Il film di Nolan palesa più gli incubi del regista che del protagonista: l’ansia della fisica quantistica ha tutte le caratteristiche per diventare generazionale.
in copertina e lungo il testo opere di Yoshiko Michitsuji
di Filippo Lubrano
I film di Nolan non sono semplici da seguire, sia per temi trattati che per il prodotto di intensità e velocità delle sue trattazioni – nella vecchia fisica classica, l’avremmo chiamata quantità di moto. Ma a mio parere sono anche gli unici che valga davvero la pena vedere nel XXI secolo.
Il suo ultimo su Oppenheimer è l’ultimo atto di una pièce composta da quattro movimenti (Inception, Interstellar, Tenet e Oppenheimer, appunto): una performance a ritroso nelle sue ossessioni, che rispetto a Tenet può usare la figura di un grande fisico – e di quasi tutti i e le grandi intellettuali che lo contornano – per scavare nella sua mente e percolare nuove paure da aggiungere al catalogo del suo pubblico più sensibile e consapevole. Con questo viaggio in compagnia del Prometeo americano si apre ufficialmente l’era della quant-ansia, o quanxiety, l’ansia generata dalla fisica quantistica, che si andrà a sommare e non certo a sostituire alla lunga lista di ansie cui la fragile società che stiamo costruendo è vulnerabile, dall’eco-anxiety in poi.
La quanxiety non può che avere le sue radici poietiche negli anni in cui Oppenheimer vive, banalmente perché sono quelli più floridi per la fisica quantistica (così come per molte arti che giustamente Nolan vi collega, dalla psicanalisi all’astrattismo), ma il suo sentimento evolve e cresce d’intensità durante tutto il secolo fino ai giorni nostri, col raffinarsi della ricerca teorica e sperimentale. Su Reddit e Quora compare così negli ultimi anni un numero crescente di thread di persone qualsiasi e studiosi e studiose che si sentono sopraffatti, allarmati dalla portata teorica ancor più che pragmatica delle scoperte fisiche e scientifiche. Questo malessere è ancora di nicchia, perché la fisica quantistica non è argomento di conversazione al bar e per accedervi si necessita di nozioni di base non accessibili a tutti. Ma così come Einstein finì per esclamare “Dio non gioca a dadi” quando comprese – e non accettò – le conseguenze dei suoi calcoli, allo stesso modo ora che sembra che comandino più i dadi che Dio è normale che aumenti il senso di spaesamento di fronte a rivelazioni fisico-quantistiche che gettano una nuova luce – e mille ombre – sulle regole di base del funzionamento della vita, del mondo e dell’universo. Il fenomeno si avvertì dapprima nella comunità scientifica strettamente intesa, ma va allargandosi in una maniera molto più entropica che la classica macchia di leopardo.
Il cinema è stato colpito solo ultimamente in maniera significativa dalla quanxiety, anche se non sa ancora come chiamarla. La fisica quantistica, e in particolare la teoria dei molti mondi, derivante dal lavoro del fisico Hugh Everett III di fine anni ’50, hanno avuto un impatto enorme a livello immaginifico sulla recente produzione cinematografica (nei blockbuster Marvel, ma anche in quel prodotto complesso e sorprendente che è Everything Everywhere All at Once), anche se spesso in maniera un po’ grottesca e sempre concentrandosi sulle versioni dei multiversi in cui noi siamo comunque sempre più o meno noi – e spesso dove possiamo saltare da un multiverso all’altro, evento al momento neppure immaginabile matematicamente.
Quello su cui i registi ancora non sono riusciti a trovare una sintesi pop soddisfacente invece è ciò che al multiverso è sotteso, ovvero la teoria delle stringhe, che asserisce che i blocchi di struttura fondamentali della natura non sono punti, ma stringhe, ovvero oggetti che hanno un’estensione, una lunghezza, e quella lunghezza stabilisce la scala minima con cui possiamo considerare il mondo. O ancora la teoria, che dalle stringhe parte, dei mondi-brana, la quale teorizza che l’Universo sia una 3-brana tridimensionale immersa in un iperspazio a undici (!) dimensioni. Ora, contando anche il tempo come dimensione, è legittimo chiedersi dove si celino le sette mancanti. Bene: essenzialmente arrotolate su se stesse, in uno spazio troppo piccolo da vedere per noi: così come quando guardiamo uno skyline da distante percepiamo solo altezza e lunghezza di un grattacielo, e non la sua profondità, così saremmo ciechi a una lunga serie di dimensioni “nascoste”.
Stringhe e brane, così come le dimensioni suppletive su cui gran parte della comunità scientifica dibatte, sono più sfuggenti ideologicamente e a livello immaginifico, e pertanto meno inclini a essere inquadrate in allegorie efficaci: difficile dunque che qualcuno si prenda la briga di portarle sul grande schermo, o altrove, per evangelizzare affascinando il pubblico generalista.
-->Oppenheimer ha invece tutte le caratteristiche per diventare la pietra portante su cui costruire un ponte verso un tipo di narrazione più comprensibile, capace di divulgare e di contaminare la società con la giusta ansia per questi concetti. E non dico per le sue conseguenze fisiche reali, quelle del nostro universo tra tanti – come ad esempio la minaccia dello scoppio di un ordigno atomico. No, intendo per abilitare una consapevolezza collettiva della portata delle scoperte fisico-scientifiche dell’ultimo secolo, che non sono state neanche lontanamente digerite dal lento metabolismo della nostra società. Nolan compie il suo rammendo fisico-teorico riempiendo deliberatamente di incubi di particelle la mente del protagonista, una mente complessa che brucia nel fumo delle sue sigarette ansie accumulate dai suoi studi e dalle sue ricerche, in un ambiente – quello accademico e della ricerca sperimentale – che procede spesso più per epifanie derivanti da sfide personali e tormenti di ego tracotanti che per la pura brama della ricerca, come vorrebbero invece convincerci alcune visioni primitiviste del settore.
In letteratura, la quanxiety è arrivata indubbiamente prima, ma a differenza dei metodi da ariete di Hollywood si è fatta strada in punta di penna. Dal capolavoro di fine ‘800 di padre Abbott, Flatlandia, che rimane il punto di partenza consigliato per qualsiasi avventura di esplorazione del mondo matematico, a oggi, mi sento di dire che il primo vero tentativo di allargare il raggio d’azione della fisica quantistica verso qualcosa di culturalmente più ampio è stato “Fisica Quantistica per poeti”, dato alle stampe nella sua versione originale forse non casualmente l’11 settembre del 2010. Il libro di Christopher T. Hill e del premio Nobel Leon M. Lederman nasce come divulgativo – anche se non sempre riesce a mantenere la promessa – per cantare rigorosamente la bellezza della materia e al contempo per esorcizzare la paura, istintiva, che proviene dalla natura stessa della sua controintuitività – dalla maniera in cui si frappone tra noi e la nostra naturale conoscenza del mondo tramite i nostri fallaci sensi. Apprezzatissimo anche dal pubblico generalista della pur ristretta nicchia dei lettori è stato poi “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”, del cileno Benjamin Labatut, lettura fondamentale e forse manifesto del primo anno della pandemia. Labatut segue in maniera sensuale seppur troppo romanzata le vite di alcuni fisici per arrivare infine alle conclusioni di Heisenberg – che non a caso ha un ruolo fondamentale anche nel film di Nolan – ovvero che il fine ultimo, e il senso di tutto, è proprio smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento e avventurarsi verso una forma di comprensione assolutamente nuova. Per quanto terrore possa questa, a tratti, ispirare.
In Italia, precursori della quanxiety possono considerarsi il Calvino delle “Cosmicomiche” e soprattutto di “Ti con Zero”, e ancor più il troppo in fretta dimenticato Del Giudice, che in “Atlante Occidentale” svela molto delle condizioni a contorno – non a caso, quelle che in fisica fanno tutta la differenza del mondo – dell’ambiente del CERN, svelando quali siano le storture che i fisici avvertono nella loro percezione del mondo quando vengono a contatto con la ricerca di verità che dal campo scientifico spesso sfociano in quello filosofico, se non mistico.
Ma veniamo ora a definire meglio il concetto che questo articolo serve a introdurre, la quanxiety, o ansia quantistica.
La quanxiety si dipana secondo più direttrici diverse, non mutualmente escludibili, e deriva da alcune scoperte in alcuni casi non ancora verificate – e forse mai davvero verificabili. Esistono quindi diversi generi di quanxiety, che possiamo però ai fini di questa trattazione considerare come afferenti a una categoria al momento unica.
La prima tipologia di quanxiety è figlia della sensazione di completa nudità, nullità e senso di perdizione che tutti almeno una volta nella vita hanno provato guardando la volta celeste, oppure, per via opposta e complementare, avvicinandosi alla lente di un microscopio molto potente. A questo spaesamento e ridimensionamento delle nostre umane e innumerevoli paure, o delle altrettanto umane e più rare gioie, la fisica quantistica aggiunge uno scoramento di diversi ordini di grandezza maggiore, in quanto procede razionalmente a scoprire la coperta sull’abisso di cose che non conosciamo, togliendoci ogni certezza granitica derivante dalla rassicurante fisica classica, dove le teorie erano verificabili, sperimentabili, dove bastava che una mela ci cadesse in testa per avere folgorazioni ed epifanie; mentre ora i limiti delle nostre percezioni sensoriali emergono in tutta la loro evidenza: la trama del mondo, quello “reale”, ci è totalmente preclusa, e la sua esperienza non può più essere la stessa. Ci muoviamo al suo interno (e ci staremo davvero muovendo? sarà davvero il suo interno?) guardinghi, come dopo il tradimento in una relazione, piccoli Neo alla ricerca di una falla nella matrice. La portata delle nostre emozioni, sia quelle di segno positivo che negativo, ci appare immediatamente ridicola, o meglio ancor più indifferente nel grande ordine delle cose.
Possiamo dunque, e così entriamo nella seconda categoria, percepire il nostro libero arbitrio come una velleità inconsistente. Che differenza fa se scelgo questa o quest’altra cosa, se intanto in ogni momento fuoriescono da me e da questo mondo infiniti universi paralleli in cui sto prendendo qualsiasi decisione, o qualsiasi posizione intermedia tra quelle decisioni? E questo succede per ogni istante, dall’alba dei tempi, e continuerà per sempre a succedere, fino al tramonto dei tempi, sempre che questo avvenga. I multiversi si emanano continuamente, ogni istante, e non solo in base alle nostre scelte come in uno Sliding Doors (altra pellicola basilare nella creazione del sostrato di quanxiety nel nostro inconscio collettivo) qualsiasi: ogni singolo istante, sia che stiamo decidendo qualcosa o no, si creano infinite copie di noi, infinite se ne sono create e infinite se ne creeranno. Il senso stesso di continuità con se stessi è un’illusione: siamo davvero una moltitudine, una moltitudine di possibilità, che si avverano tutte, ma di cui noi, che osserviamo dalla finestra della piccola brana del nostro universo, ne vediamo solo una.
Per cui, tornando a Nolan, non solo esiste una quantità infinita di mondi in cui Oppenheimer non ha lavorato al Manhattan Project, o in cui è diventato campione del mondo di baseball, ma ne esiste una quantità “ancora più infinita” (questo è un concetto assai astratto, ma vi basti pensare che l’insieme dei numeri pari è infinito, nonostante intuitivamente ci viene da ritenere che l’insieme dei numeri pari e dispari insieme, anch’essi infiniti, sia in qualche modo un infinito più grande) in cui Oppenheimer non è mai nato, il meteorite non ha mai sfiorato la terra, i dinosauri sono vivi e noi come specie non abbiamo mai visto la luce.
Tornando a noi: scegliere diventa quindi di fatto inutile, e questo può portare nel lungo periodo sia a un immobilismo nichilista che solo alla decisione di dimenticarsi deliberatamente delle implicazioni può far deviare, riportandoci a dedicarci con convinzione decrescente alle nostre misere esistenze – in questo senso, il più quanxious degli scrittori di oggi è probabilmente Houellebecq, sia per il primo movimento che per il secondo, eseguito con una svogliatezza che appiattisce tutto tranne la scrittura.
Come spiega inoltre Oppenheimer stesso nel film omonimo, ci scopriamo fatti essenzialmente di vuoto, o più precisamente riempiti di vuoto, materia vibrante, ma materia di dimensioni impercettibili, e vibrante di vibrazioni ancor più impercettibili. Cillian Murphy usa questa fascinazione per flirtare, ma se ci sediamo a riflettere sul tema della teoria delle stringhe, il risultato è ben più miserabile: siamo letteralmente vuoto a perdere. E il fatto di non aver trovato ancora uno straccio di prova convincente che collochi la nostra coscienza da qualsiasi parte, in qualsiasi materia (fisica, matematica, filosofia), sferra il definitivo colpo di grazia alle ambizioni della mente razionale.
E qui veniamo alla categoria seguente, che ci comprende tutti. Nessuno – nessuno – può davvero sostenere di poter comprendere la fisica quantistica. E questo per la postura con cui si palesa al mondo: si situa nel regno del non visibile e non percettibile, si muove a ordini di grandezza afferenti all’infinitamente piccolo o all’infinitamente grande, aggiunge livelli di particelle totalmente controintuitive, l’antimateria, il bosone di Higgs (o “particella di Dio”), in una serie continua di rilanci non richiesti, pezze che servono a cucire strappi di teorie costruite sulle teorie, tanto che c’è chi, nella comunità scientifica stessa, sostiene – insieme alla celebre fisica e divulgatrice tedesca Sabine Hossenfelder – che ci stiamo letteralmente perdendo nella matematica, e che per seguirla ci stiamo spingendo in vicoli ciechi che hanno perso qualsiasi relazione con la realtà. C’è chi di questa mancata comprensione non si cura, vero, e chi ha la saggia incoscienza o incosciente saggezza di fermarsi quindi un passo prima dell’abisso, del buco nero. Ma è difficile per una qualsiasi mente curiosa non avere voglia di affacciarsi – e la fisica insegna che il solo affacciarsi nel buco nero è un atto senza ritorno.
Infine – e dico “infine” ben consapevole che la lista delle quanxieties è lungi dall’essere esaustiva, e meriterà di essere compilata in maniera più approfondita con un esercizio di affinazione collettiva nei decenni a venire – la fisica quantistica suggerisce e non esclude affatto la tesi che potremmo vivere in una grande simulazione, una qualche forma di videogioco che forse una civiltà aliena più evoluta ha elaborato per intrattenersi, definendo delle leggi (gravità, elettromagnetismo, le nostre classi sociali) che ci sembrano coerenti, ma che in realtà sono totalmente arbitrarie. Questo spettro, evocato tra gli altri dal filosofo svedese Nick Bostrom, aggiunge l’ultimo macigno sul nostro petto già gravato da pesi in grado di schiantare il più resistente dei carapaci.
Tutto questo, nel caso in cui non sia ancora chiaro, va inscritto nel fatto che la fisica quantistica al momento è la spiegazione più funzionale del comportamento della materia. Ed è una spiegazione che, me ne rendo conto, può sembrare che non abbia alcun senso. Ecco: è proprio qui che si crea la frattura che porta alla quanxiety.
Se insomma, come dicono alla Marvel, da grandi poteri derivano grandi responsabilità, da grandi consapevolezze possono derivare ansie non sostenibili, che hanno tutte le caratteristiche per diventare generazionali, specie per una generazione che sembra galleggiare già con una certa fatica nel reale, e con tutta una serie di fragilità ereditate dal ricombinarsi di quelle a lei precedenti. Ma è probabilmente solo partendo da una generazione coscientemente ansiogena che possiamo sperare di rimettere questo mondo, tra i tanti-mondi possibili, nuovamente sui binari della salvezza.
Perché salvare è un gesto che vale sempre la pena compiere. Anche se fossimo dentro un videogioco.
La dinamica della fisica quantistica
fa capire cosa sia
un incantesimo,
affermando che é soltanto
il momento in cui
si rompe e svanisce,
a sancirne la sua avvenuta esistenza,
altrimenti inesistente…
Ciò che avviene
è ciò che é anche
già passato
e ciò che esiste
esiste due volte nello stesso momento
ma in due mondi separati
e differenti.
Forse viviamo più vite contemporaneamente senza esserne del tutto inconsapevoli.
Tutti quanti.