OnlyFans e il rapporto tra stigma e sex work

Spesso quando le donne provano a vivere più alla luce del sole la propria sessualità si abbatte su di loro uno stigma morale ingiustificato. Questa dinamica raggiunge il suo culmine nel sex work, eppure che questo lavoro “marchi a vita” chi lo svolge non è un rischio intrinseco alla professione, ma deriva esclusivamente dalla mentalità vigente.


in copertina: Prostitutes Around a Dinner Table – Henri de Toulouse -Lautrec

di Alessia Dulbecco

Fino a non molto tempo fa, “Shinratensei98” era il nome di uno dei tanti account social presenti in rete. La coppia che si cela dietro al nickname, Teo e Noemi, ha aperto un profilo su OnlyFans durante il primo lockdown quando, a causa delle chiusure imposte dal governo si sono ritrovati senza lavoro. Dopo aver studiato il social network, i due hanno cominciato a produrre video per adulti, scaricabili dagli utenti in cambio della sottoscrizione di un abbonamento e, nel giro di pochi mesi, sono diventi seguitissimi cominciando a guadagnare cifre importanti.

Da quando la loro storia è diventata nota (la coppia è finita anche in un’inchiesta a fumetti su La revue dessinée Italia), giornali e tv hanno cominciato a parlare del sito, dei soldi facili che sembra garantire, e, ovviamente, degli effetti che la diffusione così capillare e immediata di contenuti pornografici può generare, soprattutto tra i più giovani. Già, perché anche se OF è un sito su cui si possono condividere e acquistare video di vario tipo (dalle lezioni di cucina alle sessioni di fitness), è indubbio che la sua notorietà sia strettamente legata ai contenuti per adulti. A differenza di altri social molto più restrittivi, su Onlyfans è possibile fruire, dietro pagamento, di immagini senza alcun tipo di censura. In base ai gusti, quindi, è possibile trovare profili “specializzati” in lingerie, BDSM, rapporti sessuali penetrativi e molto altro.

L’iniziale interesse nei confronti della piattaforma si è concentrato intorno alla questione economica. Molte notizie riportavano il fatturato di Teo e Noemi, altre raccontavano, con un piglio quasi didattico, storie di persone riuscite abbandonare lavori umili, resi ancor più precari dalla pandemia, accumulando in pochissimo tempo patrimoni invidiabili. L’illusione dei soldi facili può aver contribuito alla crescita esponenziale del sito che, si legge su molte riviste, ha visto triplicare il numero di iscritti – hanno superato i 188milioni – e di conseguenza gli introiti dell’azienda, stimati intorno al miliardo di dollari.

Nonostante l’attuale Ceo, Amrapali Gan, insista sulla necessità di trovare nuove strategie per differenziarne i contenuti, oggi troppo simili a quelli dei siti vietati ai minori, basta una rapida ricerca in rete per capire che i profili che sembrano ottenere più successo siano quelli di giovani procaci ragazze che vendono la propria immagine. Questo dato non è da trascurare e può aver contributo, a mio parere, a cambiare nell’arco degli ultimi mesi le opinioni che girano intorno alla piattaforma. Aprire un account e diventare content creator oggi non viene più visto come un modello di business efficace: molti articoli si concentrano sulla precarietà di questo tipo di occupazione, mettendo in guardia i suoi avventori dai rischi che sembrano superare i benefici auspicati.

Come dicevamo, sono le donne quelle che sembrano aver beneficiato maggiormente di questa opportunità offerta dai social, avviando una vera e propria strategia imprenditoriale. Il fatto che OF ponga quindi al centro loro, i soldi apparentemente immediati che possono ottenere e il sesso è forse uno dei motivi che potrebbe aver portato giornali e riviste a cambiare il tono del racconto, rendendolo via via più moraleggiante: se è vero che, in un periodo come quello del Covid, ha permesso a molte persone di restare a galla, oggi la scelta di lavorare come produttori di contenuti erotici viene descritta come “troppo avventata”. Lo sostengono in primis i profili più cliccati: quando parlano della loro storia, i già citati Teo e Noemi, sottolineano di essersi ritrovati a fare sex work perché privi di alternative a causa della pandemia, ma a chi vorrebbe intraprendere la loro strada, ammaliato da una prospettiva di vita facile, dicono di «pensarci bene, soprattutto prima di lasciare il posto fisso». In realtà, ad oggi il rischio più realistico non sembra tanto quello di lasciare la sicurezza di un impiego – dato che molti impieghi sono precari, soprattutto per le donne – quanto di perderlo non appena si diffonde la voce della propria presenza online. È ciò che è accaduto a Benedetta D’Anna e Manuela Bassani, rispettivamente impiegata di banca e cameriera in pizzeria, che hanno perso il lavoro perché i titolari hanno ritenuto che la loro attività online, svolta nel tempo libero, fosse lesiva dell’immagine delle imprese in cui prestavano servizio. Qualcosa di analogo è capitato Ilaria Rimoldi, a cui Gardaland non ha rinnovato il contratto quando il suo volto ha iniziato a essere riconosciuto per via della sua presenza su OF.

Che il sex work sia ammantato da uno stigma duro a morire non è una novità. Secondo lo studioso Pietro Adamo l’avvento del porno di massa negli anni Settanta, parallelamente alla liberazione sessuale, ha contribuito ad aumentarlo anziché diminuirlo. La “pornificazione”, con cui si definisce quel processo che ha progressivamente consentito al porno di colonizzare i media trasferendovi le sue prassi e gli apparati semiotici di cui si nutre, ha portato da una parte un nuovo interesse nei confronti della tematica e dall’altra alla produzione di teorie che, affondando nei movimenti antiporno, tentano di sottolinearne l’intrinseca pericolosità per le donne e l’educazione sessuale degli adolescenti. Insomma, se il movimento “women against pornography” (capitanato dalle femministe Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon) nasceva in seno alla rivoluzione sessuale, le attuali polemiche nei confronti dello stesso oggetto si agganciano alla rivoluzione digitale in atto. La rete, i siti e addirittura gli account su piattaforme dai contenuti apparentemente diversificati consentono a questo tipo di materiale una diffusione capillare e pervasiva, tanto che gli utenti non devono più neppure cercarlo. Secondo alcuni, la presenza costante di questi contenuti unitamente a una narrazione giudicata superficiale che lo descrive come “un lavoro come un altro”, aprirebbe a scenari apocalittici che porterebbero le persone a sacrificare la propria integrità fisica e morale seguendo l’illusione di una vita facile e appagante.

Proprio recentemente il quotidiano Domani ha pubblicato un articolo in cui sottolinea gli effetti sul lungo periodo provocati dalla scelta di lavorare come content creator su Onlyfans. Secondo il suo autore, fino ad oggi ci si è concentrati solo sugli aspetti più interessanti (cioè i guadagni facili) ignorando volutamente l’altro lato della medaglia. In linea con le conclusioni a cui è giunta Ariana Safaee, ricercatrice all’Università di San Diego che nella sua tesi di dottorato ha indagato la piattaforma e il prezzo pagato da chi la usa per arricchirsi (o quantomeno provarci), il giornalista sostiene che non sia possibile improvvisarsi “imprenditori di se stessi” perché si tratta di un impiego troppo precario, senza tutele, che espone inoltre a rischi sul medio e lungo periodo come quello di compromettere per sempre il proprio futuro lavorativo. Se alcuni pericoli sono comuni un po’ a tutto il comparto della gig economy (dagli host di Airbnb ai tassisti dei Uber, passando per i rider di Deliveroo) altri sono tipici del lavoro sessuale. Nei confronti dei primi la sensibilità sociale, è cambiata nel corso del tempo, tanto da permettere a lavoratrici e lavoratori di costituirsi in organizzazioni e sindacati attraverso i quali far sentire i propri interessi; rispetto al sex work invece lo stigma persiste inalterato. Anche la content creator Peachmess, modella per SuicideGirls e presente su Onlyfans con un profilo seguitissimo in cui condivide contenuti softporn, sembra concordare sulla presenza di uno stigma che potrebbe ripercuotersi sulle sue scelte future. Insomma, se si diffondono contenuti erotici è bene chiedersi prima se sia questo il lavoro che si vuole fare davvero nella vita, altrimenti si rimane segnate per sempre.

Come dicevamo, che il sex work sia profondamente stigmatizzato è risaputo. È lecito però chiedersi perché pochi tra i giornalisti che stanno cercando di raccontare i rischi e i benefici del lavoro e i content creator stessi – dicano una parola per provare a decostruirlo.

In Italia non serve fare un lavoro sessuale per subire la pubblica gogna, è sufficiente essere donne e avere una vita sessuale. È quello che è accaduto ad esempio all’educatrice di Torino che, nel 2021, ha perso il lavoro perché le sue foto intime sono state condivise senza consenso dal suo ex arrivando fino alla sua dirigente, che ha pensato bene di giudicare lei e non mostrarsi solidale per il reato subito. Episodi di questo tipo sono molto più comuni di quanto si pensi, ma finiscono sui giornali solo quando assumono una certa gravità. Personalmente ho raccolto, attraverso i canali social, numerose testimonianze di colleghe a cui i datori di lavoro hanno imposto di cambiare colore di capelli, indossare abiti accollati, nascondere i tatuaggi per poter rimanere all’interno di servizi educativi. L’idea che chi svolge determinate professioni – penso a quelle di cura e al lavoro funebre, ma potrei continuare – debba avere una condotta moralmente ineccepibile è ancora sostenuta, più o meno implicitamente, da azioni di questo tipo. Se per molto tempo nessuna si è sentita nella posizione di scardinare questo assunto, oggi le cose stanno lentamente cambiando. Ma a che prezzo?

Il caso di Michelle Comi può aiutarci a rispondere a questa domanda. La donna lavorava nell’ufficio amministrativo all’Istituto per i tumori di Milano. Un impiego normale, a tempo indeterminato, con uno stipendio di circa 1400€ che molti coetanei non esiterebbero a definire di tutto rispetto. Comi racconta di aver sempre usato Instagram e di aver subito mobbing in più occasioni dalle colleghe che non vedevano di buon occhio la sua presenza online. Dopo averci pensato bene, ha deciso di licenziarsi e aprire OF. Intervistata, afferma di essere felice del suo nuovo lavoro che le permette di fare ciò che le piace con guadagni assolutamente non comparabili a quelli precedenti. Diversamente dalle testimonianze citate precedentemente, Comi si espone sottolineando che l’unico problema con cui si scontra ogni giorno non riguarda ciò che fa, ma gli insulti che riceve a causa di una società che ancora reputa immorale lavorare con il sesso. Decido di fare un salto sul suo profilo Instagram a leggere i commenti: il tono è totalmente diverso da quelli che appaiono sotto agli scatti di Peachmess o Shinratensei98. Se nel loro caso gli utenti ne sottolineano la bellezza, a tratti quasi angelica, sull’account di Comi si leggono spesso offese pesanti, le stesse che ci hanno insegnato ad associare a chi svolge sex work.

Quando le donne provano ad allontanarsi dai lavori mal retribuiti o demansionati, oppure quando provano a vivere più alla luce del sole la propria sessualità, si abbatte su di loro uno stigma morale che, poco per volta, si espande. “Vendere” la propria immagine, produrre contenuti più o meno espliciti, mostrarsi pubblicamente non sono solo azioni considerate moralmente dubbie ma, in definitiva, vengono descritte come meno convenienti di quanto possano sembrare a uno sguardo superficiale.

Uno degli argomenti che sta circolando ultimamente nel tentativo di mettere in guardia le nuove generazioni da questo tipo di impiego ha a che fare con il “lavoro emozionale”. Si tratta di un concetto sviluppato dalla sociologa Arlie Russel Hochschild negli anni ottanta con cui descrive quella condizione che porta le donne a sopprimere i sentimenti spiacevoli provati nell’esercizio del proprio impiego per mostrarsi sempre accoglienti e pazienti, così da garantire un certo senso di sicurezza nelle persone di cui si prendono cura. Chi cerca di dissuadere le giovani generazioni da diventare content creator per adulti sottolinea come questo tipo di lavoro possa essere molto spiacevole: per costruirsi il pubblico è necessario passare molte ore online, ovviamente non retribuite, e “flirtare” con tutti, anche con gli utenti più sgradevoli. Posto il fatto che qualsiasi content creator è nella condizione di bannare i fruitori scorretti o violenti, tutti i lavori presentano mansioni sgradevoli, spesso pagate pochissimo. Ancora una volta, sembra che a fare notizia siano solo quelle azioni che hanno in qualche modo a che fare col sesso.

Offrire una lettura più complessa e sfaccettata di OF e di tutte le piattaforme su cui lavoratrici e lavoratori della gig economy stanno cercando di spostare i propri impieghi è importante, tuttavia è fondamentale riflettere sul rapporto tra stigma e sex work, per evitare di fornire opinioni frutto della morale. Come tutti i lavori, anche quello sessuale presenta dei rischi e può essere precario. Analogamente a altre professioni, penso a quella di necroforo, medico o infermiere, non è un impiego adatto a tutti. Non lo è perché espone chi lo svolge a compiere esperienze (esattamente come accade all’operatrice funebre o all’anestesista) che per alcuni potrebbero essere disturbanti. Il fatto che il lavoro sessuale marchi a vita chi lo svolge non è un rischio intrinseco alla professione, ma deriva esclusivamente dalla mentalità vigente, che crea un cortocircuito tra sesso e immoralità. Abbiamo il dovere di superare questa associazione mentale ricordando a tutti che “sex work is work” e che ogni persona che lavora senza danneggiare le altre merita rispetto, anche se quello che fa non ci piace.


Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counsellor, lavora e scrive sui temi della violenza intrafamiliare e sugli stereotipi di genere, realizzando interventi formativi su queste tematiche per enti, associazioni e cooperative. Ha collaborato con numerosi Centri Antiviolenza. Di recente ha pubblicato “Arcani Filosofici”, D editore.

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