Pane amore e fantasy: il ritorno del genere fantastico



La letteratura italiana contemporanea sembra premiare il realismo, ma la tradizione del fantastico resta: ecco un percorso nel panorama più recente.


In copertina e nel testo: Prognostication, di Pierre Roy

di Dario De Marco

La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando «Al lupo, al lupo»: è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò «Al lupo, al lupo» senza avere nessun lupo alle calcagna. È del tutto incidentale che il poverino, per aver mentito troppo spesso, alla fine sia stato divorato da un lupo in carne e ossa. Il punto importante è che tra il lupo della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante: quell’intermediario, quel prisma, è l’arte della letteratura.
(Vladimir Nabokov)



La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neander gridando “al lupo, al lupo” senza avere nessun lupo alle calcagna: al massimo lì è nata la menzogna. La letteratura è nata quando a fine giornata, raccolta attorno al fuoco, la gente del villaggio ha iniziato a chiedere al ragazzo, un po’ per prenderlo in giro e un po’ con la voglia di crederci: dai Pierino, raccontaci ancora di quella volta che sei sfuggito per un pelo alle grinfie del lupo. E lui a raccontare, una sera dopo l’altra, sempre la stessa storia, aggiungendo ogni volta particolari più definiti, imprese sempre più mirabolanti, finali sempre più sorprendenti: quella volta che aveva battuto il lupo a mani nude; quella volta che il lupo era in realtà un orso; quella volta che non c’era stata nessuna lotta, ma lui e il lupo si erano seduti a chiacchierare amabilmente di come non ci fossero più le glaciazioni di una volta; quella volta che il lupo aveva divorato il ragazzo e per magia ne aveva assunto le sembianze, e infatti era lui che avevano davanti adesso. 

È del tutto incidentale che il poverino per aver raccontato cose troppo inverosimili (o, al contrario, troppo banali?) alla fine sia stato cacciato dal villaggio e gettato in pasto a un lupo in carne e ossa. Il punto importante è che tra il lupo della bugia e il lupo del racconto esiste un intermediario scintillante: quell’intermediario, quel prisma, è l’arte della letteratura. La letteratura è nata quando il ragazzo, che ormai era diventato un vecchio – il vecchio contastorie  del villaggio – ha iniziato a pensare a un erede cui trasmettere la sua arte, il suo ruolo. Ben sapendo che il punto non è farsi credere, ma farsi ascoltare.

 

Prologo stregato

Cosa voglio dire con questo cappello, oltre a fare il verso a Nabokov provando a – la dea mi perdoni – confutarlo? Che la letteratura ha bisogno di un pubblico consenziente, anche immaginario, innanzitutto; e che la letteratura, per nascita e costituzione, non è solo falsa, non è solo inganno, ma è soprattutto irreale, invenzione straordinaria, che straborda, che forza i limiti del credibile e del comprensibile.

Sembrano banalità, ma sta di fatto che, in particolare oggi e in particolare in Italia, per letteratura si intende tutt’altro. Ecco come l’agenzia di stampa Ansa presentava quattro dei cinque libri finalisti dell’ultima edizione del Premio Strega (siamo ben lontani dalla serata del Ninfeo e dalle polemiche che stancamente ogni anno l’accompagnano, per cui sarà chiaro che l’intento non è la cronaca o la frecciata, ma la temperatura percepita, lo spirito del tempo): 

(l’autore) racconta l’amicizia che lo ha legato a due scrittori scomparsi prematuramente, restituendoci la loro personalità

(l’autrice) ripercorre la sua vita, dalla deportazione nei campi di concentramento, quando era ancora bambina, al presente

la giovane scrittrice guarda dentro e fuori di sé per raccontarci in prima persona cosa ha significato il passaggio a questo nuovo secolo per chi oggi ha trent’anni

(lo scrittore) racconta la storia di una persona, un indefinito Io, costruita attraverso le case che ha vissuto.

Ora dico: non è che stiamo esagerando con questa autofiction? Non è che stiamo esagerando con tutta questa realtà? Evidentemente, no. Perché l’autofiction già pare un azzardo, un eccesso di sperimentalismo: la via maestra è sempre quella, il realismo. Ma c’è un’altra via: non è un movimento letterario, non è forse neanche un sentire comune a varie persone che scrivono. Però c’è, e quindi va cercato. Senza pretesa di completezza, e libero dall’ansia di dover schizzare un panorama per quanto in bozza di come si è sviluppato il new Italian weird dal ’18 in qua, provo a disegnare un percorso personale di letture. Che solo per caso è coinciso con l’anno solare 2 d.C. (dopo Coronavirus): non si tratta quindi di una delle tante classifiche sui libri migliori dell’anno passato, né di una lista di consigli per gli acquisti; anche se, come dire, brutti non sono. E il percorso, che personalmente si è sviluppato in maniera cronologica, si riavvolge qui tenendo conto di altri fattori, e nello specifico delle forme: dato che sui contenuti – avrei dovuto raggruppare per generi e sottogeneri?, fantasy, fantastico, fantascientifico? – suvvia.

La parte dei racconti

AA.VV., Hortus mirabilis. Storie di piante immaginarie (Moscabianca) 

Francesca Mattei, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa (Pidgin)

Marco Marrucci, Novena (Racconti edizioni)

Alfredo Zucchi, La memoria dell’uguale (Polidoro) 

Jacopo Masini, Polpette e altre storie brevissime (Del Vecchio)

Francesca Matteoni, Io sarò il rovo (effequ) 

Hortus Mirabilis, essendo un volume di vari autori, contiene vari generi. È un progetto della molto piccola e molto pazza casa editrice Moscabianca, perché se c’è una cosa più di nicchia dei libri di racconti, sono le antologie di racconti – benché una delle uscite più memorabili degli ultimi dieci anni sia proprio un’antologia, Le Visionarie, scrittrici fantastiche riunite da Ann e Jeff Vandermeer, pubblicata in Italia da Not. La stessa Moscabianca d’altra parte ha dato seguito qualche mese dopo con un’altra collection, Human/. Il volume è molto bello anche esteticamente, formato grande e copertina rigida, illustrazioni all’interno; chiama a raccolta alcuni dei nomi del sottobosco letterario, certi già noti certi meno; e tutti danno il meglio di sé, i racconti sono uno più bello dell’altro, anche se molto diversi tra loro. L’idea di partenza è originale, e in scia di discorsi che negli ultimi tempi stanno facendo breccia, da Stefano Mancuso a Merlin Sheldrake, sul mondo non-animale. Uno dei topos del fantastico, dai miti al fantasy passando per le fiabe, è l’animale parlante, l’animale pensante. Questo, sul modello dei bestiari popolati da animali del mito, è invece un giardino di botanica fantastica. Lo spunto è dotare della stessa iniziativa, della stessa agency direbbero alcuni filosofi, le piante. Questa agentività è poi declinata nei modi più vari, come s’è detto: a volte è delicatamente suggerita, altre s’impone in modo devastante.

A volte figurato, a volte mostruoso, ma sempre dirompente, è l’ingresso dell’irreale nei racconti di Francesca Mattei, un esordio di cui si è parlato molto, e meritatamente. Da un certo punto di vista sono storie di provincia, di piccola disperazione; dall’altro sembrano nascondere e trasfigurare un malessere cosmico, un dolore venuto dallo spazio (pun intendend). Il confine tra reale e insolito è sbiadito, confuso: non si capisce se il guasto sia nella testa dell’io narrante o nel mondo. Un insolito che per chi ci si trova dentro è normale, viene accettato con una strana passività, anche se non smette di fare male. Un realismo tragico, che ha pochi termini di paragone nostrani, e che avvicina Mattei ad altrettanto giovani campioni new (o post) weird come la Amelia Gray di Viscere.

Conclusione per certi versi simile si può trarre per Marco Marrucci, al secondo libro dopo la raccolta Ovunque sulla terra gli uomini. La sua scrittura sembra ora meno debitrice di Borges e Buzzati, più vicina all’altro suo grande modello italiano, Daniele Del Giudice, ma in generale poi il libro mostra una voce ormai sua, più originale e matura. E, insieme, un contenuto più classico e austero, con meno spigoli e imperfezioni ma anche con meno sorprese. Uno che invece ha trovato un ottimo modo per sbarazzarsi di Borges – nume tutelare e padre opprimente di tutti i raccontisti fantastici – è Alfredo Zucchi (che però poi sempre lì torna, in uno stranissimo saggio pubblicato da poco per Mucchi: Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo, non penso ci sia altro da aggiungere). Zucchi invece di allontanarsi da Borges si avvicina talmente tanto da perforarlo, trapassarlo, giungendo al suo cuore esoterico; e per farlo usa un’arma appuntita che si chiama David Lynch, la sua programmatica negazione del senso, l’anelito dei personaggi – e del lettore/spettatore – a rincorrere un mistero che non si può risolvere, perché forse non c’è.

Il mistero, il non detto, il sottinteso ingannevole, sono protagonisti anche delle micronarrazioni di Jacopo Masini. Se il racconto è forma privilegiata del fantastico, la flash story lo è a maggior ragione perché impone una icasticità per sua natura polisemica, ambigua. Una pagina, poche righe: ma Masini si inserisce anche in un’altra tradizione, tipicamente nostrana, quella del comico “alto”, alla Cavazzoni, alla Zavattini. Spesso il racconto si risolve con una battuta, con un gioco di parole: si scherza, ma mai per scherzo.

Giochi e scherzi sono cose serissime, i bambini ce lo insegnano, come ci insegnano che serissime sono le favole. Chiudiamo la prima parte quindi con un libro abbastanza unico, che solo per semplificare ho messo nel calderone dei racconti. Così come unica nel panorama contemporaneo è la sua autrice, Francesca Matteoni. Strana figura di poetessa e studiosa di magia, divinazione, esoterismo; un po’ strega ella stessa. Io sarò il rovo è una miscellanea di favole esplose, destrutturate, scarnificate: che nonostante ciò, o proprio perciò, conservano la loro essenza misterica. C’è la riscrittura di temi noti (cosa che ricorre anche in certe stanze del suo ultimo libro di poesia, Ciò che il mondo separa, marcos y marcos), e c’è quindi, per il lettore smaliziato o enigmista, il gioco del nascondimento e del riconoscimento. Ma c’è molto, molto altro.   

 

Intervallo: novella

 

Elena Giorgiana Mirabelli, Maizo.

Forse c’è, una cosa più bistrattata ancora dei racconti, ed è la forma intermedia: il racconto lungo, o romanzo breve, o novella (sì lo so, che c’è chi teorizza una sottile ma sensibile differenza tra tutte, o alcune delle misure suddette, ma per una volta non mi perderei in cavilli). La forma ibrida non gode dell’autonomia del romanzo, dello spessore che spesso letteralmente si attribuisce al volume, né della fulminea maneggevolezza del racconto; e se dal lato sostanziale è comunque al romanzo accostata, beneficiando della sua luce riflessa, da quello formale sconta la difficoltà di inquadramento editoriale. Come mandare in stampa una novella? Da sola, non regge il libro, i costi fissi dell’oggetto; insieme a dei racconti brevi, c’è squilibrio; con altre novelle, incoerenza. Merita quindi a maggior ragione il plauso, l’iniziativa di Zona 42, casa editrice specializzata in fantascienza, con la collana di novelle 42 Nodi, splendidi librini curati anche graficamente (è da poco uscito un George Saunders, Ghoul accovacciato numero 8, gran colpo). E merita, in qualunque modo la si voglia chiamare, la storia di Elena Giorgiana Mirabelli, Maizo. Funziona, perché gira a suo favore quelli che sono i punti deboli, le trappole della misura intermedia: ha il passo pacato del romanzo, e lo scatto bruciante del racconto; si legge in un’unica sessione, perché risulta difficile staccarsi, ma riesce ad avvolgere nella storia, nei personaggi.

Anche questo libro, come altri già visti o da vedere, si tiene sul crinale stretto tra reale e fantastico; oscilla tra il razionale per quanto strano, e il completamente fuori di testa. Accettato il contesto, le cose che succedono possono anche sembrare normali: bambini rinchiusi in strutture rieducative solo perché giudicati pericolosi in base a una serie di parametri, e perciò definiti “potenziali”; di tutto il mondo fuori poco si sa, e si dice, potrebbe essere al 99% come il nostro, o terribilmente diverso. Ma appunto, il contesto generale si fa poco sforzo ad accettarlo, se non che poi, per dire, la voce narrante è quella di una piccola tartaruga. Mirabelli gioca anche con la forma, inserendo note da manuale teorico: un residuo del suo romanzo d’esordio, Configurazione Tundra (Tunuè), un oggetto affascinante ma anche abbastanza ostico, rispetto al quale Maizo fa un passo verso il lettore, senza perdere in mistero e bellezza. Anzi mettendo in risalto una scrittura con maggiore serenità e controllo, tale da far intravedere un futuro scintillante. 

 

La parte dei romanzi

Andrea Cassini, Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile (effequ) 

Lucio Leone, La ferita (Polidoro) 

Michele Vaccari, Urla sempre, primavera (NN Editore)

Laura Pariani, Apriti, mare! (La nave di Teseo)

Mauro Maraschi, Rogozov (TerraRossa)

Quello di Cassini è forse il primo libro tra quelli visti finora, se si escludono alcuni pezzi di Hortus Mirabilis, ad avere un contesto chiaramente fantasy. Eppure c’è un doppio twist, perché nell’ambientazione fantastica di partenza si innesta un avvenimento distopico che dà all’universo di riferimento un altro giro di vite, un’accelerazione in un futuro sci-fi. La città – il mondo, a quanto ne sappiamo – è costruito su un albero; ma a un certo punto l’albero inizia a bruciare, di un fuoco lento che però non si spegne. La cosa comporta problemi pratici, di circolazione e visibilità, e conseguenze metafisiche, come l’apparire di fantasmi mostruosi legati a ogni essere umano. Metaforone della catastrofe climatica? Allegoria della psiche? Forse, ma queste letture più evidenti sono anche le meno interessanti. La logica onirica che governa l’universo è forse meglio decifrabile alla luce di forme espressive più moderne, come i manga e i videogiochi: la ricerca da parte del protagonista di una serie di oggetti per accedere a livelli di conoscenza sempre superiori, come ha fatto notare Andrea Cafarella, non è forse la classica quest da gioco di ruolo o videogame? Il tutto poi viene filtrato attraverso una scrittura ermetica, a tratti oracolare. Ma io, e Cassini me lo ha confermato indicando un po’ a sorpresa Italo Calvino tra i suoi numi tutelari, ci ho trovato anche una rivisitazione accelerata della trilogia degli antenati: la vita sull’albero, il gioco del doppio, la non-esistenza. E mi fermo alle soglie dello spoiler; ma il protagonista, che si chiama Zero, di lavoro aiuta gli aspiranti suicidi, cosa che ci porta diritti tra le braccia di Lucio Leone. Il protagonista del suo ultimo romanzo fa un mestiere uguale e contrario: salva, o meglio ancora riporta indietro dalla morte le persone che si sono già suicidate. Al di là della curiosa ricorrenza di mettere al centro un tema indicibile come quello del suicidio – ricorrenza che va ben oltre questi due testi, e buca in narrazioni mainstream come quella della serie TV di Zerocalcare – i due romanzi di Cassini e Leone, che più diversi non potrebbero essere, hanno una serie di sotterranei punti in comune: la visione, la ricerca, la sfida. Il piano simbolico non rende farraginosa l’azione ma la proietta in un mondo fantastico: la ferita del titolo è quella che il protagonista pratica sulla pelle dei morti, e attraverso la quale entra dentro di loro; un calarsi all’interno, all’inferno, che si traduce un andare indietro nel tempo. Alla ricerca della causa, del momento in cui ogni vita ha preso una via invece che l’altra. Ma questo scavare nelle vite degli altri lo porta inevitabilmente dentro sé stesso, a confrontarsi con i suoi, di mostri.

Tutto proiettato all’esterno è invece l’ultimo lavoro di Vaccari. Un affresco ambiziosissimo che mescola tempi e spazi, privato e politico, dolore e rivoluzione. C’è il passato, le storie della resistenza; c’è un presente ucronico, alternativo; c’è un futuro distopico, egemonizzato da vecchi e nuovi fantasmi. Con coraggio titanico, Urla sempre, primavera evoca tutti gli inevitabili modelli – tanti mostri sacri, forse troppi, dal neorealismo resistenziale alla fantascienza post-apocalittica – e si getta in un corpo a corpo con tutti. Per rendere il tutto ancora più complesso, l’intreccio presenta una molteplicità di linee narrative, e la forma si lancia in sperimentazioni linguistiche. Vaccari, cui si sarà capito non manca il fegato, affronta un problema che mi pare poco considerato nell’ambito della letteratura fantascientifica: ci si immagina di solito un futuro con tutti i suoi dettagli, con tutta una coerenza interna, ma poi si trascura l’aspetto della lingua. Si fanno agire i personaggi con logiche affatto diverse da quella comune, governate da leggi aliene, e poi tutti parlano come parliamo noi oggi: com’è possibile? Vaccari prova a proiettare nel futuro una evoluzione/decadenza del gergo giovanilissimo ipersemplificato e a un passo dal borborigmo animalesco, con risultati interessanti anche se a volte meno convincenti. Sul punto della lingua un’altra che ci prova, con ipotesi meno clamorose ma più coerenti, è Laura Pariani: che parte dalle riflessioni sul dialetto di un Meneghello, per passare attraverso rielaborazioni gaddiane, e finire con l’estremo, il metasemantico à la Maraini (Fosco). La storia mescola post-apocalittico e fantasy, in una trama molto compatta pur nel continuo andirivieni temporale dei capitoli e dei personaggi. Il cuore della narrazione è – altro topos che abbiamo visto anche in Mirabelli – quello delle bambine in viaggio, in fuga. Pariani dice di essere stata mossa a scrivere dalla tragica condizione dei profughi, ma l’intento senz’altro nobile non emerge come vorrebbe e questo, lungi dal tradursi in un difetto, non fa che dimostrare come l’arte vada spesso al di là delle intenzioni dell’artista.

Anche questa seconda parte si chiude con un libro sui generis, diverso da tutti gli altri romanzi visti fin qui. La vicenda narrata da Mauro Maraschi non ha nulla di straordinario, di sovrannaturale; anzi è piuttosto prosaica, pur nella sua teoria di personaggi strampalati, bizzarri eppure così tristemente comprensibili. Straordinario è il modo in cui è raccontata, con un tono piano e distaccato, da relazione, che lungi dal rendere la lettura rilassante introduce un elemento disturbante, sbilenco. (Così come sbilenco, fuori asse, è il titolo, dedicato a una persona nominata solo di sfuggita nel romanzo: quel Rogozov che, unico medico in una base sperduta tra i ghiacci nell’inverno antartico, per salvarsi da un’appendicite si operò da solo. Un uomo, ora che ci penso, il quale si pratica una ferita per entrare dentro sé stesso: ritorna il tema, ritorna la metafora, ritorna la voglia di superarla.) La leggera sensazione di nausea, come un mal di mare, è aumentata poi dal fatto che si tratta di una narrazione di seconda, o di terza mano: un po’ come in W.G. Sebald, il che incrementa il livello di incredulità, di inaffidabilità. Ulteriore stranezza, tutta formale, la presenza di un certo armamentario postmoderno, una serie di elementi che premono per essere calcolati quanto più l’autore prova a spingerli ai margini: in fondo alla pagina (le note, presenti anche in Mirabelli) o addirittura alla fine del libro, confinati nella facoltativa parte delle appendici (ops).

Epilogo: theory fiction

Gianluca Didino, Brucia, memoria (Einaudi)

Ed è quindi inevitabile che si finisca col parlare, che si torni a parlare di theory fiction. Di questa forma ibrida che può indicare varie cose, anche molto diverse tra loro. In questo caso indica un testo di lunghezza intermedia, una via di mezzo tra il saggio e l’articolo longform, o tra il romanzo e il racconto: sono circa 80.000 battute, molto vicine a quelle della novella Maizo. Ibrida quindi anche la forma, e ibrido infine il formato: è uno dei Quanti Einaudi, ebook che sono a metà tra la collana editoriale (sono testi separati, indipendenti come contenuti e come circolazione) e la rivista (sono accomunati dalle stesse tematiche, escono periodicamente a gruppi, tutti insieme).

Didino, già autore del fisheriano Essere senza casa, qui compie secondo me un passo in avanti notevole, e ci regala un piccolo capolavoro. Che parte con una narrazione forse autobiografica, devia verso riflessioni sull’arte e sul senso della tecnica, sugli effetti che ha nelle nostre vite, che ha avuto nella sua vita, e quindi torna a essere fiction, ma con un livello di consapevolezza che sta più in alto. Mi rendo conto che mi sto spiegando male, ma non so come dirlo meglio: la theory non interrompe il flusso narrativo, anzi lo fluidifica, lo alimenta. Si sviluppa una trama mentale, si segue una narrazione del pensiero, che in certi punto fa sembrare il libro un giallo; mette addosso la stessa tensione, la stessa sensazione che da un momento all’altro stia per essere rivelato un mistero. 

Che cos’è la theory fiction? Forse è questo: una storia di tecnologia senza fantascienza, ma piena di fantasmi. I fantasmi delle foto che non abbiamo mai scattato; i fantasmi delle persone che non siamo mai diventati. E che un giorno torneranno indietro a raccontare la nostra storia.


Dario de marco Si occupa principalmente di letteratura fantastica e frittura sostenibile. Il suo ultimo libro è “Storie che si biforcano” (Wojtek, 2021) oppure “Alla ricerca della pizza perfetta” (66thand2nd, 2021)

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