Il filosofo britannico Simon Critchley analizza in un saggio tradotto di recente in italiano cosa significa dal punto di vista morale ed esistenziale possedere il dono – o la maledizione – di poter scegliere tra vita e morte. È un atto lecito o immorale? Il filosofo ne parla con Francesco D’Isa.
In copertina, FAKE DEATH PICTURE (THE SUICIDE, MANET) Yinka Shonibare. Nel testo: The Suicide, Edouard Manet
Che il suicidio possa spesso essere coerente con l’interesse e con il nostro dovere nei confronti di noi stessi, nessuno può metterlo in dubbio se ammette che vecchiaia, malattia o disgrazia possano fare della vita un fardello e renderla ancora peggiore dell’annientamento.
Io credo che nessun uomo abbia mai gettato al vento la sua vita, quando valeva la pena di conservarla.
David Hume
Non vorrei aprire con la celebre affermazione di Camus, «c’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio», ma come scrive Simon Critchley in questo breve e intenso saggio Note sul suicidio (Carbonio editore), anch’io credo che «a prescindere dalla sua risposta, la domanda che Camus pone nel Mito di Sisifo è quella giusta». Come si legge nella prefazione del libro, di recente tradotto da Alberto Cristofori per la collana ‘Particelle’ di Carbonio Edtore, questo tema genera spesso reazioni estreme, che a partire dalla curiosità iniziale possono trasformarsi in biasimo o condanna, soprattutto in cornici culturali legate al cristianesimo o all’islamismo. «Noi pensiamo che il suicidio sia triste o sbagliato, spesso senza sapere perché», scrive Critchley, e contro questa tendenza si propone di «aprire uno spazio per pensare al suicidio come a un atto libero, che non dovrebbe essere moralmente rimproverato o silenziosamente condannato. Il suicidio dev’essere capito e noi abbiamo un disperato bisogno di una discussione più adulta, clemente e meditata sull’argomento». Non potrei essere più d’accordo e sono ben felice di aver avuto l’opportunità di conversare con l’autore su questo interessante libro.
In apertura del saggio Critchley si dichiara «profondamente contrario a qualsiasi ragionamento secondo cui la sovranità di Dio, del re, della nazione o della comunità debba essere il fondamento della proibizione del suicidio. Sono anche sospettoso delle dichiarazioni di autosovranità che sostengono il diritto al suicidio come semplice scelta razionale o come libertà civile autoevidente». Per quel che riguarda le prime affermazioni, la risposta che offre il filosofo è che le ragioni della condanna del suicidio nella nostra cultura, così lontana dalle sue radici greco-romane, risiede nella teologia cristiana. Nonostante non vi sia alcuna esplicita proibizione nella Bibbia o nei Vangeli, infatti, Agostino e Tommaso sostengono che non abbiamo alcun diritto a toglierci la vita, perché questa appartiene a Dio. La risposta dell’autore è analoga a quella di Hume, il cui saggio Del suicidio è in appendice al libro; ammettendo l’esistenza del Dio cristiano, anche ogni forma di malattia e di ferita non dovrebbe essere curata, perché ciò va contro le leggi della natura e la volontà di Dio. Seguendo Hume, il suicidio non è un crimine né verso Dio, né verso il prossimo, né verso noi stessi. La sintesi di Critchley merita un’estesa citazione:
«Non può essere la trasgressione di un dovere verso Dio perché l’appello alla legge naturale è spurio. Dio sarebbe malevolo e cattivo se desiderasse che io patisca un dolore insopportabile e senza fine. Per quanto riguarda il mio dovere verso me stesso, immaginiamo che io sia in una condizione di grande sofferenza a causa di una malattia incurabile e che la mia esistenza sia diventata per me un fardello insopportabile. Che dovere potrei mai avere verso me stesso per continuare in questo stato, se l’alternativa è qualcosa che desidero? Per quanto riguarda il mio prossimo e la società, Hume scrive che “un uomo che si ritira dalla vita non fa alcun male alla società. Smette semplicemente di fare del bene; il che, se è un’offesa, è delle meno gravi».
Forse l’unica divergenza tra Hume e il filosofo britannico è attorno al danno alla società. Critchley si domanda «I nostri doveri verso gli altri sono superiori al nostro proclamato “diritto” al suicidio? In altri termini, il suicida è un egoista? Il suicidio può provocare e in effetti provoca immenso dolore in coloro che amiamo e che ci sono vicini, e può anche avere ulteriori conseguenze alla lontana». Inoltre, «il diritto di decidere della mia morte, la premessa di questa affermazione è che io godo del pieno possesso di me, sono padrone e sovrano di me stesso. Si concepisce la relazione con me stesso in analogia alla relazione con i miei beni, come un computer o un frigorifero. Ma io godo davvero del possesso di me come del possesso di un frigorifero? Niente affatto. Qualunque cosa sia questo “me stesso”, si tratta di qualcosa che in parte è mio, ma in parte è anche condiviso con gli altri, sia coloro che mi hanno formato senza che io li abbia scelti, i genitori, i fratelli e i sadici maestri delle elementari, sia coloro con cui ho scelto di condividere la mia vita, il coniuge, i figli, i miei amici».
Sono d’accordo con Critchley quando scrive che non siamo gli unici padroni di noi stessi, ma che fare se la nostra scelta è in accordo con quella delle persone che maggiormente ci “co-possiedono”, come familiari e amanti? Per il filosofo in questo caso sarebbe un atto lecito. «Se un suicidio è concordato tra un gruppo familiare o una coppia di sfortunati amanti, allora è “legittimo”», mi risponde Critchley, aggiungendo però di essere estremamente sospettoso nell’uso del linguaggio dei diritti e dei doveri quando si parla di suicidio. «La questione della legittimità del suicidio può essere pericolosa; per questo nel mio libro, più che sussumere il suicidio nel gioco linguistico della teoria morale, tento di capirlo».
-->Quando nel saggio si parla della supposta razionalità del suicidio, infatti, Critchley scrive: «com’è possibile che la decisione di mettere fine alla propria vita sia razionale? Perché lo sia, dovrei analizzare i motivi per essere vivo e metterli a confronto con quelli per essere morto. Ma siccome essere morto non è una cosa di cui io abbia esattamente esperienza, come posso valutare razionalmente se quello stato sia preferibile alla mia situazione attuale? La verità è che evidentemente non posso».
Sembra un argomento stringente, anche se ci sono casi, come ad esempio una dolorosa malattia incurabile, per cui presumere che la morte possa essere un’ipotesi migliore mi pare sufficientemente razionale. Questo argomento però mi sembra che valga anche per il restare in vita: se non ho informazioni sulla morte, qualunque parere razionale sulla scelta tra la vita e la morte è impossibile – anche continuare a vivere. Quando ho sottoposto questo capovolgimento al filosofo, non ha avuto dubbi: è un’ulteriore dimostrazione dell’inadeguatezza del linguaggio della razionalità (o dell’irrazionalità) nel parlare del suicidio.
Proprio per abbandonare un’analisi logica e tentare di entrare in una comprensione più immersiva del tema, il saggio include l’analisi di alcuni messaggi di addio, da cui Critchley estrapola un’idea che mi è piaciuta molto. Partendo da una tesi di Freud, sostiene che dato l’intenso amore che proviamo per noi stessi, per ucciderci dobbiamo trasformarci in oggetti: «Più precisamente, dobbiamo trasformarci in oggetti che odiamo. Il suicidio quindi, a rigor di logica, è impossibile. Io non posso uccidere me stesso. Ciò che uccido è l’oggetto odiato che sono diventato. Io odio la cosa che sono e voglio che essa muoia. Il suicidio è un omicidio». Credo che questa suggestione renda giustizia all’intensità del dolore che porta alcune persone al suicidio, una sofferenza tale da sostituirsi alla propria identità, che diventa di conseguenza un unico, monolitico corpo estraneo. Nel saggio il filosofo si pone la domanda: «e se il suicidio non fosse la conseguenza di una condizione psicopatologica con una possibile origine organica, ma una libera scelta, fine a se stessa?».
Al che ho aggiunto: e se invece in alcuni sfortunati casi arrivasse semplicemente un momento in cui si preferisce la morte alla vita, così come arriva una malattia, una caduta, una pioggia o un’alluvione? Per Critchley consideriamo (e condanniamo) il suicidio come una libera scelta perché ci spaventa l’idea di non avere alcuna libertà contro la morte, ma a volte può capitare che una persona preferisca la morte alla vita. «Non dovremmo esserne terrorizzati», mi dice il filosofo, «né tamponare la paura con qualche giudizio morale».
Critchley era d’accordo con me quando gli ho suggerito che forse la rabbia contro chi si suicida, se non si tratta di una persona a noi vicina, capita perché ci ricorda che vivere non è un obbligo né un dovere. «A volte ci indigniamo al cospetto di persone che scelgono di togliersi la vita», mi ha detto, «ma non dobbiamo giudicarle, quanto piuttosto rivolgere lo sguardo verso noi noi stessi e alle cause della nostra rabbia».
Prima di chiudere la conversazione, non ho resistito nel sottoporre al filosofo inglese un messaggio di addio che mi è molto caro, quello dello scrittore Cesare Pavese: Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Critchley mi ha detto di aver già incontrato questo messaggio grazie a un intervento di un suo studente italiano a New York, ed è completamente d’accordo con l’enfasi che Pavese mette sul perdono. «Se c’è una virtù che scarseggia nel mondo contemporaneo», ha commentato «è proprio la misericordia. Amiamo spettegolare sui suicidi di persone che non conosciamo e nelle cui menti non potremo mai entrare: ci vogliono meno pettegolezzi e più misericordia, ha ragione Pavese».
Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi come L’assurda evidenza (Tlon, 2022). Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.
Simon Critchley (1960, Heterfordshire), filosofo e scrittore britannico, è professore presso la New School for Social Research di New York. È considerato uno dei filosofi più influenti del XXI secolo. Si occupa di storia della filosofia, di teoria politica e di letteratura. In Italia ha pubblicato, tra gli altri: Bowie (Il Mulino, 2016); A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio (Einaudi, 2018); A lezione dagli antichi (Mondadori, 2020).
Anche a me è molto caro il messaggio d’addio di Pavese (di cui tra l’altro ho visto l’originale, presso la Fondazione Pavese a Santo Stefano Belbo), perché è Pavese a essermi molto caro.
La frase mi muove non solo umanamente, ma anche dal punto di vista letterario; mi intrappola la sua estrema sintesi (estrema nei due sensi…), e vi sento bruciare la sua cenere esistenziale.
Trovo interessante far notare quanto le sue parole finali echeggino quelle di un altro poeta suicida, Majakovskij, che nella sua ultima lettera scrive: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi”. Ci sono altre somiglianze nella vita artistica e personale dei due, oltre che nella circostanza degli ultimi momenti.
molto stimolante e di perenne attualità