In occasione della pubblicazione presso Alegre de “La Strada di Wigan Pier”- inchiesta di George Orwell sui minatori britannici (nella nuova traduzione di Alberto Prunetti) Edoardo Rialti e Wu Ming 4 – che del volume ha scritto la prefazione – hanno dialogato sulle sfide poste da questo testo a molte questioni letterarie, sociali e politiche che stiamo affrontando in questi anni.
IN COPERTINA e nel testo, Nicole Eisenman, The Triumph of Poverty, 2009,
Edoardo Rialti: Partirei da questa citazione. Una volta Orwell, sentendo il bisogno di sintetizzare la propria vocazione artistica, la definì come una certa capacità a fronteggiare i fatti spiacevoli. Ed ecco un fatto messo a fuoco in questo libro: Viviamo in un mondo in cui nessuno è libero, in cui quasi nessuno è al sicuro, in cui è quasi impossibile essere onesti e rimanere vivi. E sempre all’interno di questo libro ci sono due citazioni, distanti nello spazio, che però mi sembrano esprimere a loro volta i poli del suo campo magnetico, i fatti spiacevoli da ammettere e cosa farne: raccontando la sua formazione di ragazzino della piccola borghesia coloniale in Birmania, Orwell, ripensando a quegli anni e anche alla sua giovinezza in Inghilterra in seguito, ammette: mi sembra di aver speso metà del tempo a denunciare il sistema capitalista e l’altra metà ad accanirmi contro l’insolenza degli autisti degli autobus – con questa costante capacità di riconoscere innanzitutto in sé la violenza, l’insofferenza, l’incomprensione verso gli altri. Eppure al tempo stesso constata che non ho addestrato me stesso a rimanere impassibile di fronte alle espressioni del volto umano. Mi sembra che questi in fondo siano gli elementi-se vuoi anche discreti e grigi- dell’orizzonte in cui si muove tutta la sua riflessione e la sua vocazione artistica, già in questo libro.
WuMing 4: A me pare che Orwell sia un autore che è riuscito – come riescono a fare i grandi scrittori – a coniugare l’autoanalisi, l’analisi di sé, l’analisi della propria umanità e l’analisi della società che lo circondava, del tempo che si è trovato a vivere. Un tempo breve, perché è morto relativamente giovane, però un tempo intenso, lo spazio di due guerre mondiali, dell’inizio della decolonizzazione, eccetera… Io credo che Orwell abbia avuto questa grandissima capacità di partire da sé senza esaurirsi nel sé, e tutte le volte che lo vai a leggere riscopri questo aspetto. Quando leggi la sua narrativa ti accorgi sempre che c’è qualcosa di indubbiamente personale. Lui è partito sempre e comunque da un’esperienza vissuta, che si trattasse appunto dell’imperialismo nelle colonie britanniche, della vita del nullatenente o del precario della cultura, diremmo oggi, della scelta del militante politico, delle “gloriose” convenzioni della società britannica durissime a morire… Ecco il suo scrivere va sempre assieme a tutto questo, ma al tempo stesso è capace di proiettarle fuori, di proiettarle appunto sulla grande storia, su quello che sta succedendo. Ci si va a ficcare dentro, è uno scrittore sul campo, perciò anche quando esci dalle opere narrative e riprendi i reportage o i saggi, o gli articoli, ti trovi davanti a uno che possiede un acume, uno spirito d’osservazione veramente rari. La strada di Wigan Pier da questo punto di vista è folgorante per tanti aspetti ma non è il solo. Certo, se guardiamo alle citazioni che hai fatto, c’è anche molta cupezza, c’è anche il senso di un’evasione impossibile, avrebbe detto Victor Serge, da una società sempre più disciplinata, sempre più massificata e da un potere sempre più autoritario. Però, nonostante spesso lo si dipinga come un pessimista disperato in realtà non lo era fatto. Credo che il suo umanesimo emerga in maniera assolutamente forte, la sua fiducia negli esseri umani è innegabile. Non c’è pagina in cui in realtà non riesca a trovare sempre questa capacità dell’umano di resistere e di ribellarsi alla costrizione.
ER: È tutto in quel quasi, quasi impossibile, è una sfumatura decisiva. Per questo è estremamente interessante come lui struttura i suoi testi, anche quelli di maggiore riflessione teorica. Persino questo è un libro che inizia con una lunghissima sezione in cui i cinque sensi sono progressivamente presi a ceffoni – il puzzo ti colpiva in faccia come uno schiaffo – per poi arrivare all’ammissione raramente esplicita ma sempre sottaciuta nel discorso comune che le classi inferiori puzzano, e solo dopo svariati capitoli nei quali egli si muove tra gli odori, colori, sapori, la postura fisica che sei costretto ad assumere e che cambia la tua percezione dello spazio del tempo (è molto diverso fare un lavoro che già di per sé ora dopo che ora distrugge le cosce e comunque doversi poi fare dei chilometri avanti e indietro per tornare a casa, non vuol dire essere un pendolare come gli altri, si tratta di uno spazio e un tempo diversi) solo dopo tutto questo c’è un lunghissimo affondo in cui egli racconta la propria prospettiva al riguardo. Anche questa metodologia di ingaggiare la realtà mi sembra significativa.
WM4: Come dicevo lui parte da sé, nel senso che è molto soggettivo all’inizio del suo racconto. All’inizio del libro parte dalle sensazioni, dai dati sensoriali, perché parla proprio degli invisibili ai sensi, descrive i fantasmi, i lavoratori che stanno sottoterra e che reggono la base della società, perché sono minatori di carbone e senza carbone la società industriale di allora non avrebbe funzionato: non potevi riscaldare le case, né fare andare le fabbriche, i treni, tutto quanto. Se i minatori sono la base invisibile della società industriale, Orwell quella base la impatta direttamente, te la sbatte in faccia dice: “Loro ci sono, hanno dei corpi, e non sono bellini, sono brutti sporchi e cattivi, perché è brutta la vita che fanno, perché è una vita difficile di stenti, di amarezza”. Da buon borghese, cresciuto in un certo ambiente, così well spoken, rimarca molto il fatto che il suo accento rende inconfondibile la sua appartenenza di classe, evidentissima a chiunque. Dice: io non potrò mai spacciarmi per uno di loro, non solo perché non ho i calli alle mani eccetera… ma proprio perché appena apro bocca quello è un biglietto da visita. Sappiamo che nella società britannica è sempre stato molto facile essere riconosciuti dalla dizione, dall’accento, ed è importante per lui rimarcare tutto questo, rimarcare il fatto che lui è cresciuto in una società in cui appunto queste persone erano manifestamente “altro”. Lui ci si cala dentro anche in maniera abbastanza spudorata, accettando su di sé tutto questo. Ad esempio dichiara giustamente la vergogna che prova e che spinge la gente di superficie a fare finta che costoro non esistano. I socialisti d’estrazione borghese ne parlano tanto di questa working class, ma è un altro paio di maniche invece trovarsi lì in mezzo, mettersi al loro livello, letteralmente, ed è quello che fa lui, ci va davvero in mezzo a loro e non per fare una gita nelle brutture altrui. Ci va perché quella cosa la vuole proprio raccontare e gli serve come punto di partenza per tutta la sua riflessione. Senza l’esperienza diretta, senza aver toccato con mano quelle condizioni di vita, tutto il suo discorso perderebbe di forza.
ER: Su questo torneremo e a tal proposito è molto bello l’inciso che egli fa tornando al periodo della Birmania, parlando anche in quel caso del suo corpo e del fatto che era abituato a farsi spogliare dai domestici birmani e apre quella che è veramente una parentesi, per me tuttavia decisiva, notando come avesse nei confronti dei domestici lo stesso atteggiamento che avrebbe avuto nei confronti di una donna. È un corto circuito nello spazio-tempo perché tale sensibilità – che lui ha già evidentemente sviluppato anche in quei confini estremi dell’Impero – gli consente di individuare alcuni temi fondamentali ancora oggi, cioè che razzismo e sessismo spesso sono semplicemente due facce della stessa medaglia.
WM4: Ricordo che a un certo punto, bel suo romanzo Giorni in Birmania, l’attendente del protagonista si accorge che lui si è invaghito di una donna perché si rade per la seconda volta nell’arco della giornata. Il servitore indigeno conosce talmente bene le abitudini del padrone proprio come una moglie, tanto che lo sgama subito come se avesse l’amante. È una scena fortissima. E vorrei ricordare anche un romanzo che non è tra i più citati e che però io trovo estremamente interessante – Fiorirà l’aspidistra -, perché lì davvero Orwell riesce a individuare, partendo sempre dall’esperienza diretta, la contraddizione vissuta da una certa intellettualità piccolo borghese tra le aspirazioni ideologiche molto forti e la tentazione invece di mettere su una broghesissima famiglia, tornare alla casetta, al focolare domestico eccetera… Il protagonista del romanzo è continuamente combattuto tra queste due pulsioni e non le risolve, è uno scrittore squattrinato, che da una parte vorrebbe vedersi come un libero amatore, socialista e idealista, e dall’altra da un momento all’altro potrebbe convolare alle giuste nozze con la fidanzata, trovarsi il posto fisso eccetera… Cent’anni fa Orwell rifletteva già su questi aspetti, che sembrano tipici di un’epoca successiva, ma che già allora attraversavano la sua classe sociale.
ER: Beh sulla questione della conservazione dobbiamo tornare, anzi parliamone subito: anche questo è un leitmotiv della sua scrittura, e pure in questo libro egli inizia raccontando il progressivo avvicinarsi fisico verso questo mondo plumbeo fosco, pieno di spazzatura eccetera, e poi improvvisamente c’è quello stacco limpido sul campo di neve coi corvi neri, un istante di contemplazione e riposo, persino di respiro. In 1984 la prima volta che il protagonista fa sesso con l’altra ragazza che come lui cova in maniera molto confusa però reale delle aspirazioni contestatrici, e c’è questa scena di sesso persino brutale ma che per loro è veramente come il recupero di una dimensione che è stata negata, Winston poi la connette al sogno di un praticello verde, una scenetta bucolica che rimanda vagamente a sua madre e in cui si ode semplicemente la parola Shakespeare. Secondo me questo è importante perché Orwell è stato spesso accusato – come se fosse una parola negativa o in contraddizione col suo essere uno scrittore impegnato e socialista- di essere un conservatore, innamorato della birra fredda, del pub, il cortiletto dietro casa eccetera… però secondo me c’è un quid molto importante, incarnato da questi piccoli punti di appiglio, che se vuoi sono di una concretezza e persino di un limite molto discreto – un campo il coperto dalla neve, fare l’amore e improvvisamente ripensare a un giardino e alla semplice parola Shakespeare – ma che permettono di capire secondo me che la parola “conservazione” è stata ingiustamente trasformata in una parola negativa nel dibattito, perché tutto dipende che cosa vuoi conservare.
-->WM4: Lì il riferimento è alla conservazione dell’umanità, della cultura, del bello… È ben difficile accusarlo di voler conservare queste cose come fosse un tratto negativo. In 1984 hai la ribellione dei corpi, fisica, più che l’amore direi l’eros vero e proprio che cerca di sottrarsi alla costrizione della disciplina, del lavoro, della vita controllata nella società totalitaria; e poi il riferimento alla letteratura, cioè a quello che non è utile, come non è utile il prato verde. Quindi tutto si tiene, ma quella dei due amanti di 1984 è una rivolta, è quel quasi, quella cosa che rimane irriducibile nell’essere umano, che nessun potere ce la fa davvero a sbriciolare. È vero, l’immagine che chiude quella storia è famosa: la faccia di un uomo spinta nel fango dallo stivale. Certo, ma questa è prima di tutto la morale del potere. La rivolta, anche se è stata repressa, c’è stata, quella scintilla di resistenza ha balenato, quindi può sempre tornare a farlo. Su quella si scommette, su quella si punta tutto.
ER: Sembra il verso di Alda Merini Bastava la letizia di un fiore a ricondurci alla ragione. Tra l’altro è proprio su questo che ne La Strada di Wigan Pier ci sono indicazioni impressionanti su alimentazione, mitologia del “decoro” e controllo della vita pubblica: A volte penso che il prezzo della libertà non sia tanto la perenne sorveglianza ma la perenne sporcizia, cioè la compromissione – il contagio verrebbe da dire. Oppure pensiamo a quando egli fa l’analisi di come vengono pianificate quelle nuovi abitazioni che certamente sono più pulite delle precedenti ma anche più lontane dai pub e per la popolazione working class, che usa il pub come se fosse una specie di club, si tratta di un tremendo colpo inferto alla vita sociale. È un grande risultato aver portato in case decenti gli abitanti dei tuguri ma è una disgrazia il fatto che, per l’indole di quest’epoca, sia stato necessario privarli delle ultime vestigia della loro libertà. Le persone se ne rendono conto e quando si lamentano delle nuove case stanno proprio razionalizzando questa sensazione: saranno anche migliori, queste nuove case, di quelle che hanno lasciato, ma sono fredde, spiacevoli, e insomma non sono “abitabili”.
WM4: C’è un aneddoto che mi ha colpito molto quando ho visitato la città di Matera e mi hanno raccontato di quando tra gli anni ‘50 e ‘60 vennero svuotati i Sassi. La popolazione che viveva lì ebbe a disposizione delle case nuove, in cui però gli architetti si erano posti esattamente questo problema, quello di gente abituata a vivere tutta assieme che veniva immediatamente atomizzata nella sua vita, chiusa dentro degli appartamenti separati, quindi costruirono dei caseggiati nuovi che però fossero rivolti verso l’interno, per cercare di conservare la socialità. Il tema che poneva Orwell era assolutamente importante e fa parte della critica che muove all’industrializzazione per come si è svolta, soprattutto la seconda rivoluzione industriale. Pensiamo anche al tema dell’alimentazione: rimani folgorato dal fatto che lui notava questo dettaglio, cioè che la working class britannica pian piano stava abbandonando i cibi nutrienti, quelli che le davano energia per lavorare, in favore di cibi più sfiziosi, zuccherini, eccitanti, performativi, quindi il cioccolato, il caffè, il tè, il gelato. Ti senti borghese nell’aver accesso a questi beni voluttuari, però poi ti marciscono i denti, il tono muscolare diminuisce. Oggi diremmo che la working class si strafoga di junk food, quindi magari ha il problema opposto, quello dell’obesità, delle malattie cardiovascolari eccetera… però è lo stesso problema e lo stesso tema, cioè la totale mancanza di un’educazione alimentare. La classe operaia viene allettata in qualche modo, così da credersi appunto più ricca di quello che è, perché in realtà non si sta affatto nutrendo bene, tutto il contrario. Ecco davvero una prefigurazione, perché questa cosa Orwell la scrive negli anni ‘30, e se pensi appunto a cosa è diventata oggi, mutatis mutandis, fa impressione. Io credo che la sua riflessione sulla ricaduta dell’industrializzazione sulla classe lavoratrice stia al centro di quel discorso che lui fa anche quando decide di fare l’avvocato del diavolo e assumere le critiche che vengono mosse al socialismo stesso, compiendo questo esercizio efficacissimo. Ad esempio fa notare che in effetti noi continuiamo ad associare l’idea di socialismo a quella di uno sviluppo tecnico industriale infinito come se fosse una cosa di per sé positiva, senza davvero chiederci qual è la ricaduta sulla classe lavoratrice. Se guardi i minatori del nord dell’Inghilterra, dice Orwell, i dubbi ti vengono, perché questi vivono come dei sorci, tutto il giorno sotto terra, e se a loro vado a dire che l’industrializzazione gli ha fatto bene mi ridono in faccia.
ER: Lì c’è tutto il problema che si innesca della comunicazione tra le classi. Pensiamo a quando egli parla delle ciminiere e ribadisce come ancora una volta ci muoviamo su due opposte parzialità, perché noi spesso critichiamo le ciminiere perché sono brutte, e Orwell si chiede “Ma chi ha detto che sono brutte”? Per un’immaginazione fosca, romantica, una ciminiera illuminata alle spalle dal sole scarlatto il tramonto può essere preso in uno spettacolo titanico. E Orwell spiega: È importante ricordarlo, perché c’è sempre la tentazione di pensare che l’industrializzazione sia innocua se è pulita e ordinata. E così arriviamo alla un altro nodo enorme che è quello della classe media, sui cui egli ha una definizione secondo me impressionante e potrebbe essere veramente affissa- non alla cattedrale di Wittenberg secondo la leggenda luterana- ma davanti a qualunque social media (che della classe media sono spesso una cartina di tornasole) ossia un atteggiamento di derisoria superiorità punteggiata da esplosioni di odio violento E’ impressionante perché Orwell prosegue e spiega Per sbarazzarvi delle distinzioni di classe dovete cominciare a comprendere come una classe appaia agli occhi dell’altra. È inutile dire che le classi medie sono snob e chiudere così la faccenda. Non si fa un passo avanti se non si capisce che lo snobismo è una forma di idealismo. Deriva dalla formazione giovanile, quando ai bambini di classe media si insegna quasi nello stesso momento a lavarsi il collo, a essere pronti a morire per la patria e a disprezzare le classi proletarie… e qui egli compie ancora una volta un doppio movimento, perchè da una parte riflette su come la sinistra intellettuale si è proposta nel mondo, ma dall’altra è come se dicesse che è inutile dire a qualcuno “Sei un fascista” perché a forza di dirglielo lui ti risponderà “Vabbè se è pensarla come la penso io, vuole essere fascisti allora vuol dire che sono fascista”… si tratta di individuare il grumo e il nodo al quale l’educazione dà delle risposte sbagliate anziché far finta che il problema non esista. È come se ci fosse questo binomio per cui la destra ha delle risposte sbagliate o forse persino più gravi dei problemi cui si rivolge e la classe intellettuale di sinistra fa finta che il problema non ci sia e basta.
WM4: Questo secondo me è il tema più grave che Orwell affronta ne La strada di Wigan Pier, e lo fa dritto per dritto, con una certa ammirevole nonchalance. È quello che definivo il tema della comunicazione, cioè come rapportarsi tra le classi sociali. Bisogna fare una premessa: Orwell era convinto che nei periodi di crisi ciclica del capitalismo, quando la piccola borghesia si impoverisce, si proletarizza diciamo così, e quindi non è più tanto succube del sogno d’arricchimento che invece l’ideologia borghese le propina, dovrebbe allearsi con la classe lavoratrice, col ceto immediatamente più basso, perché questo creerebbe davvero la forza per rivoluzionare la società, un’unione di classe perché – dice – io non lavoro come il minatore, cioè le mie condizioni di lavoro sono diverse, io non respiro quei fumi, non ho le mani spaccate, ok, però io, intellettuale precario della cultura, giornalista freelance, traduttore, scrittore non sono meno sfruttato; le mie condizioni sono diverse appunto, non posso identificarmi con gli operai, ma dovrei potermi alleare a loro, dovrei potermi sentire dalla stessa parte. Ed ecco che l’educazione ci si mette di mezzo, come giustamente facevi notare. Ci insegnano fin da bambini che loro sono altro, sono come una razza a parte, i paria della società, quindi d’istinto mi devo rapportare a loro in maniera snob, con un senso di superiorità. Da un lato dunque c’è questo problema, che però è accompagnato – e qui sta il suo acume – da una sorta di discorso uguale e contrario, cioè dalla retorica socialista, che in realtà asseconda questa divisione, perché esalta le mani callose dell’operaio facendone una specie di santino proletario e denigra quelli che sono in fondo “dei privilegiati che si lamentano”. Anche questo impedisce la solidarietà di classe. Questo discorso, dice Orwell, tutt’al più mi suscita senso di colpa, e non me ne faccio niente, ma alla peggio può spingermi sulla difensiva e trasformarsi in rancore, senso di alterità ancora più acuto, e quindi invece di stare dalla loro parte va a finire che sto dalla mia. Qui c’è una formulazione geniale di Orwell a un certo punto: una piccola borghesia impoverita e in crisi che però mantiene questo senso di alterità e di timore nei confronti della brutta sporca e cattiva classe operaia è un partito fascista pronto all’uso.
ER: È uno dei grandi temi soprattutto degli ultimi anni, anche rispetto alla contestazione su come è stata gestita la pandemia, le risposte che poi sono state date ai problemi economici e sociali, l’accusa che chiunque e differisse dal coro delle misure generali stesse ancora una volta “servendo oggettivamente la reazione” perché negli stessi spazi le destre a vario ordine e grado stavano imbracciando e sventolando la medesima tematica; ribadisco però che si tratta sempre della questione di prima, cioè l’incapacità di fronteggiare il fatto che dei problemi ci sono eccome. E poi c’è l’analisi sottile e sempre attuale del senso di superiorità spirituale, gnostica, della classe intellettuale, un atteggiamento che trasforma le case ideologiche in chiese con tanto di libri sacri, parole magiche, scomuniche: Una delle analogie tra comunismo e cattolicesimo romano è l’idea che solo le persone “istruite” siano completamente ortodosse. La cosa che colpisce in maniera più immediata nei cattolici romani inglesi…è la loro profonda consapevolezza di sé. Sembra che non pensino mai – e di sicuro non scrivono mai – se non a proposito del fatto che loro sono cattolici romani. Questo fatto, assieme all’abitudine di autoincensarsi che ne deriva, costituisce l’intera cassetta degli attrezzi dell’uomo di lettere cattolico. Ma la cosa davvero interessante di queste persone è la maniera in cui hanno elaborato le presunte implicazioni dell’ortodossia fino a comprendere i dettagli più minuti dell’esistenza. Anche i liquidi che bevete, a quanto pare, possono essere eretici o ortodossi. Ciò si è trasfuso alla lettera negli intellettuali progressisti. E questo fa sì che non sei più in grado di notare il grumo di verità, malamente e ambiguamente vissuto, che però vive anche nelle fazioni opposte o indifferenti o reattive e su cui appunto il fascismo soffia, lo spazio grigio fra conservazione e reazione: nel momento in cui senti i tuoi scampoli d’identità- e anche di verità- minacciati è facile improvvisamente chiudersi a guscio e avvertire la necessità di fare falange. Non vedere questo vuol dire negare la realtà, negare un problema che c’è.
WM4: Qui siamo proprio nella piena attualità, anche se parliamo di un libro pubblicato nel 1937. Del resto i grandi libri, la grande letteratura, possiedono un’universalità che ritorna sempre e porta il loro significato fino a noi. Un libro ovviamente viene riletto alla luce del presente, ogni generazione rilegge i libri e trova nuove affinità con quelle pagine. Due cose dunque rispetto alla questione che poni. Da un lato il problema della lingua. Il lessico istruito in qualche modo è garanzia formale di fedeltà all’ideale – o piuttosto di fideismo, mi verrebbe da dire -, ma questo cosa significa alla fine? Significa che o si padroneggia un certo linguaggio, un certo lessico, appunto – e Orwell lo diceva rivolto soprattutto all’intelligenza socialista britannica dei suoi anni, che si identificava in quella che in Francia chiamano la lingua di legno, la lingua del marxismo con tutti i concetti belli e profondi per descrivere la realtà -, o padroneggi quel linguaggio oppure sei un povero ignorante che deve essere istruito, in qualche modo devi essere guidato. Qui c’è già tanto snobismo di classe. Dall’altro lato c’è una questione enorme che lui pone e che riguarda quello che potremmo definire l’equivoco sul socialismo. Innanzitutto ricordiamoci l’epoca in cui Orwell stava scrivendo, erano gli anni ‘30 e nel paese guida del socialismo si era affermato definitivamente il potere di Stalin, erano in corso le purghe staliniane e non solo tanta borghesia di sinistra dell’Europa Occidentale applaudiva all’uomo forte, ma c’era appunto un equivoco sul socialismo, cioè l’idea che questo equivalesse all’annichilimento della libertà individuale per il bene comune. Orwell dice no, guardate che noi socialisti dovremmo ribadire invece che socialismo vuol dire giustizia e libertà, entrambe queste cose, non una che si mangia l’altra. Quindi non il culto della libertà individuale borghese, ma nemmeno il giustizialismo sociale che conculca le persone in nome di un bene collettivo. Il socialismo si regge su due principi in equilibrio dialettico tra loro, e se rompo questo equilibrio, se schiaccio uno dei due in favore dell’altro non sono più dentro il discorso socialista. Se abbraccio il liberalismo – quello che è successo alla sinistra europea nel corso degli ultimi decenni – non sono più socialista, divento tutt’al più un liberaldemocratico; viceversa se invece mi dimentico che esiste la sfera della libertà e chiedo che lo Stato imponga il “bene comune” con l’autoritarismo e il controllo poliziesco, ugualmente non sono più dentro il discorso socialista, perché appunto sto dimenticando uno dei due capisaldi in favore dell’altro. Se pensiamo ai due anni pandemici che abbiamo appena vissuto, dove la polemica si è polarizzata in maniera grottesca nei termini di cui sopra tra “libertari” e “autoritari”, ci accorgiamo di quanto sia ancora utile il richiamo di Orwell sui fondamentali.
ER: Tutto questo è fondamentale e lo innesterei su altro, ribadirei che ai poli di giustizia e libertà va sommata una questione molto sottile su cui però un’artista è estremamente sensibile, una parola decisiva come la realtà. C’è quel brano straordinario per lucidità in cui Orwell constata il fatto è che il socialismo, nella forma in cui ci viene oggi presentato, si rivolge a tipi insoddisfatti, quasi disumani. Da un lato c’è il socialista dal cuore caldo, non riflessivo, il tipico socialista operaio che vuole solo abolire la società senza comprenderne sempre tutte le implicazioni. Dall’altro lato c’è il socialista intellettuale e libresco, che comprende cosa bisogna fare per gettare l’attuale civiltà nel bidone della spazzatura ed è disposto a farlo. Innanzitutto questo tipo, proviene sempre dalla classe media, in particolare da una sua frazione urbana e priva di radici di appartenenza. Ancor più sfortunatamente questo secondo tipo include – in un numero così consistente da sembrare predominante agli occhi di un estraneo – quel tipo di persone di cui ho appena parlato: quelli che accusano la borghesia con la bava alla bocca, gli annacquati riformatori di cui Shaw è il prototipo, e i giovani astuti arrampicatori social-letterari che oggi sono comunisti come saranno fascisti tra cinque anni, perché l’andazzo è questo, insieme a un’uggiosa tribù di donne illuminate e di portatori di sandali e bevitori barbuti di succhi di frutta che si radunano a mandrie attirati dall’odore del “progresso”, come fanno i mosconi azzurri con i gatti morti. Ossia il brand, verrebbe da dire oggi, e il brandire come clave le parole giuste, anche a costo di negare l’esperienza altrui: il prato verde, il campo innevato, il pub, che sono tutti luoghi di esperienze grigie, più confuse se vuoi, più sporche, che magari non coincidono direttamente coi mantra progressisti del momento ma sono reali, e documentano il nostro faticoso tentativo di camminare su questa terra. Nella misura in cui tu le epuri stai tagliando fuori l’esperienza umana.
WM4: Una ventina di anni fa, il movimento zapatista messicano aveva un modo di dire, un’immagine secondo me molto efficace e cioè “non sappiamo cosa farcene di un’avanguardia talmente avanti da non poter essere raggiunta da nessuno”. Qual è il tema che pone Orwell? Ovviamente non dice che le battaglie sui diritti e gli stili di vita non siano giuste. Non ti dice che il vegetarianesimo o il femminismo non vadano bene. Ma dice: “occhio però che bisogna devi essere in grado di tradurre queste cose”, cioè di riuscire appunto a calarle dentro la realtà e dare loro consistenza, altrimenti rischi di coltivarle all’interno di una ristretta cerchia di persone che in qualche modo hanno la possibilità di praticarle. Per farlo devi sporcarti, c’è poco da fare, non ce la fai a far passare queste cose in punta di forchetta, non funziona. Devi andare là dove c’è la contraddizione, a scontrarti. Potremmo fare un esempio di questo tipo: può essere che tanti di quegli operai che i socialisti esaltano per le loro mani callose e le loro vite sfruttate, a casa picchino le mogli. E allora lì c’è la contraddizione e lì bisogna calarsi. Questo non può significare che improvvisamente da santi questi diventano dannati, ma che devi sapere elaborare delle pratiche politiche e comunicative all’altezza della complessità sociale.
ER: Esatto.
WM4: Credo che si possa attualizzare questo discorso. Per troppo tempo noi ci siamo fatti un bel film di come stavano le cose: noi eravamo i buoni, stavamo dalla parte giusta dicendo le cose giuste e questo era sufficiente, questo ci avrebbe in qualche modo salvati. Ecco, non è vero, non si salva nessuno così, in realtà, perché poi tra l’altro quando scoppiano le emergenze vere, ognuno finisce per rispondere al richiamo della foresta, al richiamo di classe, cioè succede che i nodi vengono al pettine bruscamente e quel racconto che ti eri fatto risulta veramente evanescente. Mi sembra quindi che quello di Orwell sia davvero un richiamo realistico a quella che dovrebbe essere l’attitudine comunicativa che le persone istruite che credono nel miglioramento in senso egualitario della società dovrebbero avere nei confronti degli altri, per non diventare e soprattutto per non essere percepiti come una cerchia di snob…
ER: Di sacerdoti, appunto.
WM4: Sacerdoti che gestiscono la loro diversità, ben contenti di essere pochi. C’è una frase che ricorderai di un vecchio film di Nanni Moretti – credo fosse Palombella Rossa -, che secondo me coglie perfettamente quest’immagine, questo modo di percepirsi: “Io penso che anche in una società più giusta di questa mi troverei d’accordo sempre con una minoranza delle persone”. Perché? Noi marxisti abbiamo sempre detto invece che sono le masse a fare la storia, che è proprio con la maggioranza che tu devi confrontarti, devi accettare la sfida, e invece c’è questa vocazione a essere pochi ma buoni, questa diffidenza di fondo per la massa ignobile, che ti tiene al sicuro, perché è fortemente identitaria – cioè stai tra i tuoi simili, ti dai ragione, segui il tuo stile di vita -, ma questa sì che è conservazione.
ER: E poi c’è anche la questione per cui la stoffa grigia dell’esperienza è l’unico alfabeto che, per quanto scomposto- da scomporre, perché ovviamente condizioni diverse te lo fanno pronunciare in maniera diversa- però ti permette di intercettare l’altro, perché l’altro, anche il nemico, anche lui ha il suo prato verde, anche lui ha fatto esperienza di che cos’è il campo innevato con i corvi, lo chiamerà in un altro modo ma è la stessa cosa, per cui anni dopo, allo scoppio della guerra di Algeria quando tutta la sinistra francese si schiererà da una parte, Camus dirà “Però io vengo da una famiglia di immigrati commisti, e se io devo scegliere da che parte stare, starò sempre dalla parte di mia madre”. È l’ancoraggio a quei frammenti di realtà nei confronti dei quali tu hai già un’esperienza di debito, che sono sporchi, grigi possono essere malmessi quanto vuoi ma sono appunto reali: Il movente più recondito di molti socialisti, credo, è semplicemente un senso ipertrofico d’ordine. Lo stato attuale delle cose li offende non perché causi miseria, tanto meno perché rende impossibile la libertà, ma perché è disordinato. Quel che desiderano, fondamentalmente, è ridurre il mondo a qualcosa che assomigli a una scacchiera.
WM4: È una nevrosi, una forma di nevrosi certo e molto contemporanea, una patologia molto importante. Alla fine appunto Orwell è davvero impietoso nei confronti dei suoi simili. La strada di Wigan Pier non è il suo j’accuse, non è il dito puntato alla Savonarola, no, lui ci si mette dentro, perché sa benissimo di viverle quelle contraddizioni e di avere fortissima quella tentazione in sé, di essere figlio del suo tempo e figlio di quella classe sociale. Però sa anche che c’è differenza tra assecondare certe attitudini o addirittura farne un modo di fare politica, e invece ricercare accanitamente la consapevolezza per provare a mettersi in crisi. Se la risposta è solo quella nevrotica è chiaro che poi ti chiudi a riccio, diventi un club di persone che in fondo si sentono a posto perché parlano nel modo giusto, hanno letto i libri giusti eccetera… che insomma si pensano la parte migliore della società – e tra l’altro anche questo sarebbe opinabile – e invece il grosso problema che Orwell pone e che oggi secondo me ci dovremmo porre è proprio come si recupera una capacità di comunicazione e di relazione con l’altro da noi, radicalmente altro da noi. Faccio un esempio anche molto banale: cosa segna la differenza tra il momento in cui si parla di immigrazione ed emigrati come di un problema – diciamo – di ordine pubblico, di solidarietà, di assistenza eccetera e quando invece l’immigrazione diventa una questione di trasformazione sociale, il momento in cui queste persone – non nate qua – diventano soggetti attivi e consapevoli dentro la società? Questo cambia tutto ovviamente, quando saranno davvero lì con te non come l’oggetto raro della tua attenzione da celebrare o additare invece alla pubblica gogna, quando saranno lì e ti diranno la loro e tu doravi ascoltarli, questo farà la differenza. E questo vale ovviamente anche per il discorso di Orwell sul gap tra le classi sociali. A un certo punto fa un elenco di categorie lavorative, proprio nelle pagine finali, dicendo “ma tutti questi che sono dei disperati non meno che la working class, perché devono credere all’ideologia borghese dell’arricchimento, del sistemarsi… eccetera, ma dove sta scritto?” Perché devi sentirti così se non ti rendi conto che la tua distanza da quelli che reggono la società è immensamente maggiore dalla distanza che ti separa dal lavoratore manuale? E questo è proprio il cuore del suo socialismo, lui era convinto anche politicamente che questa fosse la missione di un partito socialista, non è la socialdemocrazia, quella è una roba più continentale, una cosa diversa, e lui rimane un laburista da questo punto di vista, molto britannico in questo, legato proprio a questa idea dell’equilibrio tra giustizia e libertà e di un unico partito che riesca a creare questa alleanza tra le classi più basse, appunto dal proletariato alla piccola borghesia. Lui la dice dritta per dritta ‘sta cosa, nominandoli, dicendo “l’impiegato, lo scrittore freelance la vedova che vive con la pensione…” tutti questi perché questi non dovrebbero essere un soggetto sociale tanto quanto gli altri lavoratori? Perché non dovrebbero sentirsi sulla stessa barca degli operai, dei lavoratori industriali, dei minatori eccetera eccetera…è una bella domanda, cioè una bella sfida quella che lui poneva al proprio tempo.
ER: Allargherei infine il campo a due cose diverse. Anche questo è un libro che ovviamente -fosse solo per la citazione da Tempi Difficili-è dialogo a distanza con Dickens, e poi ovviamente c’è il famoso saggio sul massimo scrittore vittoriano che anche tu citi in prefazione: Orwell ammirava Dickens immensamente come autore di scene e personaggi, affermava che nessuno che abbia letto Dickens avrebbe dimenticato certe scene per tutta la vita, mentre d’altro canto sosteneva che la cosa peggiore dei romanzi di Dickens fossero le trame, perché nonostante comprendano una sequenza di scene spesso memorabili, comiche, commoventi, di dettagli personali straordinari, però in fondo il percorso all’interno dei romanzi di Dickens- e Orwell lo diceva in senso negativo mentre per Chesterton ciò aveva un’accezione positiva- è una fiaba, il piccolo re nel suo piccolo giardino. In effetti noi abbiamo adoperato tante volte l’immagine del cortiletto, del pub eccetera. Si può dire che in due modi diversi, Orwell e Tolkien partono esattamente laddove Dickens termina, come immagine della società e come sfide per il singolo e anche per la collettività?
WM4: Diciamo che rispetto a un autore come Dickens, rispetto all’Ottocento, Tolkien e Orwell hanno molto in comune, ma questo è legato anzitutto all’epoca che hanno vissuto, che hanno condiviso. Loro introducono un elemento nella letteratura fantastica, adesso penso in particolare alla grande distopia 1984, ma non solo, e cioè introducono il male, un male che c’è anche in Dickens, ma loro introducono un male che divora qualunque cosa, un male che rischia davvero di vincere irrimediabilmente. Tom Shippey ha accomunato Orwell e Tolkien in un suo saggio di alcuni anni fa definendoli “scrittori del dopoguerra”, intendendo il secondo dopoguerra, cioè l’epoca che tra regimi totalitari, guerra mondiale e bomba atomica impone un senso di grande cupezza alle loro storie. Ecco che quell’happy ending dickensiano, la favola morale, non ha più spazio e quindi loro raccolgono forse quel testimone perché è vero, tutti e due sono molto britannici, tutte e due tengono a quella immagine che evocavi, il quadretto del pub, del giardino la casa, quell’immaginario che è durissimo a morire, anzi ancora perdura ancora: forse senza quell’immaginario non avremmo avuto nemmeno la Brexit – sono quasi dei “ProtoBrexiter” se vogliamo -, però loro hanno in più questo elemento inquietante. È il fatto di doversi confrontare contro la possibilità che il male trionfi e che quindi tocca scommettere sul “quasi” di prima. Poi ovviamente Tolkien lo fa da cattolico e quindi la sua è una speranza suffragata anche da una grande fede, da una prospettiva provvidenziale eccetera, mentre Orwell questo non ce l’ha, ma hanno in comune questa cosa, senza dubbio condividono questa prospettiva, come del resto mi sembra – visto che l’hai citato – che si potrebbe aggiungere al trittico proprio lo stesso Camus.
ER: Assolutamente. Beh, anche solo ne Lo Hobbit, sul quale hai lavorato tanto, molte delle cose che noi abbiamo detto- ovviamente declinate in linguaggio fiabesco- sono presenti: lo schiaffo ai cinque sensi, l’esposizione, la commistione con la vita di qualcun altro. Non si può in fondo dire che il viaggio di Bilbo sia letteralmente questo, seppure fra tante altre cose? Penso alla frase finale di Bilbo a Thorin morente, “Sono felice di aver condiviso le tue disavventure”. Non gli dice “sono contento di aver condiviso le tue glorie”. Si parte dalla casetta, e dalla casetta si esce: Bilbo e Thorin alla fine non compiono lo stesso gesto, forse? Bilbo esce all’inizio, e Thorin non esce alla fine dal palazzo che ha trasformato in un ghetto-carcere?
WM4: Sì, ma per tornare allora il discorso di prima, siamo sicuri di volerla demonizzare, la casetta? Quanto può suonare snob doverla rifiutare ideologicamente? All’inizio abbiamo richiamato Fiorirà l’aspidistra ed è già tutto lì, questa contraddizione è già tutta lì: devo essere per forza uno spavaldo libero amatore che predica non solo il libro amore ma anche la rivoluzione e le meravigliose sorti e progressive dell’umanità contro la noia della vita piccolo borghese, i piccoli valori, le piccole sicurezze? È rischioso, armati di questa retorica ci si va a sfasciare, perché in realtà Orwell nella sua letteratura è consapevole che queste due forze ci sono entrambe e che è necessario fare la quadratura del cerchio, altrimenti sbarazzarsi della seconda per la prima diventa un discorso appunto fideistico, ideologico. E lo stesso Tolkien, che pure dicevo parte da una prospettiva diversa, ti dice che dalla casetta te ne devi andare e poi ci devi anche tornare. Torni e non sei più lo stesso: è un messaggio conservatore, questo?
ER: È tutto un movimento dal noto all’ignoto che ti riconsegna il noto, cioè ti ti trasforma, ti rende altro, il che non vuol dire non restare nel noto, giustamente, però non sei più lo stesso.
WM4: Hai citato il viaggio di Bilbo Baggins. Quando lui torna nella sua amata casetta, nel suo amato cottage ipogeo, è considerato più o meno lo strambo del villaggio, è una specie di personaggio borderline.
ER: Frequentatore di gente equivoca…
WM4: Frequentatore di gente equivoca, esatto, e quindi in realtà anche Tolkien sta facendo lo stesso discorso, sta dicendo: “Guarda, non è il conformismo che ti mette al sicuro da un bel niente, devi riuscire a sbarazzartene senza bisogno di predicare chissà che cosa e di sentirti appunto chissà quale eroe eticamente superiore agli altri”. Il finale de Lo Hobbit al riguardo è molto chiaro: Gandalf che dice “Beh, insomma non penserai mica che tutto giri intorno a te, alla fine sei una gran brava persona, Bilbo, ma dentro una grande storia”, con un senso cioè del proprio limite.
ER: Per concludere vorrei fare un passo indietro, tentare un paragone diverso: tornare a una generazione prima, a un’altra discesa in miniera che desidero leggerti perché la trovo sempre molto bella e molto divertente. Spesso infatti, come diceva Pavese, gli opposti non sono l’uno la negazione dell’altro. C’è stato un altro grande scrittore di lingua inglese che era andato in miniera, ovviamente in quel caso per un paio di giorni. Si tratta di Oscar Wilde, che quando fece il giro degli Stati Uniti a tenere le sue conferenze legate a William Morris e al movimento estetico-cioè al fatto che l’estetismo non è un orpello per pochi ma è l’elemento essenziale per una società più giusta, perché crescere circondati da cose belle vuol dire cambiare sguardo sul mondo e gli altri e noi stessi- racconta in questa sua lettera dell’82 quando discese in miniera a tenere una conferenza ai minatori stessi: Il mio pubblico era totalmente composto di minatori, trucco impeccabile, camicie rosse e barbe bionde gli parlai dei Primitivi Fiorentini e dormirono come se nessun delitto avesse mai macchiato le rovine delle loro montane dimore. Gli descrissi quadri di Botticelli e il nome che gli suonò come quello di una nuova bevanda, li riscosse dai loro sogni ma quando nella mia fanciullesca innocenza gli descrissi il segreto di Botticelli quegli uomini forti piansero come bambini. Ovviamente qui c’è anche tutto il gioco di Wilde, che è sempre quello di mitologizzare ciò che tocca, come fosse appunto un re Mida per cui tutto ciò che sfiora diventa oro, però in realtà io l’ho sempre trovata straordinariamente commovente perché neanche questo è un atteggiamento snobistico. Per niente. Paradossalmente Wilde fa esattamente l’opposto e l’uguale di Orwell, cioè scende come un re che parlerebbe ad altri re. Non è minimamente condiscendente, non ha bisogno di sminuzzare le nostre emozioni e nozioni, li tratta come tratterebbe le dame di una grande conferenza a Londra perché è convinto che la bellezza la cultura e l’arte siano un pane spezzabile veramente con tutti.
WM4: E alla fine trova la chiave per commuoverli, cioè riesce a trasmettergli questa cosa. Hai ragione nel dire che lui sembra un po’ quello che porta la luce ai bruti, quello dello “scendo tra voi” con questa prosopopea egocentrica. Però Wilde intanto quella cosa la fa. In questo appunto anticipa il discorso che faceva Orwell: mi metto allo stesso livello, parlo alla pari e riesco a farvi capire dov’è il bello nella storia che vi sto raccontando. È quella parola Shakespeare che balena all’improvviso nel romanzo di Orwell ed è di tutti, non ti servono due lauree, non è vero che il bello è una cosa per pochi che sono in grado di capirlo. Certo, puoi concepirlo così, puoi tenerlo nel chiuso dei musei e delle gallerie d’arte, oppure puoi decidere di portarlo fuori, di sporcarti, perché in miniera ci si sporca e non credo che Wilde se ne sia uscito tutto bello lindo con l’orchidea all’occhiello. Ci si sporca, bisogna farlo, è necessario farlo ma quell’immagine ovviamente non va neanche edulcorata, perché c’è sempre un rischio anche in questo. È ovvio, c’è il rischio pasoliniano di esaltazione del “povero ma bello” che è un po’ l’errore opposto, così come c’è il rischio anche di trovarsi a dover battagliare con delle visioni del mondo e della vita molto lontane dalla nostra e molto ostiche da scalfire, e di ritrovarsi inefficaci, quindi sconfitti. C’è anche questo rischio, certo, e quindi non si tratta di una scommessa in cui uno dice “Ah, ok bisogna fare così e andrà bene”. Non è detto che andrà bene, e Orwell di suo tendeva più al pessimismo. Però è quello che lui sente giusto fare, la cosa più efficace e più giusta da fare. Assumere questo atteggiamento non vuol dire abbassarsi, vuol dire…
ER: Contaminarsi…
WM4: Sì. E trattare gli altri come tuoi pari.
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