Cosa ci aspetta nel futuro? Il riscaldamento globale causerà – e lo sta già facendo – conflitti e nuove migrazioni. Gregorio Magini ha messo in fila le tematiche che ci portano a riflettere su un pessimismo che influenza le arti e le narrazioni del presente e si ripercuoterà su quelle del prossimo futuro.
In copertina: Francis Danby, The Deluge
di Gregorio Magini
Le prospettive più ragionevoli sul futuro immediato dell’umanità sono due, e prevedono entrambe un’ecatombe: l’acuirsi del cambiamento climatico e le crisi sociali che ne conseguiranno. Il 2018 è stato l’anno in cui questa nera consapevolezza è straripata dall’inquietudine per una possibile catastrofe “nel prossimo secolo”, al livello di angoscia odierno, paragonabile a quello che proverebbe chi vedesse un uragano accumularsi all’orizzonte. Da una nave in avaria. In mezzo all’oceano. Quando il capitano è stato messo ai ferri perché si è rivelato un pazzo e la ciurma ammutinata è sbronza ed è scoppiata una rissa.
E mentre in Occidente la politica affronta il panico strisciante con la modalità dell’incubo che è propria delle società alle prese con il pericolo mortale (il sacrificio umano, il gesto apotropaico che spiana l’avvento di ciò che lo terrorizza), la cultura si trova a non saper più che significato dare a idee come “democrazia”, “arte”, “felicità”, “bene”, “verità”. Qual è il senso di queste parole di fronte alla fine del mondo? A cosa dobbiamo rinunciare per non perdere tutto? Chi nega il pericolo è un nemico dell’umanità? Cosa dobbiamo farne, dei nemici dell’umanità? Sono io stesso, un nemico dell’umanità? Sono queste, oggi, le domande fondamentali.
La più nota tra le narrazioni popolari che in questi anni si sono occupate del collasso è la serie The Walking Dead. Il suo punto di forza è il realismo, ma è anche il suo limite, perché la fedeltà a una ricostruzione (più o meno) credibile del comportamento dell’uomo quando la civiltà scompare, impedisce di elaborare un discorso sulle cause (non sapremo mai perché è iniziata l’epidemia di zombi), finendo per sottoscrivere una prospettiva apocalittica. Un senso di ineluttabilità che ci paralizza nella contemplazione ammirata e orripilata della rovina. Certe scene wagneriane, certi ralenti di carne strappata a brani sotto la pioggia, danno il senso della mostruosa/maestosa naturalezza del caos. È tutto qui quello che ci aspetta? Solo la morte? Certo che no. O meglio: fintanto che non saremo, nel famoso lungo periodo, tutti morti, avremo una per così dire legittima esigenza di provare a continuare a rispondere alle domande, a provare a riprendere il controllo del nostro destino.
Ultimamente ci sono alcuni testi in cui ho trovato, in diversi modi, indizi, prospettive, lampi d’immaginario riguardo le suddette domande fondamentali. Solo una di queste opere affronta esplicitamente la questione, e nessuna è stata scritta con l’intento di salvare l’umanità. Perciò si tratta di un percorso di lettura parecchio a zig-zag. Ma della letteratura viva, rilevante, come del maiale, non si butta via niente.
Margaret Atwood, Tornare a galla (Dalai Editore, 2007)
Secondo romanzo dell’autrice che ha raggiunto fama mondiale con Il racconto dell’ancella. Uscito originariamente nel 1972 in Canada, con titolo Surfacing. Un gruppo di hippy alla frutta, guidato da una narratrice innominata e disgustata dagli esseri umani (soprattutto dagli americani) alla ricerca di un padre scomparso nella foresta, perde la brocca su un’isola in un lago canadese. Se la civiltà è un orrore e l’amore uno stupro, non per questo il ritorno alle origini e la liberazione sessuale sono un pranzo di gala. Per sopravvivere, è necessaria un’immersione rituale nell’inumano, resa possibile solo dalla svestizione da ogni identità.
Knut Hamsun, Pan (Adelphi, 2017)
Come controcanto maschile ai traumi viscerali della Atwood, questo celebre romanzo breve del 1894. Anche qui, un’identità di genere cade a pezzi (cosicché, oggi, il “panificato” medio è tipicamente un ubriacone molestatore. Sul dio del titolo e sulla sua perdurante rilevanza nella psiche moderna, consiglio il Saggio su Pan di James Hillman). Anche qui, è lo stretto contatto con la natura a precipitare la follia. O più precisamente, è tutt’uno con la follia. “Uno dei rari romanzi moderni in cui la natura parla”, nelle parole dell’editore italiano. Natura che non esiste più, definitivamente inglobata dal sapere e dal fare umano. La storia della solitudine selvaggia del tenente Glahn, del suo cane Esopo, del suo amore per l’ostinata Edvarda dalle trecce dorate, e delle sue memorabili escursioni, ci rammenta quello che abbiamo perduto, e che forse saremo costretti a ritrovare.
-->La lucina di Antonio Moresco (Mondadori, 2016)
Infatti la natura, in questo romanzo non direi minore ma relativamente minimale nella produzione altrimenti tipicamente strabordante di Moresco, è un’allucinazione. Anche questa terza tappa presenta un io narrante che abita nel bosco. “Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante.” Questo l’impeccabile incipit. Paradossalmente, la solitudine delle alture è zeppa di incontri: cani feriti, rondini, lucciole, ufologi. E infine un bambino fantasma, che abita da solo in una casupola sul versante opposto della vallata e ogni notte accende la lucina che dà il titolo al libro e che illumina, a intermittenza, il racconto dall’inizio alla fine.
Avrei preferito la soppressione di alcuni dei momenti in cui il narratore esplicita, di solito ponendo a se stesso e al lettore una serie di domande, il significato simbolico/metafisico dei suoi incontri (“Che cosa succede?”; “Perché tutto questo?”), perché tendono a manifestare troppo direttamente un ego estraneo, non-narrativo. Quando invece il protagonista, come un San Francesco svaporato, parla e interroga le bestie, le piante e i paesaggi, prima e dopo averli vividamente descritti, La Lucina mostra tutto il suo fascino, suggerendo inaspettate potenzialità ancora aperte per la fiaba nella letteratura italiana.
Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Raffaello Cortina, 2017); Alberto Casadei, Biologia della letteratura. Corpo, stile, storia (Il Saggiatore, 2018); Marco Bernini e Michele Caracciolo, Letteratura e scienze cognitive (Carocci, 2013)
Dopo il trittico delle persone sole nel bosco, un trittico teorico. Conclusa la sbornia post-strutturalista con l’esplosione della semiotica nei mille rivoli dei cultural studies, un ramo della narratologia si è reinventato nell’ultimo decennio come terreno d’incontro tra scienze cognitive, biologia e teoria letteraria: la domanda si sposta da “cosa sono le storie?” a “cosa ci fanno le storie?”. Le storie, si direbbe, come medicine o sostanze psicotrope. Quantità e qualità dei contenuti di questi tre saggi sono troppe anche solo per tentarne un riassunto. Noto solo che si tratta di una grande ventata di idee nuove, in cui ogni appassionato di letteratura, se non disdegna troppo la teoria, non può che trovare sollazzo. E forse un’accresciuta fiducia nella rilevanza delle arti della narrazione nel plasmare il mondo a venire.
(Di Michele Cometa, è appena uscito per Carocci anche Letteratura e darwinismo. Introduzione alla biopoetica – che sta ancora nella mia coda di lettura ma mi sento di consigliare a scatola chiusa.)
Tao Lin, Trip: Psychedelics, Alienation and Change (Vintage, 2018)
Per chiudere, propongo due testi non ancora usciti nella nostra lingua. Il mio intento non è tanto strizzare l’occhio a chi può leggerli subito in inglese, ma è soprattutto stimolarne la traduzione. Il primo è Trip di Tao Lin. Di Lin, fu portato in Italia nel 2014 Taipei, dalla compianta Isbn Edizioni: una storia di amore tra abuso di stimolanti e psicofarmaci, spreco di psichedelici, e social network. Se Taipei rappresenta l’inferno, Trip gli si pone accanto come un purgatorio. Lin racconta di come, dal fondo della disperazione nichilista, il suo Virgilio digitale, ovvero la voce ipnotica di Terence McKenna su YouTube, abbia innescato in lui un percorso di rinascita psicologica e spirituale suggerendogli un nuovo approccio all’assunzione di enteogeni (funghi magici, soprattutto). McKenna è uno dei campioni della psichedelia sotterranea e libertaria di fine millennio, una personalità non certo mitizzabile per l’eccentricità spesso para-pazzoide del suo pensiero (probabilmente non lo sai, ma fu uno dei principali responsabili della moda della fine del mondo nel 12/12/2012), ma fondamentale nel registrare il passaggio all’acuta consapevolezza di una necessità di cambiamento radicale di fronte alla catastrofe imminente. Trip va ben al di là di una critica al guru (che lo stesso McKenna comunque sollecitava), offrendo un racconto lucido e sobrio di una spiritualità rinnovata lontanissimo dalla paccottiglia dilagante delle metafisiche New Age.
William T. Vollmann, No Immediate Danger e No Good Alternative (Viking, 2018)
Questo ultimo consiglio è l’unica opera che, come ho anticipato, affronta esplicitamente la questione. Ho letto solo i primi capitoli dei due elefantiaci volumi della serie Carbon Ideologies, che tentano l’impresa titanica di comprendere la situazione attuale dal punto di vista dell’emissione dei gas serra: perché lo facciamo, perché non possiamo non farlo. Vi ho trovato, intanto, un approccio interessantissimo nella modalità del racconto: l’esposizione ha come destinatario i sopravvissuti del mondo futuro, dopo la catastrofe cioè, quando non avranno (avremo?) più la corrente elettrica in sovrabbondanza in tutte le case: o perché dovranno tagliare le emissioni di CO2, o perché saranno talmente regrediti da non poterselo comunque più permettere. Do l’abbrivio al lavoro del traduttore dando una mia versione dell’incipit della vasta opera: “Un giorno non troppo lontano, gli abitanti di un pianeta più caldo, più pericoloso e più povero biologicamente di quello in cui io ho vissuto, si chiederanno che cosa ci passava, a noi, a me e a te, per la testa, seppure un pensiero ce l’avevamo. Questo libro è per loro.”
Mi pare che ogni libro che d’ora in avanti non meriterà questa o simile epigrafe, sarà difficilmente degno di essere scritto.
Anche il romanzo “Unnatural” la regressione di Martin Noregham sarebbe da mettere in fila. È post apocalittico.