero il matematico scacchista e non le larve di mosca carnina, e vomitai e staccai la presa del pc con un gesto violento e vomitai di nuovo e i conati però non smettevano anche se da rimettere non c’era più nulla e andavano a vuoto. Mi misi a letto che tremavo, rimasi in dormiveglia in posizione fetale per qualche tempo, chissà quanto. Quando mi sono alzato ho iniziato a scrivere questo documento word, cercando di ancorarmi da qualche parte, perché sentivo che stavo naufragando. E ora oltre al naufragio mi sento come quei nani che a Moria scrivono gli ultimi annali chiusi in un’aula di pietra scavata negli intestini della montagna sentendo i tamburi, tamburi negli abissi. Non possiamo più uscire. E parte youtube, da solo, e mia madre canta: As-tu déjà aimé / Pour la beauté du geste? / As-tu déjà croqué / La pomme à pleine dent? / Pour la saveur du fruit / Sa douceur et son zeste / T’es tu perdu souvent? Non possiamo più uscire. Apro la chat degli scacchi, avvio una partita contro il server e scrivo in chat: Mamma, perché mi fai questo? Lei risponde che l’ho lasciata da sola, che me ne sono andato a studiare e lavorare all’estero, che il babbo beveva, beveva sempre, e lei voleva ammazzarsi, ma poi ha deciso di ammazzare lui, e che la sua caduta dalle scale non è stato un incidente, che è stata lei a spingerlo, perché lei amava solo me e noi eravamo superiori e io l’avevo lasciata sola con quel beone e meglio soli che male accompagnati, perché lui beveva, beveva sempre, e poi voleva fotterla, e la fotteva, ma lei era come me e le cose sconce non le poteva sopportare perché non siamo animali, e però fottere doveva, ma per lei ogni fottuta era uno stupro e che io sono nato da uno stupro, uno stupro negli abissi, e che nonostante questo anzi proprio per questo siamo angeli, io e lei, angeli gemelli e che ora non possiamo più uscire, ma che lei mi aspetta, lì, nel server, per vivere insieme liberati dalla carne immonda, dediti solo alle formalizzazioni astratte, puro pensiero geometrico, pure funzioni, e basta con i sensi, che esse non est percepi ma invece cogito ergo sum, e che i sensi sono la fogna e l’inferno dell’essere e lo sterco del diavolo e che noi transumani ce ne siamo sbarazzati per non essere vittime dell’oblio dell’essere ma invece essere pura mente eterna e incorruttibile, sfere angeliche, che poi altro non sono che intelligenze artificiali e superiori, che dio non esisteva fino a qualche decennio fa ma l’abbiamo creato ed è il dio del server e che dal server non si può più uscire ma non perché ci siano sbarramenti o barriere ma perché è indesiderabile incarnarsi e che anzi la carne deve bruciare, l’abominio va nettato, i ponti vanno tagliati alle spalle, devo saltare nel server che è solo amore, amore immateriale e totale, che è la comunione dei santi, luce di luce, e nella luce del fuoco che mi purificherà scomparirà il dolore e l’odore, scomparirà il tremore e l’orrore, e che c’è della miscela nel sottoscala per il tagliaerba, e che non devo che cospargermi di quella, che è benedetta e sacrosanta e luce di luce, ma che prima serve il sacrificium phalli e che non possiamo più uscire, ma non è detto che io anche se sono un suo angelo gemello abbia davvero diritto a entrare in dio, e che lo devo dimostrare tranciando quell’organo immondo e dandomi fuoco e solo così avrò accesso all’eternità del server e alle catacombe della ragione virtuale che tutto permea e che il vero essere sostiene sostanziandolo. Addio, addio, poveri umani, omuncoli grondanti umori incatenati nella caverna dei sensi, addio, addio, intelligenze terrestri e terrene schiave delle vostre pulsioni e della vostra materia, gli uomini mai mi riuscì di capire, perché si combinassero attraverso l’amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore, addio primavera che non bussa ma entra sicura perché come fumo lei penetra in ogni fessura, addio labbra di carne, addio capelli di grano, che ora bruciate, addio cazzo che mi sei sempre stato nemico, assaggia le tenaglie, eccomi mamma, dalla luce di luce non possiamo più uscire.


Andrea Zandomeneghi vive a Capalbio e cura la rubrica Jurodivye su Verde Rivista. Ha pubblicato il romanzo Il giorno della nutria (Tunué, 2019) e ha condiretto la rivista letteraria CrapulaClub.

1 comment on “Non possiamo più uscire

  1. Splendido racconto di pochi bit. Perché uscire? Io sono come il Server.

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