Quando si parla di paradossi ci si riferisce per lo più a mentitori e tartarughe, ma c’è anche chi, come Escher, i paradossi non li scrive, ma li disegna.
di Francesco D’Isa
Questo articolo è un adattamento tratto da: Paradossi della visione, La costruzione di mondi in N. Goodman ed in M.C. Escher, tesi di laurea in Filosofia di Francesco D’Isa, relatore: Prof. Luciano Handjaras, Università degli studi di Firenze, 2005.
Chi si avvicina a M.C Escher capisce presto di avere a che fare con un autore inusuale. Gli artisti, che più di altri subiscono il fascino della fisiognomica, considerano questo ometto dal viso poco bohème uno scienziato che sa disegnare, mentre gli uomini di scienza, che si innamorano facilmente del suo lavoro, lo reputano un artista che conosce la matematica – sebbene l’olandese abbia ammesso di non capire le interpretazioni algebriche dei suoi disegni. Ma la peculiarità che lo rende difficilmente classificabile non risiede in una supposta interdisciplinarità, quanto nel soggetto della sua arte, ovvero la rappresentazione stessa.
Grazie all’attitudine ad abitare i confini della figurazione, i suoi quadri ci trasportano nell’occhio del ciclone attorno al quale ruota ogni visione del mondo
Nessuno, infatti, illustra con più precisione di Escher l’ambiguità a fondamento di ogni forma linguistica, e, sebbene l’artista condivida con i colleghi la tendenza a demolire le leggi della figurazione, non aspira a sostituirle con delle altre – la cui cura (e distruzione) verrebbe a sua volta affidata alle generazioni successive. Escher preferisce smascherare i meccanismi del linguaggio senza offrire un sostituto, in modo da costringere lo spettatore ad ammirare la nuda incoerenza delle regole. Egli sta alla figurazione come Wittgenstein al linguaggio scritto (e parlato), o Gödel alla matematica, è, insomma, un “pittore dei pittori”, così come Hölderlin era (almeno per Heiddegger) “poeta dei poeti”. Proprio grazie a questa attitudine ad abitare i confini della figurazione, i suoi quadri ci trasportano nell’occhio del ciclone attorno al quale ruota ogni visione del mondo – il che spiega la stranezza di cui si parlava.
Sin dalle primissime opere è evidente l’attenzione dell’autore verso il linguaggio che adopera nel realizzarle. Questa passione, all’epoca in cui era ancora studente in Architettura ed Arte decorativa ad Haarlem, si manifesta nella dedizione con cui si adopra all’apprendimento delle tecniche del disegno: la sua unica meta è la padronanza assoluta degli strumenti e l’unica gratificazione il semplice uso delle proprie abilità. Solo in seguito sente, come dice egli stesso, «cadergli la benda da davanti agli occhi». La padronanza di una tecnica non è più una soddisfazione sufficiente, Escher deve esprimere delle nuove idee, idee che «derivano dalla mia ammirazione e dal mio stupore nei confronti delle leggi che governano il mondo in cui viviamo». Ma l’artista non mette la sua abilità al servizio di queste mirabili leggi, tutt’altro; come il più feroce degli amanti, egli utilizza le proprie capacità per analizzare, esplorare, studiare e finanche dissezionare l’oggetto della sua passione, per ritrovarsi in mano un vuoto impossibile.
Il lasso di tempo che va dal 1922 al 1937 circa è il cosiddetto Periodo dei paesaggi. Nascono opere come Castrovalva (1930, fig.1), un paesaggio montuoso abruzzese ritratto durante un lungo soggiorno italiano. Questa incisone, sviluppata da alcuni schizzi presi sul posto, è una delle sue prime opere che ebbe un concreto successo presso la critica a lui contemporanea, che la definì «…il meglio che Escher abbia fino ad ora mai prodotto… tecnicamente perfetta… Castrovalva risulta, in tutta la sua essenza, bene comune, comprensibile a tutti.». Ma più della perfezione tecnica e della bellezza suggestiva del paesaggio, è interessante notare l’insistenza con cui sono rese le caratteristiche spaziali e prospettiche, come la mulattiera che divide a metà il quadro. Il punto di fuga esasperato concede a questa immagine – apparentemente realistica – una suggestione ulteriore, quasi una breccia sulle medesime tecniche che ne garantiscono l’illusoria verosimiglianza. Castrovalva risulta sì “in tutta la sua essenza, bene comune, comprensibile a tutti”, ma non tanto per l’esecuzione impeccabile, quanto per l’attenzione che Escher focalizza sulle stesse tecniche con cui l’immagine è rappresentata e per la chiarezza con cui il linguaggio che è all’opera nel quadro esplicita le proprie regole.

Ciò che è normalmente dato per scontato viene reso manifesto, come se si assistesse a uno spettacolo di magia in cui il prestigiatore, invece di dissimulare i propri trucchi, volesse segretamente farli scoprire a ogni spettatore abbastanza attento.
In altre opere del Periodo dei paesaggi, anche precedenti a Castrovalva, come ad esempio la Torre di Babele (1928, fig.2) questa attenzione è ancor più manifesta. L’intera scena è osservata, come scrive lo stesso autore, dal punto di vista di un uccello in volo, motivo per cui la prospettiva viene fortemente accorciata verso il basso. Questa rovinosa fuga, che ben si adatta a un soggetto come la torre di Babele, è sottolineata dalle linee orizzontali con cui sono tratteggiate le mura, dando vita a un effetto ottico ai limiti del possibile, la cui facile leggibilità è garantita dall’abitudine dell’osservatore alla lettura di immagini rappresentate in prospettiva. Il tema dell’opera è una scusa per studiare la tecnica; forzando la prospettiva fino a limiti così estremi, Escher ci presenta un quadro dove l’illusione realista non si può scindere dalla consapevolezza di quel che la rende possibile. Ciò che è normalmente dato per scontato in un’immagine verosimile – anche per preservarne la riuscita illusionista – viene reso manifesto, come se si assistesse a uno spettacolo di magia in cui il prestigiatore, invece di dissimulare i propri trucchi, volesse segretamente farli scoprire a ogni spettatore abbastanza attento.

Questa tendenza che Escher manifesta sin dalle prime opere, non si dimostra solo con l’esasperazione dei linguaggi della rappresentazione visiva; egli gioca anche coi soggetti, come in Mano con sfera a specchio (1935, fig. 3), l’opera più celebre tra le tante che ha dedicato al medesimo tema. Si tratta di una figura in cui convivono due livelli di realtà: quello della mano che regge la sfera riflettente e quello del riflesso all’interno della sfera. L’uomo riflesso nella sfera (che ha le fattezze dello stesso Escher) è un livello di realtà “più vero” in quanto si presenta come il soggetto attivo dell’immagine “mano che regge la sfera”. È la sua mano quella che tiene la sfera, in cui viene riflessa assieme a lui e alla stanza in cui si trova. In questo senso la rappresentazione della mano appare come una realtà “meno autentica” che non l’immagine nella sfera. La confusione dei livelli si sbroglia uscendo dal sistema; entrambi i livelli, infatti, in quanto parte dell’immagine, sono elementi della finzione. Rimane comunque uno spaesamento dovuto a questa gerarchizzazione, dato che la stessa immagine denota contemporaneamente sia la “mano che regge la sfera” che “colui che regge la sfera con la mano”. Persino l’identità dello spettatore viene messa in crisi, in quanto si identifica con l’artista mentre si ritraeva all’interno della sfera.
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Escher descrive la sua opera con parole che ricordano le monadi leibniziane o il mito induista della rete di Indra: «Sulla mano del disegnatore c’è una sfera riflettente. In questo specchio egli vede un’immagine molto più completa dell’ambiente circostante, di quella che avrebbe attraverso una visone diretta. Lo spazio totale che lo circonda – le quattro pareti, il pavimento e il soffitto della sua camera – viene infatti rappresentato, anche se distorto e compresso, in questo piccolo disco. La sua testa, o più precisamente, il punto fra i suoi occhi, si trova nel centro. In qualsiasi posizione si giri, egli rimane il punto centrale. L’ego è invariabilmente il centro del suo mondo.». Come vedremo più avanti, questa gerarchizzazione in diversi livelli di realtà si evolverà in una forma “intrecciata” in opere successive, come Mani che si disegnano (1948, fig. 10) o Galleria di stampe (1956, fig. 11).
Per la composizione di Mano con sfera a specchio Escher è stato probabilmente suggestionato dal ricordo di famose opere di maestri del passato, quali Jan Van Eyck (Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434), Petrus Christus (Un orafo nella sua bottega, 1449) e Parmigianino con il suo Autoritratto allo specchio convesso, 1523/24. Ma nel ricercare dei precursori il caso più celebre in cui l’autore del quadro viene rappresentato nell’atto di dipingere il quadro stesso sono le Las Meninas di Velazquez (1656, fig. 3b). Si tratta di un ritratto collettivo della famiglia del re di Spagna, Filippo IV, e di alcune persone a loro vicine, tra cui lo stesso Velazquez. L’originalità del quadro risiede nel ribaltamento del punto di vista: nei ritratti in genere l’immagine è presentata da quello di chi dipinge (il pittore), ma in questo caso, grazie al sapiente uso degli specchi da parte dell’artista, ciò che vediamo è l’immagine osservata da chi è dipinto (i sovrani in posa). È facile pensare che la parete alle spalle dei due sovrani (cioè quella dietro di noi, se fossimo nel quadro) sia occupata da un grande specchio, dove il pittore vede riflessa l’immagine che sta componendo sulla tela che ha dinanzi (e che noi vediamo parzialmente di spalle); un’immagine che corrisponde proprio al quadro che stiamo osservando. Sulla parete in fondo, un altro specchio, in una pesante cornice nera, ci rimanda la figura dei due sovrani, Filippo IV e sua moglie Marianna d’Austria. Uno sguardo più attento però rivela un ulteriore infittirsi dei livelli di realtà; attraverso un’attenta analisi della prospettiva nel quadro, infatti, si scopre che lo specchio non riflette i sovrani in posa, bensì il ritratto che sta dipingendo il “Velazquez nel quadro”, ed è dunque il riflesso di una figura invisibile contenuta nel dipinto.

Nel periodo successivo a quello dei paesaggi, il Periodo delle Metamorfosi (1937-1945), Escher porta avanti il suo percorso con maggiore chiarezza e precisione. I livelli di realtà che convivevano in opere come Mano con sfera a specchio, sono adesso irriducibili. Nelle opere di questo periodo c’è ancora la compresenza di due o più mondi, ma si tratta di mondi che non possono essere visti contemporaneamente; l’uno scaccia l’altro, così come la notte scaccia il giorno (e viceversa). È quanto avviene, non solo metaforicamente, nella stampa Giorno e notte (1938, fig. 4).

C’è ancora la compresenza di due o più mondi, ma si tratta di mondi che non possono essere visti contemporaneamente; l’uno scaccia l’altro, così come la notte scaccia il giorno (e viceversa).
In quest’opera due direttrici consentono a una visione di sfumare nell’altra: l’inversione tra figura e sfondo e il mutamento di una figura da bidimensionale a tridimensionale (apparentemente tridimensionale, dato che l’immagine nel quadro non può esserlo). Se osserviamo l’opera da destra verso sinistra, noteremo degli uccelli neri che volano sullo sfondo di un cielo diurno, ma mano a mano che ci approssimiamo all’asse centrale del quadro i ruoli vanno invertendosi, così gli uccelli neri (figura) diventano un cielo notturno (sfondo) e il cielo diurno (sfondo) si trasforma in uno stormo di uccelli bianchi. Proseguendo dall’alto verso il basso, invece, lungo l’asse centrale del quadro, noteremo come le sagome degli uccelli perdono progressivamente la propria silhouette, per trasformarsi, nella fascia più bassa, in quadrati visti in prospettiva, parte integrante del paesaggio. Due caratteristiche importantissime alla base della lettura di un’immagine, la percezione di un elemento come figura o sfondo e quella della tridimensionalità, si alternano senza mai fornire un appiglio per una visone univoca. Non c’è una visione autentica, più vera dell’altra, così come non è possibile vedere l’immagine contemporaneamente in entrambi i modi; il quadro ci accompagna, col suo progressivo mutare, a scorrere senza posa da una visione all’altra.

Nel pannello Metamorfosi II, il più esemplare di questo periodo, siamo invitati a un pellegrinaggio la cui fine coincide con l’inizio (la parola metamorphose), mentre le immagini mutano incessantemente sotto i nostri occhi in un caleidoscopio tra figura e sfondo, due e tre dimensioni. Quest’altalena dello sguardo che caratterizza il periodo delle Metamorfosi, dove l’occhio viene sbalzato senza sosta da un’interpretazione all’altra, somiglia a una catarsi della visione, che si spoglia dei filtri abituali per cogliere un fuggevole assaggio del vuoto che sottostà a ogni immagine.
Dal 1946 si ha il cosiddetto Periodo dei quadri di prospettiva, che durerà fino al 1955 circa. In questa fase Escher manifesta il suo interesse per semplici figure spaziali geometriche, per esempio poliedri regolari, spirali spaziali, anelli di Moebius. L’origine di questo interesse risiede nell’ammirazione di Escher per le forme cristalline esistenti in natura, probabilmente alimentato dal fratello, un professore di geologia che aveva scritto un manuale scientifico di mineralogia e cristallografia.
Escher manifesterà in modo molto esplicito questa passione in lavori come Planetoide tetraedrico (1954, fig. 7) e in altre opere dal tema analogo. Ancora una volta diversi mondi si affollano in un’unica immagine, ma la fusione è radicale e spiazzante. Diversamente dalle Metamorfosi, una lettura non ne scaccia un’altra, ma due letture diverse si propongono seguendo le stesse regole (quelle della prospettiva) con risultati e valori diversi. Il Planetoide tetraedrico è un mondo unico, ma nel percorrerlo offre un punto di vista sempre nuovo su se stesso, come se in un unico sguardo volesse rivelarci tutto quello che nasconde, al pari dell’Aleph dell’omonimo racconto di J.L.Borges. La medesima chiave di lettura viene applicata in modo inusuale, la densità aumenta vertiginosamente e il piccolo pianeta riesce a concentrare in sé zone viste dall’alto, di fronte, di scorcio e via dicendo.

Questa pluralità di letture che sfumano l’una nell’altra pur restando all’interno delle medesime regole interpretative è ancor più manifesta in uno dei capolavori di questo periodo, Sopra e sotto (1947, fig. 8). Così lo descrive Escher: «In questo disegno ricorre due volte la stessa rappresentazione, vista però da due punti di vista diversi. La metà superiore mostra la vista che avrebbe un osservatore trovandosi all’altezza del terzo piano. La metà inferiore, invece, mostra la scena che egli vede stando al pianterreno. Se da tale punto volge lo sguardo verso l’alto vede, ripetuto come soffitto al centro della composizione, il pavimento di piastrelle sul quale si trova. Il soffitto funge, a sua volta, da pavimento per la scena superiore. Questa superficie di piastrelle è ripetuta ancora una volta nella parte più alta, qui però esclusivamente come soffitto.».
Con un senso di vertigine sicurezze e riferimenti si dimostrano contemporaneamente aleatori e necessari: per quanto sopra e sotto possano alternarsi, è impossibile non scegliere una delle alternative.
Osservando questo pannello dall’alto verso il basso, o viceversa, il sotto diventa sopra e il sopra sotto, in una progressiva trasformazione che ha come fulcro il centro del quadro. In questa zona, che può fare sia da pavimento che da soffitto, la lettura dell’immagine cambia radicalmente. Per ottenere due mondi inconciliabili non è necessario un ribaltamento estremo come quello del periodo delle metamorfosi (figura/sfondo, bidimensionalità/tridimensionalità); senza discostarsi di tanto dal suo registro stilistico, infatti, l’immagine offre allo sguardo due direzioni opposte. Questo “sopra e sotto” è contemporaneo nel quadro ma non può esserlo nella percezione, a cui non resta che slittare da una lettura all’altra. Con un senso di vertigine sicurezze e riferimenti si dimostrano contemporaneamente aleatori e necessari: per quanto sopra e sotto possano alternarsi, è impossibile non scegliere una delle alternative.

Le uniche opzioni al di là dell’incessante scelta obbligata, sono l’accettazione del non-senso dell’immagine, in cui sia il sopra che il sotto perdono il loro valore, o la creazione di un nuovo senso, dunque di una terza possibilità, che in seguito prenderà parte all’altalena dei significati. Si potrebbe, ad esempio, interpretare l’opera come “rettangolo ricoperto di inchiostro nero” oppure “la stampa che ci è stata regalata al compleanno”. In questo caso la scelta oscillerà tra “sopra”, “sotto”, “rettangolo ricoperto di inchiostro nero”e “la stampa che ci è stata regalata al compleanno”.
Osservando il celebre Relatività (1953, fig. 9), si potrebbe dire che Escher esplicita definitivamente la poetica di questo periodo: «Qui coagiscono perperdicolarmente tre livelli di forza di gravità. Tre superfici terrestri, su ognuna delle quali vivono degli uomini, s’intersecano ad angolo retto. Due abitanti di due mondi diversi non possono vivere sullo stesso pavimento, poichè non hanno lo stesso concetto di ciò che è orizzontale e di ciò che è verticale. Ciononostante possono usare la stessa scala. Sulla scala superiore procedono due persone, una accanto all’altra, nella stessa direzione. Evidentemente è impossibile che queste persone entrino in contatto perché vivono in due mondi diversi e, per questo, l’uno non è a conoscenza dell’esistenza dell’altro.».

Si provi a seguire passo passo la didascalia dello stesso autore, azzardando un parallelismo tra gli abitanti senza volto di Relatività e lo spettatore del quadro. Escher ci dice che «due abitanti di due mondi diversi non possono vivere sullo stesso pavimento, poiché non hanno lo stesso concetto di ciò che è orizzontale e di ciò che è verticale». Anche l’osservatore, in base al punto di vista che farà proprio nel leggere l’immagine, vedrà come sopra e sotto di questo edificio impossibile quello che percepirebbe uno degli uomini senza volto; qualora si adotti un punto di vista inconciliabile al primo però (quello di un altro tra gli uomini senza volto) la lettura dello spazio nel quadro si ribalterà.
Gli inquietanti abitanti di Relatività, per quanto sia «impossibile che entrino in contatto perché vivono in due mondi diversi […] possono usare la stessa scala». Ancora una volta accade che i mondi simultanei nel quadro non possano esserlo nella percezione, ma questo non impedisce agli uomini senza volto di usare la stessa scala: i due mondi di Relatività infatti, per quanto inconciliabili, parlano lo stesso linguaggio, sono “fatti” della stessa materia. Queste scale, in qualunque direzione vengano percorse, restano comunque delle scale. Perché ciò accada però, il quadro deve essere letto in entrambi i casi attraverso le leggi rappresentative della prospettiva.
Questi paradossi della visione sono buchi del linguaggio dentro ai quali è impossibile cadere, perlomeno finché si rimane al suo interno.
Nella descrizione che Hofstander fa di questo quadro, le scale sono definite “isole di certezza” su cui basiamo la nostra interpretazione di tutto il quadro. Una volta che le abbiamo identificate, tentiamo di estendere la nostra comprensione cercando di riconoscere in che rapporto esse stiano tra loro. È a questo punto che, come scrive sempre Hofstander, «cominciano i guai». Ma se tentassimo di tornare sui nostri passi, cioè di mettere in discussione le “isole di certezza”, avremmo guai di altro tipo. Non c’è modo di tornare indietro e ritrattare la nostra decisione che si tratta di scale. Non sono pesci, né fruste, né mani; sono proprio scale. Così siamo costretti dalla natura gerarchica dei nostri processi percettivi a vedere o un mondo folle o un semplice insieme di linee prive di senso.
L’ultimo periodo, quello delle approssimazioni all’infinito e degli oggetti impossibili, va dal 1955 al 1970 circa. Specialmente in quest’ultima categoria di opere, il percorso di Escher si manifesta in tutta la sua forza e diventa una vera e propria rappresentazione di paradossi. Il suo percorso creativo, lungo il quale ha imparato a padroneggiare le regole del linguaggio visivo, lo porta in quest’ultima fase a metterne allo scoperto le invisibili giunture strutturali. Questi paradossi della visione sono buchi del linguaggio dentro ai quali è impossibile cadere, perlomeno finché si rimane al suo interno. Grazie all’opera dell’artista la visione esplora i suoi limiti dall’interno, parlando la stessa lingua di cui va a delineare i confini; l’unico modo per sciogliere la contraddizione è uscire dal sistema, cosa che non sempre è possibile.

Prendiamo a titolo d’esempio l’analisi che propone Hofstander di un’opera che non fa ancora parte del periodo delle approssimazioni all’infinito, le Mani che si disegnano (1948, fig. 10), ma che può servire da utile prologo. Qui, scrive l’autore, una mano sinistra (MS) disegna una mano destra (MD), mentre contemporaneamente MD disegna MS. Ancora una volta, dei livelli che di solito sono gerarchici, quello che disegna e quello che è disegnato, si ripiegano l’uno sull’altro. Ma dietro l’immagine si nasconde la mano non disegnata ma disegnante di Escher, creatore sia di MD che di MS. Escher è fuori dallo spazio delle due mani, è il livello inviolabile che permette l’esistenza del disegno. Si potrebbe “escherizzare” ulteriormente l’immagine prendendo una foto di una mano che disegna Mani che disegnano, e così via.
Un quadro di questo periodo, Galleria di stampe (1956, fig. 11), pur nella sua maggiore complessità, è per certi versi analogo a Mani che disegnano. Si legga anche a questo proposito, l’analisi che ne propone Hofstander: egli descrive l’opera in vari diagrammi, sempre più concentrati.

In un primo diagramma (i.) indica tre livelli diversi di realtà: la galleria è fisicamente nella cittadina (“inclusione”); la cittadina è artisticamente nel quadro (“figurazione”); il quadro è mentalmente nella persona (“rappresentazione”). In seguito elimina il livello della “cittadina” (ii.), creando un rapporto simile a quello di Mani che disegnano, in cui la Galleria è raffigurata nel Quadro che a sua volta è incluso nella Galleria, creando un diagramma simile ad una coppia di enunciati ciascuno dei quali si riferisce all’altro. In un altro diagramma (iii.) riduce il rapporto ad un solo componente, in cui il Quadro è incluso e raffigurato in se stesso, quasi un’ alternativa visiva al noto paradosso di Epimenide.
L’ osservatore del quadro invece, essendo fuori dal sistema, non precipita in questo vortice. A trattenerlo è anche la firma “MCE” al centro dell’immagine, in quella zona che il pittore non avrebbe potuto completare senza essere incoerente rispetto alle regole secondo le quali stava dipingendo il quadro.

Uscire dal sistema in questo caso è relativamente semplice, aiutati come siamo dallo stesso Escher con la sua firma, ma in opere come Belvedere (1958, fig. 12) diventa più difficile. L’inganno di questo mondo impossibile si basa sulla rappresentazione stessa di una figura tridimensionale su una superficie bidimensionale; finché si rimarrà nell’ambito della bidimensionalità (quindi nella lettura del quadro) sarà impossibile eliminarne l’ambiguità.
Escher stesso ne dà un’ interessante descrizione: «In basso a sinistra, in primo piano, c’è un foglio di carta sul quale sono disegnate le linee di un cubo. Due cerchi indicano i punti nei quali si intersecano le linee. Quale delle linee si trova davanti e quale dietro? In un mondo tridimensionale non possono esistere davanti e dietro contemporaneamente, quindi non possono neanche venir così rappresentati. Si può però disegnare un oggetto il quale, visto dall’alto, ci ridà un’altra realtà, diversa da quella vista dal basso. Il ragazzo sulla panca ha in mano una simile assurdità cubica. Egli osserva pensieroso l’oggetto incomprensibile ed evidentemente non sa che il belvedere alle sue spalle è stato costruito allo stesso impossibile modo.».
Un mondo tridimensionale come quello di Belvedere non può esistere se non nel quadro, dove, creando l’illusione di tridimensionalità, Escher gioca con i limiti del proprio strumento.
Per rimanere nel linguaggio è necessario accettarne l’incoerenza, per scioglierla è necessario uscirne.
La fig. 13 mostra un modello di quello che il belvedere di Escher potrebbe essere nella realtà: un edificio del genere, visto da una certa prospettiva e con una certa illuminazione, potrebbe creare un’illusione analoga a quella del quadro di Escher; si tratta però di un illusione dalla vita breve, basta infatti spostarsi di qualche centimetro per scoprire la natura del bizzarro edificio, cosa che non possiamo fare con l’opera di Escher, che ci offre solo un punto di vista sulla scena. Anche nel caso del quadro il nostro sguardo cerca vari indizi per ricostruire il senso dell’immagine, ma non potendo “girare attorno” al Belvedere, siamo costretti a cedere all’illusione.

La situazione è simile in altre opere di Escher di questo periodo, come Salire e Scendere (1960) e Cascata (1961). Uscire dall’ambiguità vuol dire in questo caso rinunciare al linguaggio utilizzato (quello visivo). Riconoscendo che ogni tridimensionalità in un quadro è puramente illusoria, gli edifici cedono assieme al loro inganno, ma l’immagine perde il suo senso, e con lei tutte le immagini che rappresentano uno spazio in tre dimensioni. Questa scappatoia di sapore Zen è difficilissima da percorrere. Uscire dal sistema in questo caso significa renderlo inutilizzabile, ed è molto difficile vincere un’abitudine ben radicata come quella della lettura di immagini tridimensionali. Per rimanere nel linguaggio è necessario accettarne l’incoerenza, per scioglierla è necessario uscirne. Si tenga presente però che “uscire dal linguaggio” in questo caso significa uscire da una sottocategoria (per quanto importante) del linguaggio visivo: l’immagine può sempre essere letta come macchie grigie su un foglio, opera astratta, ecc.
Ogniqualvolta che si “esce dal sistema”, infatti, è facile trovarne un altro pronto ad accoglierci, anch’esso con le sue regole e contraddizioni. Uscire dal sistema di tutti linguaggi, qualora fosse possibile, è un’esperienza incomunicabile e per definizione non analizzabile all’interno di uno di essi.

Tornando a Escher, si potrebbe concludere questo breve percorso immaginando la xilografia Drago (1952, fig. 14) come il vessillo della sua poetica, quasi fosse l’unico emblema araldico degno dell’autore. Egli scrive: «Nonostante il drago faccia grandi sforzi per raggiungere una dimensione spaziale, rimane un’immagine piatta. Nella carta sulla quale è stampato sono stati fatti due tagli. Poi è stata piegata in modo che ci fossero quattro fori quadrati. Ma questo drago è un animale ostinato, nonostante le sue due dimensioni persiste nel volerne avere tre; per questo infila la testa in un foro e la coda in un altro.». Il drago si affatica nel combattere la propria bidimensionalità, ma noi che siamo all’esterno del disegno possiamo riconoscere la vanità dei suoi sforzi. I fori e le pieghe sono simulazioni bidimensionali di quei concetti e il povero drago, anch’egli parte di questa categoria, non potrà mai uscire dal sistema dello spazio bidimensionale che, pur confinandolo, lo definisce. Lasciando Escher per un attimo e guardando per un istante all’opera di Lucio Fontana, potremmo leggere nei suoi concetti spaziali uno sforzo, purtroppo votato al fallimento, di “liberare il drago”; per quanto la tela si possa squarciare, forare e tagliare, resta destinata ad accogliere uno spazio illusorio. Se anche si tagliasse la xilografia Drago lungo i fori da cui il drago tenta di uscire, non riusciremmo a liberarlo. D’altra parte non dovremmo compatirlo, né tantomeno ostentare superiorità, perché anche noi non ci limitiamo a combattere l’inganno, ma lo abitiamo.
[…] Aggiornamento: 21/11/2016 Paradossi della visione: L’arte di M.C.Escher […]
[…] Su L’indiscreto un articolo esteso che parla di M.C. Escher e del suo percorso artistico in cui la matematica, spesso, s’intreccia con l’arte. L’estensore è Francesco D’Isa, noto artista grafico dei connettivisti e che su Escher ha basato la sua tesi di laurea. Un estratto: […]