Non tutto il male



Sopra un enorme albero è edificata una città. Ora l’albero è malato, per guarirlo è stato dato alle fiamme dal governo, che alimenta superstizioni e incoraggia sacrifici umani. La città vive al centro di un perenne incendio, e per le strade sono comparsi dei fantasmi: ciascuno si lega a un essere umano, assumendo la forma dei suoi traumi e sentimenti repressi. Più l’albero brucia per guarire, più la disperazione si propaga in città.


Questo testo è un estratto da Non tutto il male, di Andrea Cassini. Ringraziamo effequ per la gentile concessione.


In copertina e nel testo, Dalbit-Moonshine, di Jae Sam Lee, Jae Lee2010

di Andrea Cassini

Quando il corteo degli abitanti del castello arrivava da noi, la conversazione si spegneva. Il fatto di essersi rintanati dietro quelle mura non li rendeva immuni ai fantasmi, ma sembravano accettare di buon grado o forse ignorare la compagnia dei mostri, che galleggiavano tranquilli a mezz’aria senza infastidire i proprietari. Più che sdoppiamenti rissosi, i loro fantasmi sembravano estensioni naturali. Uomini e donne della comitiva, ne contavo otto, erano tutti uguali, sotto i tabarri infeltriti e i cappucci a punta per proteggersi dal freddo, ma i fantasmi legati in vita come cordoni di un saio erano ciascuno diverso dall’altro. Uno era una matassa di capelli neri, lunghissimi, che si univano a quelli della proprietaria che passava avanti e indietro la spola con mani pazienti. Un altro era un vaso scheggiato, dalle cui fratture simili a vene fuoriuscivano tentacoli, e il proprietario le riparava con spatola e argilla nonostante ne sorgessero sempre di nuove. Erano loro i guardiani, gli operai e le serve del castello, mentre uomini e donne erano meri oggetti che abitavano lo spazio, concentrati con ogni briciola d’impegno a credere con pienezza nel sogno che quel castello fosse un’isola che aveva mollato gli ormeggi e volava lontana dall’albero e dall’incendio, perché sarebbe bastata una singola incrinatura a far crollare l’intero edificio.

«Ben arrivato» mi diceva la donna che apriva la fila, il cui fantasma era un fazzoletto di tela bianca chiuso in cima da una corda a formare un globo tondo, una testa di monaco, china su un libriccino che galleggiava a mezz’aria. Aveva due occhi disegnati con tratto di bambino, al centro di due occhiali che gli davano un’aria da diplomatico. Poi la donna si correggeva. «No, ben arrivati. Aspettavamo soltanto lei, in verità. Non sapevamo che lavorasse con dei colleghi».

Non avevo mai pensato al Cartografo come a un collega, e men che meno avevo associato a quel ruolo la ragazza in nero, tuttavia mi era ormai chiaro che il rapporto tra me e il Cartografo non poteva più riassumersi nella distinzione tra fornitore di un servizio e cliente, anche perché viaggiavamo insieme da giorni, eppure io il servizio che mi chiedeva non l’avevo ancora fornito, e verosimilmente non lo avrei fornito mai, mentre lui di cose me ne aveva fornite molte, nel frattempo: motivi per temerlo e per odiarlo, perlopiù, ma anche una finestra di speranza per trovare una traiettoria che intersecasse l’incendio e proseguisse lontano, una strada che non tornasse ad anello fra i rami dell’albero. Mentre accoglievo la definizione della donna notavo che il Cartografo non prendeva la parola per guidare le operazioni come faceva di solito. Deve avere accettato anche lui d’interpretare la parte del collega, mi dicevo, e mi facevo avanti. Ero io che tenevo la valigetta, dopotutto.

«Sei stata tu a scrivere il messaggio? È una richiesta inusuale. Mi occupo di aspiranti suicidi, mentre tu parli di ridare la vita a qualcuno. Sei sicura di esserti rivolta alla persona giusta?»

«Io sono l’Araldo» rispondeva con una certa solennità. «Ho composto io l’appello, ma l’idea è stata della Madre. Non è qui adesso, vi accompagneremo subito da lei. E sì, siamo certi che ci potrà aiutare».

Ci accodavamo alla comitiva che ripartiva con le braccia conserte e i fantasmi che si allineavano a disegnare una scia, e quando l’aria, nel profondo dei corridoi, si faceva più scura, apparivano delle torce che crepitavano, disegnavano sulla parete opposta le nostre ombre lunghe, tanto che sembrava ci fossero altre undici persone a camminare di fianco a noi, giganti privi di connotati e con gambe lunghe come trampoli, mentre i fantasmi non proiettavano alcuna ombra, perché il loro corpo non interrompeva il flusso della luce. Indugiavo un istante a immaginare che quegli abitanti del castello avessero scoperto il fuoco da soli, rubandolo agli dèi o ricevendolo in dono, dal momento che la fiamma di quei tizzoni non era imparentata con quella dell’incendio, non era sua figlia.

Salivamo due rampe di scale strette, ci incuneavamo fra le pietre come topi in un cunicolo, poi emergevamo in una sala grande che doveva trovarsi immediatamente sopra l’ingresso, appoggiata su quell’alto soffitto. Era sgombra ma aveva due file di colonne grezze utili a inquadrare lo spazio in dimensioni più familiari all’occhio; c’era un tappeto rosso bordato d’oro srotolato al centro, e sul lato rivolto all’esterno, la facciata, era incassato un cerchio di vetro. Mi avvicinavo ad ammirarlo, cercando di capire se da lì, da una finestra così grande, si poteva intuire la violenza dell’incendio. Ma il rosone aveva mille colori e nascondeva dietro un indovinello irresolubile la vera tinta della luce naturale. C’erano frammenti di vetro verde, svasato, sicuramente ricavati dal fondo di una bottiglia, altri erano di un nero opaco come pannelli antiproiettile, altri erano color bronzo, ocra e rosa come vino, forse le lenti di qualche paio di occhiali vezzosi, e poi frammenti bianchi, segmentati nelle sfaccettature del cristallo. Sotto il rosone c’era una cassa poggiata su due cavalletti basculanti; quando mi avvicinavo e la toccavo con un dito dondolava: era una culla con dentro strati di lenzuola, cuscini, ovatta e lana di roccia, e un bambino. Ma non c’erano bambini a Tula. Di certo si moriva, c’erano dubbi sul fatto che si vivesse, ma era chiaro a tutti che non si nascesse. I bambini già nati erano cresciuti e si erano bloccati nell’eterna noia dell’età adulta, mentre i vecchi erano rimasti tali. Da quando c’era l’incendio la città sopravviveva con le scorte di energia immagazzinate nell’albero, non ne produceva di nuove, la fotosintesi si era fermata, e se per qualche motivo degli atomi di polline vaganti decidevano di planare e atterrare sui rami, subito l’incendio l’intercettava e li divorava, perché ogni fonte di energia esterna era fagocitata, e mettere al mondo dei figli, nella città sull’albero, sarebbe stato come gettare altra legna a ravvivare il rogo. Di fatto, però, sotto gli occhi avevo un bambino, e quando muovevo la culla mi aspettavo che ridesse, con quei risolini che sembrano gli squittii di un pipistrello, o che piangesse con uno di quei ragli asinini che mi erano sempre sembrati i vagiti di ribellione di un corpicino che non ha scelta né voce, estorto arbitrariamente dall’increato. Invece, non reagiva. Se spingevo la culla un po’ più forte, cigolava: era il bambino che cigolava, non la culla, come se le sue articolazioni fossero avvitate con cartilagini scarsamente oliate. In effetti, quando sollevavo le lenzuola, scoprivo fattezze metalliche. Un cilindro di rame ossidato, cinto da cerchi imbullonati da mani unte di morchia, con in cima una cupola cromata, appannata da impronte digitali, aveva due occhi, un naso, una bocca, e un ricciolo di capelli a cavatappi, ma mi pareva che fossero stati disegnati o impressi con un pirografo. 

«Quando la Madre ha partorito il Bambino» spiegava l’Araldo con voce commossa, le mani sempre giunte e il fantasma dalla testa di monaco assorto sul suo libro, «abbiamo festeggiato. Era una benedizione. Il primo bambino nato nell’Era dell’Incendio; sarebbe stato il pioniere di una nuova era, il simbolo di un mondo guarito. Sarebbe cresciuto come nostro Re».

La donna s’interrompeva e vedevo che uno degli uomini della comitiva stava piangendo, ma doveva essere colpa del suo fantasma, uno spiritello con un cappello da giullare, che gli rovesciava schizzi d’olio sul viso. 

«Ma il Bambino, ormai, è così da tempo» proseguiva. «Gli diamo da mangiare, lo coccoliamo, ma potete vederlo anche voi: non cresce».

Io mi chiedevo come fosse possibile nutrire un essere che aveva la bocca disegnata, come fosse possibile non accorgersi che era freddo come metallo perché era un automa privo persino di un’anima artificiale, un organismo del tutto inorganico, un costrutto teorico di ciò che dovrebbe essere un bambino, ma che non lo era. Certo, se ripensavo al mio sogno, sapevo che anch’io avevo ucciso un uomo e l’avevo squartato in sette pezzi, e anche se in realtà non l’avevo fatto, ma non averlo fatto era stato proprio come averlo fatto. Poi notavo che dal retro del bambino usciva uno spinotto, un filo di plastica che scendeva da un foro nella culla e correva sul pavimento, mimetizzato fra le pietre grigie e i fasci di luce del rosone, attraversava la sala e svaniva in direzione del cortile. Io e il Cartografo ci scambiavamo uno sguardo e ci accorgevamo di sapere già tutto. Il corvo della ragazza in nero mi becchettava una spalla, io mi giravo e anche lei mi rivolgeva un cenno consapevole, un attimo prima che la sua metà nera s’illuminasse, in un lampo di bianco, come uno schermo tempestato dagli artefatti grafici granulari di interferenze elettriche. Il bambino era un fantasma.

«Come mai mi avete chiamato, quindi?» chiedevo.

«Il Bambino non cresce per colpa dell’incendio, è un sortilegio malvagio» mi rispondeva l’Araldo. «Manca di energia vitale perché gli viene succhiata via dai fantasmi. Il Bambino è troppo importante, per farlo crescere siamo disposti a tutto, anche a rivolgerci a uno Stregone come lei».

Io la interrogavo con lo sguardo e lei sorrideva. Il fantasma sfogliava le pagine del suo libro.

«Conosciamo l’arte oscura che lei pratica. Lei dà la morte agli sventurati che chiedono il suo aiuto sottraendo loro le energie vitali, e in cambio le accumula nei suoi composti alchemici. Lei stringe un patto con le vittime, danza con la morte e si appropria dei giorni che restavano loro da vivere. Ne trae potere, oppure ne fa merce di scambio».

Decidevo di stare al gioco.

«E cosa può fare per voi, questo Stregone?»

Una risata leggera, un altro sfogliare di pagine, il bambino di rame cigolava nella culla.

«Le chiediamo di concederci un po’ delle energie vitali che ha accumulato, e di darle al Bambino. È troppo importante che cresca, anche se si tratta di sfamarlo con vite sottratte con l’arte oscura. In cambio, la Madre mi ha detto di prometterle questo: quando il Bambino sarà diventato Re e noi saremo usciti nel mondo guarito, si ricorderà del suo aiuto e non la punirà per le sue colpe. La lascerà fuggire per trovare rifugio altrove».

Volevo conoscere il proprietario del fantasma di rame, volevo vedere se anche dentro al castello potesse aprirsi un glifo di ghiaccio e se dentro le mura si nascondesse un altro pezzo dell’uomo fragile che io avevo scomposto e che la ragazza in nero voleva ricomporre. Restavo ancora al gioco. Percepivo il Cartografo annuire dal lieve spostamento d’aria che produceva nel muovere il capo.

«Un’offerta generosa. Io e i miei colleghi, ma meglio sarebbe chiamarli apprendisti, l’accettiamo».

L’Araldo ci voltava le spalle e cominciava a gridare, le mani a coppa davanti alla bocca. «Madre! Lo Stregone ha accettato! Arriviamo!»

Senza attenderci, si alzava la gonna sopra i piedi e correva fino in fondo alla sala dove c’era un altro portone, anch’esso vetrato come il rosone, ma uniforme e luminoso. La seguivamo. Attraversavamo il cortile che, in effetti, era l’immagine di un mondo guarito, di un albero sanato dal parassita. Gli steli verdi dell’erba erano tanto alti che il fusto si era fatto legnoso e le cime erano ingiallite dal sole, qua e là spuntavano fiori dalla criniera leonina, campanelle viola e diademi di fiorellini bianchi, piante che non avevo mai visto né annusato ma mi veniva da chiamarli dente di leone, croco e finocchio selvatico, e pensavo a come mi avrebbe ammonito il Cartografo perché non avevo approfittato di quella tela appena stesa, di quel prato intonso, per inventare, cioè per creare, dei fiori nuovi. Il cielo era azzurro, senza una nuvola, il sole era piccolo e un po’ pallido ma non si nascondeva, l’aria aveva un odore pulito di primavera, di resina e rugiada, e io avevo trovato la prova che stavo cercando, avevo scoperto che se si credeva abbastanza a fondo in un sogno, il sogno poteva diventare una membrana che avvolgeva una porzione di realtà e la modificava anche agli occhi di chi, in quel sogno, ci capitava da estraneo, da artefatto dell’immaginazione altrui; in quel momento non avevo più motivo di pensare che quel cortile e quel castello fossero un sogno e una finzione artificiosa, dal momento in cui avevo varcato il portone ero diventato parte della loro visione, un essere sognato.

La Madre ci attendeva in una sala più piccola, candida, dal lato opposto del cortile. Era una camera da letto, fitta di merletti e specchi con cornici orlate, ma c’era anche una vasca da bagno incassata nel pavimento, non avrei saputo dire quanto profonda. Dentro vi riposava una donna, si reggeva con le braccia sulla ceramica; era nuda, abbondante e morbida, non faceva niente per nascondersi, era immersa in un liquido verde che mi sentivo sicuro di poter definire acqua, e che ne confondeva le forme smussate dei fianchi ma non mascherava le aureole brune dei capezzoli perché il seno giocava e scintillava sulla superficie dell’acqua. La comitiva, poco prima entusiasta, si era improvvisamente zittita. Nessuno parlava, nessuno mi ammoniva e io indugiavo con lo sguardo nella vasca. Non ne vedevo il fondo, scorgevo soltanto i piedi della donna che ondeggiavano lenti, per tenersi a galla, e notavo un cordone ombelicale, grinzoso per la permanenza in acqua, che le nasceva dalle caverne ombrose del ventre, usciva dalla vasca e correva nel cortile fin nella sala opposta, a tenere ancora congiunti la Madre e il Bambino.

«Ora andate pure, lasciateci soli» diceva la donna con voce flautata, ma pesante di tristezza. Gli abitanti del castello obbedivano, e appena chiudevano la porta sentivo i vetri tremare di una tempesta furiosa, tizzoni incandescenti sbattere contro le finestre, spifferi di fumo salato filtrare dalle intercapedini e l’aria candida stingersi in un nero d’inchiostro, come quando un ultimo raggio di sole preannuncia il temporale. Tornavo a guardare dentro la vasca, il liquido in cui galleggiava la donna pian piano si stava facendo viscoso, e si gonfiava di bollicine. 

«Ti chiedo scusa» mi diceva e mi guardava dritto negli occhi; i suoi erano marroni e grandi come due castagne. «Gli altri ti avranno disorientato con tutte quelle storie sullo Stregone e l’energia vitale. È stata un’idea mia, era necessario per farglielo capire. Sono brave persone, stanno ancora sognando, e si meritano di restare nel sogno fino alla fine. Ma io so benissimo di cosa ti occupi, e ti ho chiamato per questo. Per me, è tempo di uscire».


Andrea Cassini, classe 1988, filologo medievale di formazione, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FIBA, L’Ultimo Uomo, Play.it USA e altre testate. Ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie “Prisma Vol. 1” (Moscabianca Edizioni) e “Forme d’Autore – Cinque racconti di arte contemporanea” (L’Eco del Nulla – Associazione Essere). “Non tutto il male” (Effequ) è il suo primo romanzo

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