Quello che segue è il commento al quinto canto del Paradiso dantesco, firmato da Padre Bernardo OSB. Questo articolo fa parte del Commento Collettivo alla Commedia, cioè il nostro progetto sulla Divina Commedia curato da Edoardo Rialti e utile a rivivere, con l’aiuto di cento firme contemporanee, tutti e cento i canti dell’opera.
IN COPERTINA e nel testo
di Padre Bernardo Gianni OSB
Con il contributo di
«Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo. // Questo m’invita, questo m’assicura / con reverenza, donna, a dimandarvi / d’un’altra verità che m’è oscura. // Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, / ch’a la vostra statera non sien parvi». Il canto che si offre alla nostra lettura scaturisce in grande parte dall’esigenza del Poeta di offrire una risposta a questo quesito formulata da Beatrice con un vero e proprio «processo santo» frutto della sua inesausta capacità di accedere ad un «perfetto veder, che, come apprende, / così nel bene appreso move il piede». Tale dinamica, ove la verità è espressa nella tradizionale simbolica della luce e della visione, infiamma anche il «disio» di conoscenza alimentato dall’inesausto dubbio del Poeta che come germoglio cresce perché nutrito da quella infinita energia che Beatrice intravede come vivido riverbero nel suo interlocutore: «resplende / ne l’intelletto tuo l’etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende». In questa dinamica quieta e tuttavia vorticosa di conoscenza, verità e amore la nostra condizione umana pare davvero invitata dalla luce deificante a trasfigurare l’oscuro attrito della incomprensione in scintilla che innesca ulteriore fuoco di chiarificazione e assimilazione alla perfetta perfezione che renda il nostro cuore e il nostro intelletto totalmente capax Dei: «s’altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce», un crescendo comparabile per molti versi agli itinerari dischiusi alla nostra inquietudine e sete di conoscenza dal mistero espresso dalla bellezza di alcuni organismi architettonici quali ad esempio la basilica di San Miniato al Monte, dove il triplice sezionarsi degli spazi (terra, inferi-cripta, coro monastico-Gerusalemme celeste) evoca lo svolgimento della nostra parabola esistenziale che dalla vita su questa terra dovrà immergersi nella oscurità sotterranea della morte (in cripta non a caso si serbano le reliquie di san Miniato) per poi risalire, attratti dalla luce orientale verso cui punta l’abside con le sue tre finestrelle trinitarie, verso l’approdo dell’eterno confondersi della nostra vita nella incessante dossologia melodica che ritma di sé il modularsi del canto di ogni creatura. «Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: “Eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create. Egli è il nostro Dio e nessun altro può essergli paragonato». Così il profeta Baruc (3, 34-36) e così sarà della nostra eterna eternità quando l’«eccoci» auspicato da Dio fin dall’inizio della nostra vicenda sarà finalmente adempiuto dalla obbediente libertà con cui risponderemo al suo liberante e qualificante invito nella gioia di un incessante e armonioso alleluia. Non ci pare incongruo sporgersi su questi affacci escatologici in considerazione degli argomenti del dialogo fra il Poeta e Beatrice: essi hanno a che fare con il dono della libertà, l’interpretazione del voto come promessa che se da un lato vincola il nostro arbitrio dall’altro intende assimilare la nostra fedeltà nell’impegno volontariamente assunto alla qualità dell’alleanza che per infinitezza d’amore Dio stesso stabilisce con noi. Un infinito promettente che interpella la nostra disponibilità a fare della nostra intelligenza, del nostro cuore e della nostra libertà una corresponsabilità degna di quanto Dio intende donare all’uomo e alla donna di ogni tempo. Ravvisiamo anche in questa reciprocità i tratti di quell’altissimo umanesimo di ispirazione evangelica che nel dantesco itinerarium mentis in Deum ci riconsegna nel nome della libertà ad una più profonda consapevolezza di noi stessi con tutto quello che implica il libero esercizio delle nostre facoltà e dunque senza indebite attenuazioni delle nostre responsabilità. Il tema è già stato toccato da Dante nel mirabile dialogo con Marco Lombardo, nel XVI canto del Purgatorio: «Lo cielo i vostri movimenti inizia; / non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, / lume v’è dato a bene e a malizia, // e libero voler; che, se fatica / ne le prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica. // A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura. // Però, se ’l mondo presente disvia, / in voi è la cagione, in voi si cheggia; / e io te ne sarò or vera spia». Là nel Purgatorio la libertà nell’orizzontalità dell’impegno virtuoso a qualificare un «mondo ben così tutto diserto d’ogne virtute», qui nel Paradiso la libertà nella verticalità della relazione col Signore: «Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate / più conformato, e quel ch’e’ più apprezza, // fu de la volontà la libertate; / di che le creature intelligenti, / e tutte e sole, fuoro e son dotate. // Or ti parrà, se tu quinci argomenti, / l’alto valor del voto, s’è sì fatto / che Dio consenta quando tu consenti; // ché, nel fermar tra Dio e l’uomo il patto, / vittima fassi di questo tesoro, / tal quale io dico; e fassi col suo atto. // Dunque che render puossi per ristoro? / Se credi bene usar quel c’hai offerto, / di maltolletto vuo’ far buon lavoro». Se l’uomo liberamente offre con un patto la sua libertà al Creatore che da sempre ama specchiarsi nella sua prediletta creatura col duplice desiderio di trovare nel libero arbitrio il sigillo della sua immagine e della sua somiglianza e di unirsi ad essa col dono dell’alleanza, è evidente per vertiginosa reciprocità divina e umana che nessun accomodamento potrà e dovrà mai alterare le mutue relazioni che innervano di sé la promessa con cui l’umano si solleva verso il divino. Nella presente stagione culturale e sociale, segnata ormai dalla totale scissione fra res e verba in una progressiva dissolvenza che immerge nella nebbia dell’insignificanza il lessico proprio della promessa e la sua forza generativa di futuro condiviso cui si decide liberamente di investire contraendo la propria individuale libertà, potranno sembrare sostanziali vaniloqui gli insegnamenti di Beatrice che con i citati versetti intendeva rispondere al dubbio di Dante: «Tu vuo’ saper se con altro servigio, / per manco voto, si può render tanto / che l’anima sicuri di letigio». Ha giustamente scritto il sociologo Marc Augé: «oggi imperversa nel pianeta un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, Da uno o due decenni a questa parte il presente è divenuto egemonico. Agli occhi dei comuni mortali, esso non è più l’esito del lento evolversi del passato, non lascia più intravedere un abbozzo del futuro possibile, ma si impone come un fatto compiuto, opprimente, che fa dileguare il passato e blocca l’immaginazione dell’avvenire». In un contesto esistenziale di simile impoverimento come possiamo immaginare una riscoperta della qualità creativa, responsabilizzante, trasformativa della promessa? Privi come siamo di speranza e dunque di apertura al futuro quale vantaggio traiamo ad impegnarci noi stessi in prima persona vincolandoci con una promessa? E se anche in un momento di ebrezza relazionale fossimo caduti in questa desueta e quasi improponibile pratica autolesionista, la cultura della dimenticanza è già disponibile, pronta, afferrabile per stendere una pugno di calce viva sul vivo dei nostri più scomodi, ingombranti e obbliganti ricordi. Scriveva il grande teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, “memoria”, altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno “smemorato”, e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile». Non è forse a caso che proprio questo canto ospiti una meravigliosa raccomandazione all’imprescindibile esercizio della memoria per poter considerare integralmente acquisita una data conoscenza. Così Beatrice ai vv.40-42: «Apri la mente a quel ch’io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso». E dunque Dante dovrà ricordare con precisione una duplice ed essenziale distinzione del voto stesso: «Due cose si convegnono a l’essenza / di questo sacrificio: l’una è quella / di che si fa; l’altr’ è la convenenza. // Quest’ ultima già mai non si cancella / se non servata; e intorno di lei/ sì preciso di sopra si favella». Appare evidente che per il Poeta, a riguardo istruito da Beatrice, il patto, la «convenenza» è di fatto inestinguibile, altra cosa è la «materia» del patto stesso, che potrà essere mutata sì, ma non «per suo arbitrio» perché «ogne permutanza» sarà ritenuta «stolta / se la cosa dimessa in la sorpresa / come ’l quattro nel sei non è raccolta. // Però qualunque cosa tanto pesa / per suo valor che tragga ogne bilancia, / sodisfar non si può con altra spesa». Tali severi avvertimenti che censurano senza appello ogni attenuazione dei contenuti promessi nel voto non possono non risolversi in un martellante incalzare di raccomandazioni contro ogni leggerezza di parole scollegate dal cuore, dall’intelligenza, dalla memoria, dal futuro e da tutto quello che costituisce ogni nobile dinamica che fa della promessa non una offesa alla nostra presunta libertà, ma l’esercizio di un altruismo che, eventualmente alleandosi col Signore della Storia e dell’Amore, fa della propria vita una spazio dove l’altro e l’oltre possono prendervi dimora a vantaggio di tutti: «Non prendan li mortali il voto a ciancia; / siate fedeli, e a ciò far non bieci». E ancora: «Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: / non siate come penna ad ogne vento, / e non crediate ch’ogne acqua vi lavi». Rileggere oggi queste antiche parole, lungi dall’essere sterile e nostalgica operazione archeologica, risveglia in noi la consapevolezza di quanti vividi legami generi la dinamica performativa del parlare e del parlarci e di come questi legami, se non vogliono diventare reticoli di una soffocante e offuscante ragnatela, abbiano la vocazione ad essere ponti protesi fra passato e futuro, fra desiderio e realtà, fra intenzione e realizzazione, fra intimità e socialità, lasciando che un ritrovato senso di responsabilità qualifichi sempre più l’altissima nozione di libertà che solo se appaiata alla fraternità, ce lo ricordava Stefano Rodotà, è resa capace di generare autentica uguaglianza. Ed è così, fra laica orizzontalità e mistica verticalità che, sempre alla luce delle dotte ma non meno appassionate distinzioni e precisazioni dantesche, recuperiamo il tema della fedeltà alla parola data e alle promesse sancite illuminandolo con la sapienza profetica di uno splendido pronostico che il Concilio Vaticano, al numero 31 di Gaudium et spes, ha donato alla nostra fame di avvenire e alla nostra sete di giustizia: «si può pensare legittimamente che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza».
Il canto, integrale
Canto V, nel quale solve una questione premessa nel precedente canto e ammaestra li cristiani intorno a li voti ch’elli fanno a Dio; ed entrasi nel cielo di Mercurio, e qui comincia la seconda parte di questa cantica.
“S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ’n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,
non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
Io veggio ben sì come già resplende
ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende;
e s’altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.
Tu vuo’ saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che l’anima sicuri di letigio”.
Sì cominciò Beatrice questo canto;
e sì com’uom che suo parlar non spezza,
continüò così ’l processo santo:
“Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.
Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’ hai offerto,
di maltolletto vuo’ far buon lavoro.
Tu se’ omai del maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
che par contra lo ver ch’i’ t’ ho scoverto,
convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ’l cibo rigido c’ hai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa.
Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.
Due cose si convegnono a l’essenza
di questo sacrificio: l’una è quella
di che si fa; l’altr’è la convenenza.
Quest’ultima già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
sì preciso di sopra si favella:
però necessitato fu a li Ebrei
pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
si permutasse, come saver dei.
L’altra, che per materia t’è aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
se con altra materia si converta.
Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla;
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come ’l quattro nel sei non è raccolta.
Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa.
Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia;
cui più si convenia dicer ’Mal feci’,
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,
onde pianse Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
ch’udir parlar di così fatto cólto.
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.
Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!
Non fate com’agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!”.
Così Beatrice a me com’ïo scrivo;
poi si rivolse tutta disïante
a quella parte ove ’l mondo è più vivo.
Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;
e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno.
Quivi la donna mia vid’io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé ’l pianeta.
E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.
E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.
Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.
“O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s’abbandoni,
del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia”.
Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii”.
“Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se’, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi”.
Questo diss’io diritto a la lumera
che pria m’avea parlato; ond’ella fessi
lucente più assai di quel ch’ell’era.
Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ’l caldo ha róse
le temperanze d’i vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che ’l seguente canto canta.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
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