Che cos’è il design e qual è la sua direzione? Una breve storia del design, di Dario Russo.
(Questo testo è un adattamento tratto da un articolo precedentemente uscito su Aisthesis (Anno VII n.1), sotto licenza Creative Commons Attribution 4.0).
di Dario Russo
Che cos’è il design? «Arte e tecnica: una nuova unità», affermava Walter Gropius nel 1924, preconizzando – con una formula che avrà grande eco – una lunga stagione produttiva, estetica e insieme funzionale. Nell’accezione di disegno industriale, storicamente, il design consiste nella progettazione di prodotti industriali, vale a dire seriali; e ciò lascerebbe intendere una certa distanza dall’arte. Eppure, la locuzione che alla nascita lo definisce è “arte applicata”, come si diceva nell’Ottocento.
I primi (designer) grafici erano detti “artisti commerciali” non senza disprezzo, cioè artisti di serie B, “impuri”, perché, oltre a dipingere quadri, si dedicavano alla progettazione di manifesti commerciali
I primi designer erano artisti, “intellettuali tecnici”, col compito di mettere in forma le cose, non direttamente, con le proprie mani, ma indirettamente, per mezzo di sistemi meccanici. I primi (designer) grafici erano detti “artisti commerciali” non senza disprezzo, cioè artisti di serie B, “impuri”, perché, oltre a dipingere quadri, si dedicavano alla progettazione di manifesti commerciali; e l’arte del manifesto, per quanto simile alla pittura, ha un’applicazione fin troppo utilitaria, “imperdonabilmente” commerciale. Henri de Toulouse-Lautrec, per esempio, uno dei più importanti pittori (d’affiche) di fine Ottocento, era considerato un artista quanto meno stravagante. «Per mille diavoli, questo Lautrec è uno svergognato: non fa complimenti né con i disegni né con i colori», scrive, indignato, Felix Fénéon ([1999]: 67). Tuttavia, la differenza tra i designer di prodotto e i designer affichistes è che questi disegnavano direttamente sulla matrice di stampa, una lastra di pietra (cromolitografia), mentre quelli mettevano il proprio talento in un progetto (design), ovvero in un disegno tecnico pensato per la produzione seriale. Evidentemente, l’arte (applicata) sta tutta qui: nel progetto piuttosto che nel prodotto, la cui moltiplicazione riduce esponenzialmente il costo di produzione unitario ma non il valore del progetto, che possiede una «maggiore o minore – ma comunque sempre presente – “esteticità”» (Dorfles [1972]: 10).
Secondo la definizione adottata nel 1961 dall’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design), il compito del disegno industriale consiste nel «progettare la forma del prodotto» cioè, come precisa Tomás Maldonado ([1976]: 10-11), nel «coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto. E, più precisamente, si allude tanto ai fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costitutivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi)». Il design, dunque, viene a svolgere un ruolo fondamentale a livello progettuale, produttivo, sociale e culturale.
Ispirata ai principi del Bauhaus, negli anni trenta, in un’Italia ancora prevalentemente agricola, l’azienda di macchine da scrivere Olivetti raggiunge un elevatissimo livello progettuale in termini di prodotto e comunicazione.
In questa prospettiva, già nei laboratori del Bauhaus (1919-1933) si progettano prodotti funzionali ed economici (democratici) in grande serie, il cui processo industriale rende possibile, molto concretamente, la “moltiplicazione della bellezza”. Tutto ciò, infatti, si risolve nell’“estetica meccanica” teorizzata da Theo Van Doesburg, uno spazio integrato di oggetti utili le cui forme corrispondono alla coincidenza di Astrattismo geometrico e reale capacità produttiva dell’industria. Ispirata ai principi del Bauhaus, negli anni trenta, in un’Italia ancora prevalentemente agricola, l’azienda di macchine da scrivere Olivetti raggiunge un elevatissimo livello progettuale in termini di prodotto e comunicazione. Lo sviluppo economico che ne consegue è considerato da Adriano, a capo dell’azienda dal 1932, una fondamentale e strategica occasione d’innalzamento sociale e culturale a beneficio dell’intero Paese in termini di modernizzazione. I primi beneficiari, non a caso, sono gli impiegati Olivetti, per i quali vengono costruiti edifici all’avanguardia, moderni e confortevoli, con servizi di tutto rispetto, come l’asilo nido e le residenze di Ivrea, progettate dagli architetti Figini e Pollini, e la raffinata fabbrica di Pozzuoli (1959), disegnata da Luigi Cosenza, con giardini e fontane. Negli anni cinquanta, ancora in Germania, prende campo un’altra straordinaria operazione didattica: la Hochschule für Gestaltung, più nota come “scuola di Ulm” (1954-1968). L’idea è riprendere i principi funzional-democratici del Bauhaus, ormai mitico, per aggiornarli criticamente. Così, per esempio, s’introducono materie come Cibernetica, Semiotica, Teoria dell’informazione… allora molto innovative, anzi sperimentali; mentre si cerca di progettare prodotti – o sistemi di prodotti – “definitivi”, vale a dire stabili nel senso di interamente soddisfacenti sotto tutti i punti di vista, sia quello tecnico-funzionale sia quello estetico-culturale, senza mai cadere in soluzioni modaiole e configurazioni “disoneste” che mirano ad attrarre visivamente. Da qui, l’opposizione di Max Bill, primo direttore della scuola, nei confronti del design americano (Styling) che privilegia la funzione simbolica rispetto a quella pratica, equiparato a “cosmesi” del prodotto; e, soprattutto, la critica a un sistema di produzione capitalistico alimentato da prodotti a obsolescenza programmata, culturale prima ancora che fisica: prodotti modaioli che stimolano l’acquisto e facilmente sostituibili con nuovi prodotti, altrettanto modaioli.
«Non è possibile convertire la massa. Di conseguenza è tanto più pressante il nostro dovere di rendere felici quei pochi che si rivolgono a noi»
D’altra parte, tuttavia, fin dalla sua prima apparizione come “arte applicata”, il design rasenta spesso l’oggetto d’arte. Se nel Bauhaus si elabora l’identificazione democratica di arte e tecnica, la qualità che comunemente si accorda all’oggetto d’uso, oltre al piacere dell’utilizzo, conserva un carattere elitario. Dopo l’exploit inglese dell’Arts & Crafts e l’emergere, in Europa e in America, delle forme avvolgenti, zigzaganti o strutturate geometricamente dell’Art nouveau, si svolge a Vienna un’avvincente avventura progettuale: sulla scorta della Secessione viennese – un gruppo di artisti e progettisti che si raccoglie intorno alla figura carismatica di Gustav Klimt contro lo sterile Accademismo dell’arte austriaca – vengono fondate le officine viennesi (Wiener Werkstätte) per la produzione di oggetti d’uso “artistici”, i cui mezzi di produzione meccanica, mescolati a un’attenta lavorazione artigianale, sono calibrati per raggiungere il massimo livello estetico. Nel 1901 Josef Hoffmann (cit. in Fanelli, Godoli [1981]: 38), fondatore delle officine e progettista di punta del gruppo, affermava chiaramente: «Non è possibile convertire la massa. Di conseguenza è tanto più pressante il nostro dovere di rendere felici quei pochi che si rivolgono a noi». In questo senso, Renato De Fusco ([1995]: 77) parla di “artidesign” riferendosi a prodotti di lunga tradizione artigianale, come i mobili, che precedono la Rivoluzione industriale (1750-) e non nascono da procedimenti tecnici innovativi (industriali): un mix di «arte [applicata], artigianato e […] design sui generis». Il dato interessante, comunque, è che l’“artidesign”, ben lungi dall’essere obsoleto, si è addirittura generalizzato. Non soltanto è più aderente ai tempi dello “storico” industrial design, perché si presta più agilmente alle esigenze commerciali della piccola e media industria; ma, «rispetto all’arte, […] si configura come quella pratica che meglio ne traduce in oggetti l’immagine, la fantasia, lo sperimentalismo, il piacere estetico» (De Fusco [2012]: 131). Nella storia del design, del resto, il fenomeno dell’“artidesign” – o una cosa del genere – è sempre esistito: dalle Arts & Crafts e le Wiener Werkstätte, cui s’è fatto cenno, al gruppo Alchimia, fondato da Alessandro Guerriero nel 1976 per realizzare un «un nuovo “circolo creativo” tra arte e design» (Pasca [2001]: 107), ben rappresentato dalla arcinota Poltrona di Proust (Alessandro Mendini 1978, Cappellini 1993), un mobile “letterario” dal sapore puntinista à la Signac; fino al collettivo Droog Design, che realizza “opere d’uso”, se così si può dire, a metà strada tra il prodotto industriale e l’istallazione artistica.
In particolare, oggi furoreggia la Designart, una tendenza che compare occasionalmente negli anni ottanta e si radicalizza in un secondo tempo. Qui, la confusione tra arte e design è totale, con conseguente innalzamento del prezzo di prodotti “trasfigurati esteticamente”, quasi fossero ready-made.
Che si tratti di progetto per l’industria pensato per la grande serie, per migliorare la vita della gente secondo il modello storico bauhausiano, oppure di “artidesign”, elitario, col suo carico simbolico che sollecita concettualmente, oggi il termine “design” viene spesso associato a oggetti eccentrici quanto irrazionali, visivamente impattanti per forma e colore, spiazzanti, anche per le cifre “auratiche” che contrassegnano le loro etichette commerciali… A volte si tratta di mobili, solo apparentemente funzionali, perché valgono principalmente come opere da contemplare, investimenti economici, che dell’arte odierna conservano due caratteristiche strategiche: il sensazionalismo e il prezzo astronomico. Anche per questo, al design si accorda spesso una connotazione squisitamente estetica, che tiene conto non tanto di quei fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto, quanto a quelli relativi alla sua produzione di cui parla Maldonado, ma vale come forma in sé, anzi come forma “straordinaria” di oggetti “magnificati”, fatti di bellezza e stravaganza estrema. Il design, insomma, spesso e volentieri, tende a diventare «una parola d’ordine, soprattutto nel marketing e nei media, che sembra assumere valore positivo in sé, trasformando, come per magia, prodotti ordinari in esclusivi oggetti alla moda» (Fallan [2010]: X, trad. mia).
«Spesso mi viene chiesto se i mobili sono arte. I mobili sono mobili.»
In particolare, oggi furoreggia la Designart, una tendenza che compare occasionalmente negli anni ottanta e si radicalizza in un secondo tempo. Qui, la confusione tra arte e design è totale, con conseguente innalzamento del prezzo di prodotti “trasfigurati esteticamente”, quasi fossero ready-made. Nel 1993, Donald Judd, esponente di spicco della Minimal Art americana, scriveva: «Spesso mi viene chiesto se i mobili sono arte. I mobili sono mobili […]. Cerchiamo di mantenere i mobili fuori dalle gallerie d’arte per evitare questa confusione, che è lontana dal mio modo di pensare. E anche per evitare la conseguente inflazione del prezzo» (Judd [1993]: 21, trad. mia). Ebbene, come nota Elena Agudio nel suo saggio dedicato alla Designart, la “confusione” che Judd aveva programmaticamente tentato di evitare sembra caratterizzare la situazione odierna, tra una pletora di oggetti «borderline, intimamente ambigui, qui definiti come “bastardi”, […] “incestuosi”, opere di artisti o designer che si sono spinti oltre i propri confini disciplinari, difficilmente classificabili secondo un’epistemologia schematica, sono stati creati per tradire le regole del gioco e infiltrarsi in contesti a loro non propri: con l’efficacia dei virus essi sono infatti stati in grado di stordire il pubblico e confondere i critici inesperti, eccitare il mercato e il collezionismo, alterare l’ordine “delle cose”» (Agudio [2013]: 7-8). Tra oggetti – limited edition – da contemplazione (?) e opere funzionanti, quello della Designart è un ambito piuttosto eterogeneo, dove confluiscono sia artefatti che alludono a una funzione pratica (che però esiste solo in potenza) sia oggetti d’uso che, considerati opere all’interno del circuito dell’arte (artista-critico-gallerista-pubblico), diventano oggetti puramente estetizzati; e la cosa riguarda anche un certo design storicizzato, che assume un carattere auratico passando per il modernariato.
Il paradosso si consuma quando la sua ormai mitica teiera degli anni venti che ci viene consegnata dalla storia, è considerata un’opera – come se fosse una scultura – e battuta dalla sala d’asta Sotheby’s per 361.000 dollari, diventando così l’esatto contrario di sé e del valore (culturale) che incorpora; in breve, si riduce a un oggetto “lussuoso” per pochi.
Dal punto di vista dell’arte, Agudio individua tre artisti emblematici: Tobias Rehberger, i cui oggetti sono “bastardi” tra funzionalità e contemplazione, come i suoi “mobili” «modificati secondo una strategia di trasformazione e di mutazione dimensionale» (Agudio [2013]: 82); Jorge Pardo, autore di “oggetti ansiosi”, per il quale «l’arte potrebbe emergere dal suo uso»; e Liam Gillick, che traduce il design modernista in “progetti architettonici viventi” dando luogo a forme geometriche (minimaliste) rimarcate da superfici lucide e colorate. Dal punto di vista del design – ma qui distinguere le cose è davvero arduo – un buon esempio è l’opera di Marc Newson, designer australiano ma anche artista. Nel 2009 Christie’s batte all’asta per 105.000 dollari la sua famosa chaise longue Lockheed dal sapore organico-fantascientifico, rivestita da lamine in alluminio che ne fluidificano la forma rendendola simile a un’enorme goccia di mercurio riflettente (1984). Ma si tratta di una chaise longue oppure di una scultura? Si può dire “è un Newson” come se si dicesse “è un Picasso”? Del resto, anche i prodotti che si trovano nei negozi “di design” possono costare alcune migliaia (o decine di migliaia) di euro. Lo sgabello Mezzadro, per esempio, una sorta di assemblage costituito da parti già esistenti e funzionali come il sedile di un trattore (da cui il nome), costa “appena” poche centinaia di euro ed è considerato un’opera neo-dadaista (Achille e Pier Giacomo Castiglioni, 1957, Zanotta 1971). Evidentemente, come ogni oggetto “di design”, possiede un certo, intrinseco quoziente estetico, ma i suoi progettisti non intendono rendere artistico un oggetto d’uso (con conseguente innalzamento del prezzo di vendita); vogliono, anzi, rendere lo sgabello molto funzionale – cosa c’è di più comodo del sedile di un trattore? – riducendone il costo per mezzo del processo di produzione seriale. Ma il caso più eclatante è quello del design storicizzato, soprattutto se ci si riferisce ai prodotti messi a punto negli anni venti nell’ambito del Movimento moderno, la cui lavorazione industriale era programmaticamente progettata per abbattere il costo di produzione, anche utilizzando materiali non aderenti al gusto del pubblico come i metalli. Certo, non meraviglia che i bellissimi arredi di Charlotte Perriand siano oggi particolarmente ricercati dai collezionisti e messi in mostra alla Gallerie Downtown di Parigi con prezzi stratosferici, come il tavolo Brèsil (1959) venduto a 1.500.000 euro (cfr. Aramburu-Hamel [2013]: 53). Ma è senz’altro sorprendente la “fine” che hanno fatto certi oggetti di Marianne Brandt, progettati per raggiungere il massimo rapporto tra qualità (estetica) e prezzo (minimo): oggetti democratici, insomma, dove l’Astrattismo geometrico incontra la produzione industriale. Ciononostante – o forse proprio per questo – gli oggetti della Brandt sono oggi riprodotti e venduti a un prezzo non più “democratico” (limited edition), perché, dopo decenni, hanno assunto un valore storico che si traduce nel prezzo maggiorato (Alessi). Ma il paradosso si consuma quando la sua ormai mitica teiera degli anni venti che ci viene consegnata dalla storia, è considerata un’opera – come se fosse una scultura – e battuta dalla sala d’asta Sotheby’s per 361.000 dollari, diventando così l’esatto contrario di sé e del valore (culturale) che incorpora; in breve, si riduce a un oggetto “lussuoso” per pochi. Sicuramente Brandt non sarebbe d’accordo.
Il design dei nostri tempi, insomma, presenta caratteri contraddittori rispetto ai suoi presupposti storici (democratici). Si può infatti notare come le tendenze più rilevanti degli ultimi trent’anni (Postmodernismo, Minimalismo, Transitive Design…), spesso e volentieri, si risolvano in puro gioco formale a scapito di ciò che l’oggetto è ontologicamente: qualcosa che si usa. Tra queste, spicca la Designart, un’etichetta applicabile a oggetti destinati non (più) all’uso ma alla contemplazione: arredi travestiti da opere d’arte oppure opere “travestite” da elementi di arredo, che “simulano” una qualche destinazione d’uso. Ecco «il lato oscuro del design: un oggetto-d’uso-che-non-si-usa, ovvero una forma d’arte molto costosa travestita da design» (Russo [2012]: 184). Ed ecco, dunque, il paradosso del design odierno o di ciò che viene comunemente considerato tale: non si tratta quasi mai di un oggetto pratico e funzionale (o comunque non soltanto di questo) né tanto meno economico, ma di un oggetto esteticamente pregno, (auto)rappresentativo ed elitario, un oggetto “immaginifico”, ad alto tasso simbolico, sexy, che piace non soltanto perché è bello ma anche perché è interessante (come un’opera); oggetto del desiderio, feticcio, oggetto dandy, praticamente inutile ma irresistibile… quando il design mostra il suo lato oscuro (cfr. Russo [2013]).
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