Quello che segue è il terzo canto del Paradiso dantesco, commentato per noi de L’indiscreto da Annalena Benini. Questo articolo fa parte del Commento Collettivo alla Commedia, il nostro progetto utile a rivivere, con l’aiuto di cento firme contemporanee, tutti e cento i canti dell’opera.
IN COPERTINA e nel testo opere di mark laver
di Annalena Benini
Con il contributo di
Allora mi fu chiaro come ogni in cielo è paradiso, dice Dante durante l’incontro con Piccarda Donati, beata fra i beati, anime così trasparenti che sembrano immagini riflesse su un vetro trasparente. Così tenui che Dante si volta per vedere dove siano i corpi, le figure umane, e non vede nulla. E Beatrice sorride di lui, nei suoi occhi benedetti, “per il tuo pensiero infantile”. Dante è in Paradiso ed è come un bambino stupito, ancora non sa che cosa significa e come si esprime la beatitudine, è curioso e fa domande. Ma non è più all’Inferno o al Purgatorio: qui si va fino in fondo alle domande sull’infinito amare ed essere amati, qui non c’è fuoco ma luce. Qui c’è Piccarda, che lui non riconosce proprio a causa della sua beatitudine, a causa di quella beata trasparenza, e che è desiderosa di parlare e di illuminarlo, e che sa di mostrarsi a lui ancora più bella, ma di quella bellezza che non attiene alla vanità del corpo, ma alla luce dell’anima. Piccarda Donati apparteneva a un’importante famiglia fiorentina, era sorella di un amico di Dante, Forse Donati, e di Corso, capo della Parte Nera. Si era fatta suora, perché questa era la sua vocazione, era entrata in convento di sua volontà. “Nel mondo io sono stata una suora”, dice con gioia a Dante. Qui la gioia è grande, qui ci si riposa dalle sofferenze della vita, dagli spasmi delle altre cantiche, qui c’è la piena felicità. La grande consolazione. Dante è confuso, pieno di desideri urgenti, vuole capire: questa gioia, questa trasparenza, questa serenità, come sono possibili? Come gli ha spiegato Beatrice qui ci sono le anime che non hanno adempiuto ai loro voti. Non si trovano nel cielo più alto ma, come dice Piccarda, nel cielo più lento. Lei lo afferma con gioia, con una calma che commuove e che consola. La sua gioia si espande fino a noi, che grazie alla curiosità di Dante scopriamo anche che cosa le è accaduto, perché non ha adempiuto il suo voto. Il modo in cui Piccarda Donati racconta la violenza che ha subito ci fa sentire che cos’è la beatitudine: nessun male può davvero distruggere il bene. Piccarda aveva preso i voti, per seguire Santa Chiara fuggì dal mondo e promise di seguire quella strada monastica. “Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra”. Degli uomini abituati al male più che al bene: con quanto distacco e carità Piccarda descrive i suoi rapitori, probabilmente mandati dal fratello Corso, che la strappano al convento per darla in sposa a un uomo potente contro il suo volere. Contro il suo voto. Contro la sua vocazione. Non dice: li ho perdonati, ma la sua luce l’ha portata lontana da loro, abituati al male. Anche in quella circostanza, Piccarda ha vissuto la carità.
Costretta a vivere fuori dal suo dolce chiostro, costretta a essere la moglie di un uomo nel mondo essendo fuggita dagli uomini e dal mondo per dedicarsi a Dio. Per questo Piccarda non ha potuto restare fedele al suo voto, per questo ha sofferto (“Iddio si sa qual poi mia vita fusi”. Dio sa come fu da allora la mia vita), per questo è adesso nel cielo più lento. E Dante le chiede se non desideri stare più in alto per vedere meglio Dio, per partecipare di più al suo amore: ma la beatitudine non è una questione di gerarchie, non ci sono desideri che non si accordino con la volontà di Dio, risponde tranquillamente Piccarda, la carità soddisfa pienamente la volontà delle anime beate: vogliamo soltanto ciò che abbiamo, non abbiamo bisogno di nient’altro. E’ questa, dunque, la pace: il mare del bene verso il quale si muove tutto. Per questo ogni luogo in cielo è paradiso, per questo Piccarda Donati non desidera niente di più di quello che ha, mentre Dante, ancora umano, non smetterebbe mai di domandare, chiedere, desiderare. Mentre noi non smettiamo mai di domandare, chiedere, desiderare, cercare di capire, voltarci a cercare un volto, stupirci di quel che non sappiamo, di quel che non siamo. Piccarda è beata, trasparente, perfettamente felice dentro la volontà di Dio e dentro quello che Dio ha desiderato per lei. Gli uomini abituati al male non hanno vinto su di lei. Il male non ha vinto su di lei. Tutto è paradiso (almeno in cielo). E Piccarda ora svanisce, come un corpo pesante nell’acqua profonda, cantando l’Ave Maria. Dante la segue con lo sguardo, finché scompare, beata, e allora gli occhi di Dante cercano di nuovo Beatrice, la guida, l’amore, il desiderio più alto e lucente.
Il canto, integrale
Canto terzo, nel quale si tratta di quello medesimo cielo de la Luna e di certi spiriti che appariro in esso; e solve qui una questione: cioè se li spiriti che sono in cielo di sotto vorrebbero esser più sì ch’elli siano.
Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.
Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
“Non ti maravigliar perch’io sorrida”,
mi disse, “appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi”.
E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’ mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga:
“O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte”.
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:
“La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto”.
Ond’io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?”.
Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
“Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face”.
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
“Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù”, mi disse, “a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza”.
Così parlommi, e poi cominciò ’Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
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