Paradiso IV – La serratura della mente

Quello che segue è il quarto canto del Paradiso dantesco, commentato per noi de L’indiscreto da Giorgio Ghiotti. Questo articolo fa parte del Commento Collettivo alla Commedia, il nostro progetto curato da Edoardo Rialti e utile a rivivere, con l’aiuto di cento firme contemporanee, tutti e cento i canti dell’opera.


IN COPERTINA e nel testo opere di Vance Kirkland

di Giorgio Ghiotti


Con il contributo di 


 

A mo’ di bussola

Il IV del Paradiso è un canto di fitto dialogo, di dubbi, di intenso ragionamento teologico e filosofico e di altissima poesia; un canto che non si esaurisce in sé, ma che muove dal precedente e approda al successivo, pure affrontando e sciogliendo alcuni temi fondamentali per la dottrina della Chiesa e per l’intelletto umano. Secondo un classico andamento della Commedia, Dante interroga Beatrice e lei risponde non solo a suo nome, ma a nome insieme suo, dei beati e di Dio. La prima questione affrontata riguarda la sede dei beati, e investe poi le due successive: perché i beati, che risiedono nell’Empireo, si mostrano a Dante nei cieli delle varie stelle? Perché il modo della comprensione del nostro viaggiatore è tutto umano, e va associando ciò che incontra con ciò che già conosce. Incontrare i beati in diversi cieli permette a Dante di figurarsi una costruzione del Paradiso simmetrica a quella del Purgatorio e dell’Inferno. È lo stesso meccanismo per cui, nel tentativo di cogliere e comprendere l’ultra-umano, gli uomini hanno rappresentato gli angeli (puro spirito incorporeo) o Dio con un corpo umano, e due ali nel primo caso. Non tutto però, ammonisce Beatrice, si può raggiungere con la ragione, o con sforzo d’immaginazione; per accettare la giustizia divina, che molte volte può apparire ingiusta agli occhi umani, si può solo far ricorso a un salto nel buio, al salto della fede. La ragione umana può penetrare nelle verità specifiche, ma non in quelle generali di Dio.

Da qui nascono in Dante i due dubbi attorno ai quali si sviluppa il Canto: l’inadempienza del voto a causa della violenza altrui può sminuire il merito di chi non tenne fede? E si può sostituire un voto non adempiuto (un «voto manco») con un’opera di bene? Quest’ultimo dubbio viene lasciato in sospeso da Beatrice che, guardando Dante con occhi pieni di celestiale amore, lo costringe ad abbassare i suoi. Il primo dubbio invece chiama in causa due nomi esemplari, San Lorenzo (che subì il martirio durante la persecuzione di Valeriano contro vescovi, presbiteri e diaconi, venendo arso vivo su una graticola) e Gaio Muzio Scevola (che, avendo sbagliato il colpo che avrebbe ucciso Porsenna, re degli Etruschi che assediavano Roma, consumò la sua mano tra le fiamme per punirla), esempi entrambi della volontà che porta a compimento, pure nelle avversità dei nemici, il proprio voto.

Versi di straordinaria bellezza sono dedicati al problema della responsabilità individuale e del libero arbitrio. Muovendo dal Timeo di Platone, Dante autore ribalta l’idea per cui le anime, morti i corpi, fanno ritorno alle stelle da cui erano discese; sono le stelle, se mai, ad avere sulle anime influssi buoni o cattivi, e tali influssi metterebbero alla prova la debolezza o la forza della loro volontà. Siamo già nel campo del libero arbitrio, della “libertà del volere” (mi si permetta un riferimento poetico a un verso di Patrizia Cavalli: “credo di volere, ma che cos’è che voglio?”). Se non si reagisce al condizionamento delle stelle e della Luna – ch’è causa dell’influsso più temibile, l’incostanza – è perché non si è esercitata davvero, sulla via del bene, la propria volontà.

Quello che segue è qualcosa di meno e qualcosa di più che un commento. È un poemetto modulato sui temi principali del IV Canto del Paradiso, che non vuole porsi come controcanto – non avendone l’altezza e gli strumenti – né come riscrittura. Ha vagamente il ritmo che suggerivano, mentre le rileggevo, le meravigliose terzine dantesche, e si sviluppa sulle suggestioni e i ragionamenti portati avanti da Dante e Beatrice. Alcune terzine, per chi volesse orientarsi tra l’originale e questo poemetto, sono poste ad intervalli tra le strofe: sono da considerarsi parte integrante e fondamentale del lavoro, stelle il cui influsso ha prodotto quel che ha prodotto, e che consegno a voi.

 

*

 

Per questo la Scrittura condescende 

a vostra facultate, e piedi e mano 

attribuisce a Dio e altro intende

Ciò che di me ha la forma 

da me irradia e passa per un punto 

tanto più stretto da lasciare un’orma 

leggera come uccella. Di quella 

prendo il volo, le due ali, la levigata

aria che la innalza; 

della mia nuda specie il corpo e il canto –  

così per sempre l’angelo dispare 

e poi riappare, custode dell’immagine

perenne. 

 

Tre sono i dubbi, il mistero schiude 

la mia vasta comprensione del numero – 

ma è uno spettacolo tanto più grande 

d’uomo o d’animale e impone un salto, 

una chiave di altra natura che questa 

nostra persa, tenerissima, mortale.

 

Parere ingiusta la nostra giustizia

ne li occhi d’i mortali, è argomento

di fede e non d’eretica nequizia

La serratura scatta per la mente 

che tiene a mente quanta poca cosa 

è credersi bastevoli nel niente 

che siamo. A poco a poco stacca dalla roccia 

la ragione, si affida il senso e teso 

a un grande vuoto simula – realtà spiovuta 

dall’immaginazione – la mente del dio, 

la sua giustizia vera e la comprende.

 

Dice che l’alma a la sua stella riede

credendo quindi quella esser decisa

quando natura per forma la diede

La stella mi è compagna e mi raggiunge 

scendendo da altitudini e nel nero 

come pensiero fermo al mezz’agosto 

non so se devo a lei o alla più vasta

inquadratura dentro cui mi immergo 

questa mia storia in cui io vivo e sento

e guido l’animale e mi consegno

ad una volontà che non mi piega, 

che mentre avanza invoca un sentimento. 

La stella mi accompagna, è testimone 

e io la guardo e non mi sento solo – 

ma è dolce inganno ed ogni mia parola 

da me solo proviene, e questo è mio 

supremo compimento di destino. 

C’è una volontà nell’affidare 

ai flussi alle correnti alle maree 

interamente quanto si vorrebbe – 

è credere un dominio, uno splendore 

in cielo, e noi giocare il gioco dell’attore 

fedele unicamente a un canovaccio, a un velo. 

Io sento un laccio spingermi all’altezza,

sono la stella spenta di me stesso.

 

Qui si mostraro, non perché sortita

sia questa spera lor, ma per far segno

de la celestïal c’ha men salita

Mi pare d’avervi tutti qui, amori 

del sempre, custode ognuno di una storia 

che mentre si è compiuta preparava 

il dopo inarrestabile del tempo. 

E ora un poco tutti li confondo 

i nomi degli amanti, ora che 

incontro mi venite dal vostro 

regno d’oro, il mio passato, 

come discendono i beati dall’Empireo 

per accordare loro beatitudine 

all’occhio limitato che comprende. 

Ma l’occhio sta dentro il suo limite 

spingendosi oltre i cieli delle stelle 

cambiando pelle crescendo in una lingua 

che muta possa interrogare l’opera 

divina che nel sogno lo risveglia.

Amori giovani che poesia raduna

così vi costruisco, così vi innalzo 

piccoli altari di memoria in ogni piazza –  

voi siete la materia che è rimasta 

e ancora comprende e ama la mente, 

così voi siete il cielo che mi spiazza. 

 

Se fosse stato lor volere intero,

come tenne Lorenzo in su la grada,

e fece Muzio a la sua man severo

Il fuoco è un esito

di vicinanza abissale – la mano 

che lo tocca ha la purezza 

della fiamma, la stessa 

volontà che non lo inganna. 

Nel fuoco è già compresa la sua fine 

e mentre brucia vive di una vita 

scampata anche a sé stessa, nata

nella quiete di un confine. È volontà 

suprema sapersi salvi e intanto 

andare incontro ad un destino che 

mentre ti innalza brucia la sua pena.

Non si sosta sul limite, giunti qui 

si prosegue nel fitto di un’idea

con una volontà che non si piega 

per me, per te inviolabile. 

Senti le fiamme adesso, impara 

il loro verso, fatti santo e strega,

conquista un io più vasto. 

Essere vivi – e volere –  

è la capacità di un dio. 

 

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi

ai voti manchi sì con altri beni,

ch’a la vostra statera non sien parvi

Gli spazi silenziosi mi riportano 

alle vostre mani, spiriti di niente,

fronde larghe sotto cui stringevo 

patti e voti e il sangue era parola 

che si inventa. Sciolti i nodi, 

cresciuti che eravamo, 

dimenticammo il posto, la promessa, 

l’accordo stretto in villa di nascosto 

da tutta la natura che occhieggiava 

la nostra infanzia magica. Eccoci 

bambini, fuochi nei boschi, sacri 

più dell’acqua alle fontane – 

quanto mancammo allora ora domanda 

beatissime membra dissepolte,

un momento invaso di luce 

o questa pace arresa ad un addio. 

Tutto chiede, consuma e sbuccia il tempo 

ginocchi chiari e smunti volti stanchi – 

ci lascerà procedere tornando 

al cerchio dentro cui stringemmo il giorno

perché concavo il cielo ci rendesse 

la promessa di un’alba, un bronzo di campane. 

Altro c’è stato, e di vero bene – 

ma nulla vale i voti allora manchi.

In tanta perfezione io voglio quella

che vaga nel pensiero per errore 

perché la vocazione maledetta 

è chiusa in me, metafora svanita, 

perfetta soluzione al mio presente – 

perdita infinita, schiusa mente. 

 

 


Il canto, integrale

Canto IV, dove in quello medesimo cielo due veritadi si manifestano da Beatrice: l’una è del luogo de’ beati, e l’altra si è de la voluntate mista e de la absuluta; e propone terza questione del voto e se si puote satisfare al voto rotto.

Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
che liber’omo l’un recasse ai denti
;

sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:

per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d’un modo sospinto,
poi ch’era necessario, né commendo.

Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.

Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando d’ira,
che l’avea fatto ingiustamente fello;

e disse: “Io veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
sé stessa lega sì che fuor non spira.

Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
di meritar mi scema la misura?”.

Ancor di dubitar ti dà cagione
parer tornarsi l’anime a le stelle,
secondo la sentenza di Platone.

Queste son le question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
tratterò quella che più ha di felle.

D’i Serafin colui che più s’india,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,

non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro,
né hanno a l’esser lor più o meno anni;

ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men l’etterno spiro.

Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal c’ ha men salita.

Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.

Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;

e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
e l’altro che Tobia rifece sano.

Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.

Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;

e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.

S’elli intende tornare a queste ruote
l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.

Questo principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a nominar trascorse.

L’altra dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
non ti poria menar da me altrove.

Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi d’i mortali, è argomento
di fede e non d’eretica nequizia.

Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
come disiri, ti farò contento.

Se vïolenza è quando quel che pate
nïente conferisce a quel che sforza,
non fuor quest’alme per essa scusate:

ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco,
se mille volte vïolenza il torza.

Per che, s’ella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
possendo rifuggir nel santo loco.

Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,

così l’avria ripinte per la strada
ond’eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.

E per queste parole, se ricolte
l’ hai come dei, è l’argomento casso
che t’avria fatto noia ancor più volte.

Ma or ti s’attraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
non usciresti: pria saresti lasso.

Io t’ ho per certo ne la mente messo
ch’alma beata non poria mentire,
però ch’è sempre al primo vero appresso;

e poi potesti da Piccarda udire
che l’affezion del vel Costanza tenne;
sì ch’ella par qui meco contradire.

Molte fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
si fé di quel che far non si convenne;

come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
per non perder pietà si fé spietato.

A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
sì che scusar non si posson l’offense.

Voglia assoluta non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
se si ritrae, cadere in più affanno.

Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
de l’altra; sì che ver diciamo insieme”.

Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
ch’uscì del fonte ond’ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio.

“O amanza del primo amante, o diva”,
diss’io appresso, “il cui parlar m’inonda
e scalda sì, che più e più m’avviva,

non è l’affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
ma quei che vede e puote a ciò risponda.

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.

Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

Questo m’invita, questo m’assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
d’un’altra verità che m’è oscura.

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
ch’a la vostra statera non sien parvi”.

Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,

e quasi mi perdei con li occhi chini.


A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


Giorgio Ghiotti (Roma, 1994) vive tra Roma e Milano, dove lavora come editor della casa editrice Fve. I suoi ultimi libri in prosa sono la raccolta di racconti “Gli occhi vuoti dei santi” (Hacca) e il romanzo “Atti di un mancato addio” (Hacca); in poesia, “Alfabeto primitivo” (Perrone), “La via semplice” (Ensemble) e, in uscita a marzo 2022, “Biglietti prima di andare” (Ensemble). Scrive sulle pagine culturali de “il manifesto” e, per l’editore Perrone, dirige la collana di poesia e la rivista di poesia contemporanea “Bezoar”.

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