C’entra una moda, un verme, e la leggenda di un colonnello americano, Robert Gibbon Johnson.
IN COPERTINA e nel testo, Tomato and Abstraction, 1982 – Roy Lichtenstein
Questo testo è un estratto da I dieci pomodori che hanno cambiato il mondo di William Alexander, ringraziamo Aboca per la gentile concessione.
di William Alexander
All’inizio, i pomodori non trovarono buona accoglienza neppure sul territorio americano, dove c’erano persone che, anche senza aver evocato gli spiriti di Ippocrate e Galeno, li credevano velenosi, mentre altri si limitavano a non gradirne il sapore. L’“Horticulturist” li bollò come bacche “odiose e dall’odore repellente”. “Un’assoluta schifezza” concludeva, nel 1836, il “Florida Agriculturist”. “American Farmer” arrivava a concedere che, anche se il gusto iniziale poteva essere sgradevole, non c’era da preoccuparsi, ci si abitua, alla fine, anche ai sapori sgradevoli, se si comincia a mangiare quello che ci ripugna. Ralph Waldo Emerson parlava a nome della maggioranza dei suoi concittadini del New England, quando dichiarava che quello del pomodoro era un gusto acquisito, ma fu Joseph T. Buckingham, fondatore e proprietario del “Boston Courier” ad avere l’ultima parola, quando, nel 1854, li definì
semplici funghi di una pianta offensiva, che non è possibile toccare senza far seguire un’immediata applicazione di acqua e sapone con un’infusione di eau de cologne, per purificare e lenire le mani – pomodori, i fratelli gemelli di tutte le inacidite e putrescenti crocchette di patate – liberatecene! O voi, ristoratori di raffinata eleganza! Voi, dei e dee dell’arte della cucina! Liberateci dai pomodori!
Stranamente, questa invettiva è seguita dalla proposta di due ricette.
Le colonie erano abbastanza vicine al Messico, ma è molto probabile che i primi pomodori le abbiano raggiunte solo dopo un contorto circuito, che comprendeva ben due traversate atlantiche: dal Messico alla Spagna prima, e poi ritornando in America settentrionale, dove le piante furono coltivate negli insediamenti spagnoli che occupavano le odierne Georgia e le due Carolina. Può darsi che ne siano arrivati anche dai possessi della Spagna nei Caraibi, nei bagagli di qualche colono inglese che ancora li chiamava mele d’amore. Anche se, considerando la lentezza della loro accoglienza in Inghilterra, dove erano ancora decisamente impopolari nel corso del Settecento, a differenza di quanto avvenne in Spagna o in Italia, non è facile capire perché mai un colono inglese avrebbe dovuto far posto, tra i preziosi beni custoditi nel suo bagaglio di sola andata, anche ai semi di pomodoro. In ogni caso, l’impopolarità seguì i pomodori nel loro passaggio dall’Inghilterra alla nuova Inghilterra, il New England, dove mi sono recato, con mia moglie Anne, per vedere l’oggetto di tale irrisione: la prima rappresentazione a noi nota di un pomodoro nell’arte americana.
Raphaelle Peale, figlio maggiore del celebre ritrattista Charles Willson Peale (i fratelli di Raphaelle, tutti educati per divenire pittori, sono stati chiamati Rembrandt, Titian e Rubens), fu uno dei primi pittori di nature morte d’America. La sua Natura morta con frutta e vegetali, appesa a una parete, senza troppe cerimonie, in una piccola galleria del Wadsworth Atheneum Museum of Art a Hatford, Connecticut, è una delle prime nature morte dipinte in America. Vi si vede, in posizione frontale e centrale, un pomodoro, rosso e maturo.

“Sembra un Brandywine”, dice Anne.
-->Sto per ribattere che questo frutto deforme e rigonfio non somiglia a niente del genere, quando capisco che la somiglianza si riferisce a uno dei miei malformati Brandywine. Uno a zero per te, Anne.
“O forse un peperone rosso”, aggiunge, notando le grosse costole rigonfie che si alzano ben oltre il gambo. Ci stiamo avvicinando al bersaglio: ci sono già stati, infatti, all’inizio, critici d’arte che hanno pensato alla solanacea sbagliata.
Ma, soprattutto, mi pare straordinaria la somiglianza col pomodoro raffigurato sul fregio che incornicia le porte della cattedrale di Pisa, il che significa che, dopo due secoli di presenza in Europa, il pomodoro era ancora un frutto frammentato e costoloso, che somigliava ben poco alla sua versione moderna. Ma questa non è la sola cosa che attira la mia attenzione.
Che cosa ci fa, chiedo a Erin Monroe, curatrice del museo, un pomodoro in questo quadro, accanto a un grappolo d’uva, una pesca e tre carote, insomma a vegetali e frutta di uso comune? Peale era di Philadelphia ed è impossibile che abbia potuto mangiarvi un pomodoro nel 1795, che è la data attribuita al quadro nella targhetta informativa che lo accompagna.
“Adesso, qui la cosa è interessante”, dice lei, sfogliando le sue informazioni. “Perché, dal momento in cui il quadro è stato preso in carica dal museo [1942], ci sono state piccole modifiche nella datazione. Le prime ricerche avevano fatto credere che non si potesse risalire oltre il 1810. Ma qui vedo che uno dei miei predecessori ha corretto la data, abbassandola al 1795”.
Che cosa? Siamo onesti… io non saprei distinguere un Peale nemmeno se lo volessi, ma il mio polso accelera il battito al pensiero di vedere il mio nome apparire sulla targhetta (“In virtù della consulenza di William Alexander, nuova datazione in anno non anteriore al 1810”). Posso ben immaginare che ci sia stata qualche giustificazione, biografica o di altro tipo, per questa retrodatazione al XVIII secolo (anche se l’operazione portava a vent’anni la distanza temporale con la successiva natura morta di Peale), ma, parlando in termini di pura storia botanica, il 1810 è una datazione più solida, perché, in tutto il periodo precedente, il consumatore più appassionato del pomodoro, nel Nordest americano, era stato il bruco della Manduca quinquemaculata, noto anche come ‘verme del pomodoro’.
Creatura realmente temibile, che si nutre avidamente di frutta e fogliame, questo bruco dalle dimensioni di un dito umano (il che ne fa uno dei più grandi del Nord America) esibisce sulla coda un corno minaccioso e si serve delle sue variegate tonalità di verde per occultarsi nel fogliame, sino a quando – lungi da me – non gli si va abbastanza vicino col viso per cogliere un pomodoro. A causa del suo aspetto terrificante ha la fama di essere anche pericoloso. Nel 1838, Ralph Waldo Emerson lo ha descritto come “fonte di grande terrore, essendo comunemente ritenuto velenoso e anche in grado di trasmettere tossicità a quei frutti sui quali si trovasse a strisciare”. Questa reputazione di minacciosa tossicità si protrasse sino agli anni sessanta dell’Ottocento, quando lo “Ohio Farmer” riportava il caso di una ragazza “morta in una terribile agonia” dopo essere stata punta dall’insetto. Il “Syracuse Standard”, contemporaneamente, lo definiva “velenoso come un serpente” e affermava che fosse in grado di sputare la sua saliva tossica sino a due piedi di distanza. In realtà, questa creaturina è per noi umani innocua, nella stessa misura in cui ci appare repellente.
Nel Sud, dove la popolazione ha una certa familiarità col cugino tabagista del verme del pomodoro, ossia la sfinge del tabacco, bruco della Manduca sexta, si era indubbiamente meno schizzinosi e pavidi, sicché, alla metà del Settecento, si potevano incontrare pomodori in tutto il territorio, e dall’inizio dell’Ottocento anche in Virginia. Thomas Jefferson iniziò a coltivarli, e a mangiarli, a Monticello, Virginia, nel 1809. Questa prima accoglienza sudista del pomodoro viene spesso attribuita all’influenza degli schiavi (compresi naturalmente i cuochi dei proprietari terrieri) che dovrebbero o potrebbero averli mangiati nelle isole caraibiche dove avevano transitato nella tratta. Raphaelle Peale era un appassionato e attento viaggiatore, mi ha detto Erin Monroe, pertanto potrebbe avere mangiato pomodori nel Sud (o anche in Messico, o nei Paesi sudamericani da lui visitati), la qual cosa spiegherebbe la presenza del frutto sulla tela, in compagnia di uva e carote.
Ma come hanno fatto, i pomodori, a muovere dalla tavolozza di Peale alla tavola della cena degli americani, a passare dall’essere giudicati “odiosi e repellenti” all’essere coltivati per dodici mesi all’anno? C’è una storia (che evidentemente è riuscita a raggiungere anche il Museo del pomodoro) che celebra una particolare giornata, il 26 settembre del 1820, in cui il pomodoro ha fatto il salto decisivo dal vaso dei fiori alla tavola imbandita per cena. È il momento in cui il colonnello Robert Gibbon Johnson, di Salem, New Jersey, sarebbe, a quel che si narra, salito su, per tutta la scalinata che portava all’ingresso del locale tribunale, sino alla sommità, dove, destando un irreprimibile orrore tra la folla radunata in basso, si sarebbe divorato un intero cesto pieno di quelli che chiamerei “pomodori del Jersey”, per provare alla nazione che questi non erano solamente del tutto innocui per la salute umana, ma anche deliziosi.
Per vedere veramente fino al fondo del cesto – ossia per apprendere qualcosa in più sull’intrepido colonnello – mi sono recato a Salem, in occasione del bicentenario della dimostrazione sulla scalinata, per incontrarmi con i membri della Società storica locale. Ci siamo riuniti, coerentemente, presso la cripta di Johnson, nel cimitero della chiesa episcopale di St. John, a un solo isolato di distanza dal famoso tribunale, all’ombra di un immenso campanile, la cui altezza non pareva inferiore alla lunghezza complessiva dell’intera cittadina. Tale monumentale costruzione, però, non appartiene alla chiesa già citata, ma all’adiacente chiesa presbiteriana, nella quale è appeso un ritratto di Johnson. La sua immagine dà l’idea di un uomo la cui pazienza fosse già sul punto di cedere, tanto che, quando il tumulto interno ne fuoriuscì, esplodendo in una rovente disputa con gli episcopali, l’iroso colonnello offrì i fondi per l’edificazione di una concorrente chiesa presbiteriana, proprio lì accanto, preoccupandosi anche di stimolare la crescita del campanile presbiteriano, con la promessa dell’aggiunta di un dollaro per ogni piede d’altezza in più rispetto alla torre rivale.
Guardando dal basso, qui, si ha l’impressione che non abbia buttato via il suo denaro.
Johnson, che aveva ereditato una fortuna e ne aveva sposata una ancora più grande, era uno dei maggiori proprietari terrieri e un avido orticoltore, fondatore della Società di orticoltura del New Jersey. Era anche un proprietario di schiavi, essendo stato il New Jersey l’ultimo degli Stati settentrionali a proibire la schiavitù.
Salem ha celebrato a lungo le gesta del colonnello sui gradini del tribunale, istituendo, negli anni ottanta del secolo scorso, il Robert Gibbon Jonhnson Day, corredato da attori in abiti d’epoca, gare tra produttori di pomodori, torte di pomodori e una serie di T-shirt con un fumetto del colonnello Johnson, disegnato in abiti coloniali e con la testa a pomodoro e un largo sorriso, davanti al tribunale. Il programma della ABC Good Morning America si incaricò delle riprese dell’evento nel 1988, con un visitatore che se ne uscì con una notizia completamente nuova, attribuendo al colonnello il titolo di primo americano che abbia mangiato un pomodoro, cosa che avrebbe certamente sorpreso Thomas Jefferson.
Il festival decadde e scomparve nel giro di pochi anni, ma in questi giorni mi aspetto che ci possa essere una qualche cerimonia per il bicentenario: almeno un paio di aficionados del pomodoro che vadano in giro scattando foto. In caso contrario, sono pronto a provvedere personalmente a una ripetizione celebrativa dell’evento, presentandomi dinanzi a quello che è il secondo, per anzianità, tra i tribunali storici americani ancora in funzione, per mangiare pomodori con gusto, davanti ai cittadini stupefatti di Salem che salgono la scalinata per recarsi nel tribunale.
Solo che non ci sono gradini. Dopo aver letto varie emozionanti versioni dell’impresa di Johnson, mi ero ingenuamente immaginato una versione ridotta della grande scalinata della Corte Suprema degli Stati Uniti, col colonnello alla sommità e una folla stupita raccolta sotto, alla base. In realtà il tribunale si alza solo di un passo dal livello del suolo e a far salire agevolmente provvede uno scivolo di mattoni. Inoltre il tribunale è in genere chiuso e si apre solo un paio di sere a settimana, per il pagamento dei parcheggi e per qualche caso di piccole violazioni di leggi e regolamenti. La qual cosa implica che non ci sono passanti davanti ai quali possa perorare la causa dei pomodori e neppure spettatori, né celebrazioni per il bicentenario. C’è da chiedersi se ci sia stato un Robert Gibbon Johnson.
Ma che sia esistito è sicuro. Curt Harker e Ron Magill, attuale e passato presidente e vicepresidente, rispettivamente, della Società storica della Contea di Salem, me lo hanno detto mentre ci spostavamo dal tribunale per raggiungere la vecchia dimora del colonnello, che oggi viene usata come un centro Meals on Wheels, che fornisce pasti a domicilio ad anziani affetti da qualche forma di disabilità. In effetti il colonnello fu il primo vicepresidente della suddetta società, fondata nel 1845. Il personaggio aveva una certa rilevanza e possiamo quindi ricevere informazioni anche sull’uomo. Sempre che non entrino in gioco i pomodori, perché, per trovare Johnson e i pomodori inseriti in una stessa frase o in uno stesso racconto, si deve andare a cercare nel Salem County Handbook del 1908, scritto da William Chew cinquantotto anni dopo la morte del colonnello, in cui si ricorda che nel 1820 “il Col. Robert G. Johnson portò a Salem i primi pomodori… A quel tempo questo vegetale si considerava inadatto per un uso di massa”.
A questo punto arrivano gli imbellettamenti della leggenda. In una storia di Salem del 1937, Joseph S. Sickler, dirigente dell’ufficio postale e storico locale per passione personale, riporta l’affermazione di Chew, con un’elaborata aggiunta: “Con pazienza Johnson educò la gente del posto sulle sue qualità, mostrando loro che era commestibile e anche nutriente”.
Tre anni dopo, nella sua storia, The Delaware, Harry Emerson Wilde aggiunge alla versione di Sickler anche il tribunale, affermando che solo dopo che Johnson “ebbe l’ardire di mangiare pubblicamente un pregiato pomodoro sui gradini del tribunale il cauto Jersey meridionale avrebbe accolto come commestibile quel vegetale che oggi è la sua coltura più abbondante”. (Si noti che il tribunale di Wilde, a differenza del mio, ha più scalini, parlando di steps, al plurale.)
Nove anni dopo, Stewart Holbrook aggiunse un tocco di colore alla scena del tribunale, scrivendo, nel suo Lost Men of American History:
Johnson rimase in piedi sui gradini del tribunale di Salem e annunciò con tono stentoreo che avrebbe, immediatamente e lì, sul posto, mangiato una di quelle cose letali. E fu così che egli fece, assaporando il succo gocciante mentre la folla a bocca aperta attendeva di vederlo contrarsi in convulsioni e crollare a terra, con la bava alla bocca.
Altri scrittori lasciarono a briglia sciolta la propria immaginazione con una frenesia anche maggiore, aggiungendo migliaia di spettatori impazziti, svenimenti di donne e una data specifica per l’evento. La cosa sorprendente è che uno di questi ‘scrittori’ altri non era che il vecchio Joseph Sickler che, nel 1948, aveva rivisto la propria versione originale per riportarvi, caricandone ulteriormente i toni, le colorite invenzioni dei suoi protégés, tutte fiorite, ovviamente, a partire dal suo resoconto originale.
A quell’epoca Sickler viveva a New York, dopo essere stato cacciato da Salem per qualche storia poco chiara riguardante i fondi dell’ufficio postale, e l’inchiostro si era appena seccato sulla sua nuova, e pesantemente romanzata, versione, quando assurse al ruolo di consulente, retribuito, per il programma radio della CBS You Are There, che riproponeva lo storico evento, in una ricostruzione trasmessa il 30 gennaio del 1949. Non sappiamo se sia stato lui a mettersi in contatto con la CBS o viceversa, quel che è certo è che il programma fu un grosso colpo per Sickler, che in seguito dichiarò essergli stato dato “riconoscimento nazionale come custode della storia”. You Are There non era, va detto, la stessa cosa di Drunk History. Le sue ricostruzioni, accolte da Walter Cronkite quando il programma passò in televisione, erano considerate in genere storicamente attendibili e spesso se ne parlava nei quotidiani del giorno dopo, pertanto è possibile che la produzione abbia esaminato con cura il materiale, prima di azzardarsi a salire, ehm, su quel gradino. Sickler sosteneva che la storia gli fosse stata raccontata da un uomo (opportunamente deceduto), il cui nonno, Charles J. Casper, aveva assistito all’evento. Se Sickler stava cercando una fonte attendibile, aveva fatto una scelta sbagliata, perché si dava il caso che il figlio di Casper fosse un importante produttore di prodotti in scatola di Salem e avesse scritto anche lui una piccola storia di quell’industria, nella quale aveva dichiarato che “il pomodoro venne portato a Salem nel 1829, da alcune signore di Filadelfia”. È difficile credere che Casper si sia dimenticato di raccontare a un figlio che inscatolava pomodori la sua presenza a un evento così straordinario come l’esibizione di Johnson davanti al tribunale (e che però in seguito abbia voluto raccontare la storia al nipote che l’avrebbe poi fatta conoscere a Sickler).
Questa non è di sicuro l’ultima leggenda in cui ci imbatteremo, ma è sicuramente una delle più complicate da smontare, essendo apparsa su pubblicazioni affidabili, come “Scientific American” e il “New York Times”, e persino in un articolo del 1993, sulla rivista “New Yorker”, famosa per essere meticolosa e attentissima nella ricerca e nella selezione di dati fattuali. Amplificata dalla recente, e sinora mai raggiunta, abilità nella diffusione rapidissima della disinformazione (ovvero Internet) la storia continua a circolare, adorna (logicamente e opportunamente, direi) di nuovi abbellimenti. In una di queste varianti, entra in scena una banda di pompieri che sta suonando una marcia funebre, in un’altra l’ambiente tribunalizio si evolve in un’aula di tribunale in cui è il povero pomodoro a essere accusato e il processo può chiudersi trionfalmente solo nel momento in cui il colonnello… si mangia l’imputato!
Così, chiedo agli storici di Salem, in occasione del bicentenario di un evento che non c’è mai stato, se c’è una qualche verità in questa leggenda. Non esistono giornali che riportino la celebrata dimostrazione e persino la storia della Contea di Salem di Johnson, pubblicata nel 1828, non fa alcuna menzione di pomodori. Né, per quanto sia vero che Robert G. Johnson abbia sponsorizzato fiere di produttori agricoli, dalla documentazione che abbiamo risulta che i pomodori siano mai stati tra i prodotti in competizione. “Ma noi sappiamo se Johnson coltivasse pomodori?” chiedo. “E già che ci siamo, ma li ha almeno conosciuti?”.
Come se avesse previsto la mia sfida, Ron Magill estrae baldanzosamente dalla sua valigetta un libro del 1812, proveniente dalla biblioteca personale di Johnson. Si intitola Archives of Useful Knowledge e il sottotitolo chiarisce che si tratta di “un’opera dedicata al commercio, alle manifatture, all’economia domestica e rurale, all’agricoltura e alle arti utili”. Porta due volte, sue due pagine, la firma del colonnello, nel caso in cui il fruitore di un prestito si scordasse della provenienza del libro. Magill apre il libro a pagina 306, dove c’è una ricetta per Tomatoe or love-apple catsup. Il fatto che Johnson possedesse un libro con una ricetta per i pomodori fa pensare che fosse informato della loro commestibilità (e che, naturalmente, non fosse certo il solo a saperlo). Questo, di per sé, non prova però assolutamente nulla, a meno che non si trovino chiare testimonianze di una sua attitudine ad agire come un’anticipazione ottocentesca di Julie & Julia, il film del 2009, e quindi a realizzare ogni ricetta presente nel libro. Ciononostante, entrambi gli storici presenti sono irremovibilmente convinti che sia stato veramente Johnson a introdurre i pomodori nel New Jersey meridionale, anche se non in modo così spettacolare e sicuramente non in una Corte di giustizia. La prima versione di Sickler – che Johnson abbia convinto i suoi compaesani che queste strane bacche erano adatte al consumo – era corretta, mi dicono, e probabilmente si basava su qualche narrazione orale o su articoli di giornale. Se anche ci fossero, questi articoli di giornale, nessuno finora li ha tirati fuori. Quanto alle narrazioni orali, non si possono certo scartare e spesso risultano affidabili in una misura sorprendente.
La leggenda di Johnson non è proprio costruita sul nulla. C’è il primo resoconto del 1908, credibile proprio per la sua semplicità, e il fatto che il colonnello fosse un orticoltore appassionato, curioso, audace, interessato alle nuove colture. E poi, in realtà, non c’è una storia alternativa valida. I pomodori devono essere per forza entrati nella Contea di Salem grazie all’intervento di qualcuno e il colonnello è un candidato credibile come qualsiasi altro. Inoltre anche il momento sarebbe corretto, perché nei decenni successivi i pomodori sono balzati dall’oscurità all’ubiquità, sono stati inseriti in ricette che riempivano riviste e libri di cucina, si sono insediati nel cuore degli orticoltori e nelle pagine dei cataloghi dei semi delle colture, e su ogni tavola d’America si è spremuto del ketchup. Così la patria di Johnson, la Contea di Salem, sarebbe divenuta ben presto l’area di coltivazione del pomodoro più grande di tutti gli Stati Uniti.
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