Occhi Letali- Gli Invidiosi di Purgatorio XIII

Eccoci al nuovo commento a un canto della Divina Commedia. Questa volta Carla Fronteddu commenta il tredicesimo del Purgatorio. Questo commento fa parte del progetto de L’indiscreto curato da Edoardo Rialti che abbreviamo in “CCC”, da “Commento Collettivo alla Commedia”.


IN COPERTINA e nel testo un’illustrazione di Gustave Doré

di Carla Fronteddu


Con il contributo di  


Al loro arrivo nella seconda cornice del Purgatorio nessun intaglio, nessuna immagine, si offre agli occhi di Dante e Virgilio, solo la nuda parete rocciosa. La vista dei due è ulteriormente messa alla prova quando si tratta di individuare le anime che lì scontano la propria pena; Dante scruta la montagna, ma fatica a decifrare i contorni umani che gli indica Virgilio. Allora più che prima gli occhi apersi;/ guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti/ al color della pietra e non diversi. Quando finalmente riesce a identificare i penitenti – figure spettrali appoggiate alla livida roccia, coperte da un panno ruvido dello stesso colore – il poeta scopre, commuovendosi fino alle lacrime, che questi hanno gli occhi cuciti con il fil di ferro: E come alli orbi non approda il sole, / così all’ombre quivi, ond’io parlo ora / luce del ciel di sé largir non vole; / ch’a tutti un fil di ferro i cigli fora / e cuce sì, comea sparvier selvaggio / si fa però che questo non dimora

É attraverso la vista che viene punita l’invidia covata in vita dai protagonisti di questo canto, ed è la vista che vorrei eleggere a chiave di lettura privilegiata per commentarlo.

La cultura occidentale ha tradizionalmente riconosciuto agli occhi una superiorità rispetto agli altri organi di senso, stabilendo una coincidenza tra vedere e conoscere sin dai suoi primordi greci.

Tutti gli uomini hanno un desiderio naturale del conoscere. Ne fa fede l’amore delle sensazioni: di fatto, s’amano senza riguardo all’uso, per sè medesime, e più di tutte quella degli occhi. Giacchè non solo per fare una cosa qualunque, ma anche senza voler far nulla, noi amiamo di guardare più, sto per dire, d’ogni altra cosa. E ciò perchè è questa la sensazione che ci fa conoscere meglio una cosa, e c’indica di molte differenze (Aristotele, Metafisica)

La vista evocata nel tredicesimo canto del Purgatorio non è direttamente associata alla conoscenza, ma all’invidia, che nasce negli occhi e si esercita attraverso di loro. Eppure, come vedremo, questo peccato- avvelenando lo sguardo di chi se ne macchia- finisce per allontanare dalla verità e dalla ragione, riconfermando il legame originario tra vista e conoscenza.

Invidere– da cui deriva il sostantivo invidia- significa guardare male, biecamente. Il vizio dell’invidia, dunque, germina e colpisce attraverso l’occhio, che scruta e osserva l’altro in maniera malevola. Cogliene cchiù l’uocchie ca ‘e scuppettate (gli occhi sono più letali dei colpi di pistola) dicono a Napoli, rievocando la superstizione popolare del malocchio, quel malanimo invidioso che ha il potere di gettare la sfortuna sulle sue vittime e da cui ci si può proteggere solo nascondendo o riducendo i propri beni allo sguardo altrui. 

Negli occhi dell’invidioso si manifesta un dolore di fronte alle doti e alla fortuna dell’altro, che con la sua sola esistenza minaccia il suo valore e la sua felicità. 

L’invidia, insomma, è suscitata dal confronto con i nostri simili e si spiega- come suggerisce Kant- col fatto che noi sappiamo apprezzare il nostro benessere non secondo il suo proprio valore interiore, ma soltanto secondo il paragone che facciamo con il bene degli altri (Kant, Metafisica dei costumi)

Il rapporto tra invidia e vista non finisce qui, ma si arricchisce di un ulteriore elemento: l’invisibilità e la segretezza in cui questo vizio viene coltivato. Chi ammetterebbe infatti la propria invidia?

Ci si vanta spesso delle passioni, anche delle più criminose, ma l’invidia è una passione timida e vergognosa che non si osa mai confessare (La Rochefoucauld, Massime)

Poichè scaturisce dal confronto col nostro simile – che ci ferisce nel nostro senso di superiorità e che con la propria felicità sembra minacciare la nostra- esprimere apertamente sentimenti d’invidia significherebbe ammettere la nostra inferiorità rispetto all’altro. 

Come suggerisce l’immagine dantesca (la parete livida, i mantelli delle anime purganti che si mimetizzano col colore della roccia), nella sua segretezza, l’invidia è una passione grigia, implosiva o – come la definisce Pulcini facendo riferimento in particolare alle società postmoderne- “triste” (Elena Pulcini, Invidia. La passione triste)

L’invidia, infatti, è una passione che rode e corrode e che – contrariamente, ad esempio, all’auto-compiacimento della superbia, o ai piaceri del corpo di gola e lussuria –  esclude qualunque forma di soddisfazione mentre la si prova.

Nell’invidia l’individuo logora se stesso senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio inestinguibile della distruzione dell’altro. E quand’anche l’altro fosse distrutto, la soddisfazione non sarebbe ugualmente raggiunta poiché la fine dell’altro non procurerebbe in alcun modo l’accrescimento di sé (Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù)

L’unico piacere passeggero che può derivare dall’invidia è quello offerto dalle disgrazie e dalla sfortuna altrui come nel caso di Sapìa, l’anima che Dante incontra in questo canto.

Tale era l’astio che provava nei confronti dei suoi concittadini senesi, da augurarsi la loro sconfitta nella battaglia di Colle Val d’Elsa e fui delli altrui danni / più lieta assai che di ventura mia.

Raccontandosi al poeta, la donna ammette: Savia non fui. E non solo per la preghiera espressa, ma anche perchè una volta esaudita volsi in sù l’ardita faccia, / gridando a Dio: Ormai più non ti temo!

Vediamo come l’invidia, quel furore che non può sopportare il bene degli altri (La Rochefoucauld, Massime) allontani dall’uso della ragione, accechi, minacciando l’associazione vedere-conoscere su cui si basa la nostra tradizione culturale. 

L’invidia, come si è visto, è collegata alla vista su più livelli; nasce nello sguardo, e si esprime per suo tramite (l’evel eye, il malocchio); si nasconde alla vista degli altri, cercando di camuffarsi dietro il silenzio o falsi apprezzamenti; e infine acceca, priva gli occhi della loro facoltà conoscitiva, appannandoli di sentimenti lividi che spingono l’invidioso a desiderare qualcosa solo per vedere l’altro danneggiato o perchè l’altro ne gode.

Tale può essere la forza dell’invidia da spingere le persone non solo a desiderare ciò che non è di alcuna utilità per loro, bensì ad andare addirittura contro i loro stessi interessi […] purché l’altro ne sia danneggiato (Elena Pulcini, Invidia. La passione triste)

L’aspetto irrazionale dell’invidia, osserva Pulcini, mette in discussione la convinzione illuministica, universalmente condivisa, che gli uomini agiscano spinti solo dal loro interesse, da preoccupazioni utilitaristiche e acquisitive. A guardare bene, essa manifesta una pulsione nichilistica che spinge a sacrificare se stessi pur di veder negato il bene e la superiorità dell’altro, come bene illustrano alcune storie popolari:

una strega va da un contadino e gli offre di soddisfare un suo desiderio, ma lo avverte che, di qualunque cosa si tratti, lei farà due volte la stessa cosa al suo vicino. Il contadino ci pensa su per un po’, quindi sorride furbescamente e finalmente esclama: «Cavami un occhio!» (Maria Miceli, L’invidia)

Questa forma di accecamento, che riconferma la natura implosiva dell’invidia- osserva sempre Pulcini- trova humus fertile nella socialità moderna dove individualismo e uguaglianza offrono le condizioni per l’universalizzazione del confronto competitivo.

Le ultime Parole di Sapìa per riferirsi ai suoi ex concittadini- tu li vedrai tra quella gente vana– rivelano non solo la tenacia corrosiva di questa passione, che dura più della felicità di quelli che invidiamo (La Rochefocauld, Massime), ma anche la preoccupazione di Dante per la crescente rivalità e la competizione tra le città, come quella tra Siena e Firenze, e tra i loro cittadini. Egli, infatti, era testimone di un’epoca di profonde trasformazioni sociali e probabilmente presagiva che con l’affermarsi della società mercantile si sarebbero moltiplicate non solo le occasioni di mobilità sociale, ma con esse anche quelle per covare invidia, che col suo potere corrosivo mina la solidarietà tra individui e la coesione sociale.

 


Il canto, integrale

Canto XIII, dove si tratta del sopradetto girone secondo, e quivi si punisce la colpa della invidia; dove nomina madonna Sapìa, moglie di messer Viviano de’ Ghinibaldi da Siena, e molti altri.

Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala.

Ivi così una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l’arco suo più tosto piega.

Ombra non lì è né segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.

“Se qui per dimandar gente s’aspetta”,
ragionava il poeta, “io temo forse
che troppo avrà d’indugio nostra eletta”.

Poi fisamente al sole li occhi porse;
fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sé torse.

“O dolce lume a cui fidanza i’ entro
per lo novo cammin, tu ne conduci”,
dicea, “come condur si vuol quinc’entro.

Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci;
s’altra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci”.

Quanto di qua per un migliaio si conta,
tanto di là eravam noi già iti,
con poco tempo, per la voglia pronta;

e verso noi volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d’amor cortesi inviti.

La prima voce che passò volando
’Vinum non habent’altamente disse,
e dietro a noi l’andò reïterando.

E prima che del tutto non si udisse
per allungarsi, un’altra ’I’ sono Oreste’
passò gridando, e anco non s’affisse.

“Oh!”, diss’io, “padre, che voci son queste?”.
E com’io domandai, ecco la terza
dicendo: ’Amate da cui male aveste’.

E ’l buon maestro: “Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia, e però sono
tratte d’amor le corde de la ferza.

Lo fren vuol esser del contrario suono;
credo che l’udirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono.

Ma ficca li occhi per l’aere ben fiso,
e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascun è lungo la grotta assiso”.

Allora più che prima li occhi apersi;
guarda’ mi innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi.

E poi che fummo un poco più avanti,
udia gridar: ’Maria òra per noi’:
gridar ’Michele’ e ’Pietro’ e ’Tutti santi’.

Non credo che per terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel ch’i’ vidi poi;

ché, quando fui sì presso di lor giunto,
che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto.

Di vil ciliccio mi parean coperti,
e l’un sofferia l’altro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti.

Così li ciechi a cui la roba falla,
stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,
e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,

perché ’n altrui pietà tosto si pogna,
non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna.

E come a li orbi non approda il sole,
così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;

ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.

A me pareva, andando, fare oltraggio,
veggendo altrui, non essendo veduto:
per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio.

Ben sapev’ei che volea dir lo muto;
e però non attese mia dimanda,
ma disse: “Parla, e sie breve e arguto”.

Virgilio mi venìa da quella banda
de la cornice onde cader si puote,
perché da nulla sponda s’inghirlanda;

da l’altra parte m’eran le divote
ombre, che per l’orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.

Volsimi a loro e: “O gente sicura”,
incominciai, “di veder l’alto lume
che ’l disio vostro solo ha in sua cura,

se tosto grazia resolva le schiume
di vostra coscïenza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume,

ditemi, ché mi fia grazioso e caro,
s’anima è qui tra voi che sia latina;
e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo”.

“O frate mio, ciascuna è cittadina
d’una vera città; ma tu vuo’ dire
che vivesse in Italia peregrina”.

Questo mi parve per risposta udire
più innanzi alquanto che là dov’io stava,
ond’io mi feci ancor più là sentire.

Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava
in vista; e se volesse alcun dir ’Come?’,
lo mento a guisa d’orbo in sù levava.

“Spirto”, diss’io, “che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome”.

“Io fui sanese”, rispuose, “e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.

Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.

E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni.

Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.

Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,

tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ’l merlo per poca bonaccia.

Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,

se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.

Ma tu chi se’, che nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
sì com’io credo, e spirando ragioni?”.

“Li occhi”, diss’io, “mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l’offesa
fatta per esser con invidia vòlti.

Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia del tormento di sotto,
che già lo ’ncarco di là giù mi pesa”.

Ed ella a me: “Chi t’ ha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?”.
E io: “Costui ch’è meco e non fa motto.

E vivo sono; e però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova
di là per te ancor li mortai piedi”.

“Oh, questa è a udir sì cosa nuova”,
rispuose, “che gran segno è che Dio t’ami;
però col priego tuo talor mi giova.

E cheggioti, per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.

Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana
;

ma più vi perderanno li ammiragli”.


A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


carla fronteddu (1984) insegna studi di genere a Syracuse University e CEA. Per non andare fuori tema, si occupa insieme a un eterogeneo gruppo di attiviste di Fiesolana2b, l’associazione che ha raccolto l’eredità della Libreria delle Donne di Firenze, per continuare a offrire uno spazio di elaborazione femminista e autodeterminazione in città.

 

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