Perché vincono i populisti?


Ci sono tre motivi per cui delle versioni semplicistiche della realtà hanno così tanto successo: uno è politico, uno percettivo e uno psicologico.


In copertina: Rivisitazione digitale di un dettaglio del Cristo di Hans Memling

di Enrico Pitzianti

 

Il problema politico: si può cambiare anche in peggio

Cosa vogliamo, in fondo, più di ogni altra cosa? Più che il potere, la felicità. Ma la felicità è relativa: se si è in una zona di guerra e si riesce a scampare al massacro, anche un giaciglio al sicuro e un tozzo di pane possono renderci felici. Se invece la pace e il tozzo di pane li abbiamo sempre avuti li diamo per scontati, ed ecco che si vorrebbe ancora più pace, e oltre al pane anche qualche verdura bollita. E così via. Insomma, la felicità la fa il miglioramento: siamo felici se le cose vanno meglio di come andavano prima.

Ecco quindi cosa cerchiamo per essere felici, il cambiamento. Perché solo attraverso il cambiamento si migliora. Viene da qui la differenza tra tradizionalisti (di destra) e progressisti/rivoluzionari (di sinistra). C’è chi – i tradizionalisti – sta bene e vuole mantenere tutto così com’è, e chi invece ha fretta di migliorare la propria condizione e vuole cambiare (i progressisti). Sono categorie che vengono dal passato, ma restano ancora valide. Obama solo qualche anno fa ha vinto le elezioni statunitensi con uno slogan che è il sunto perfetto del progressismo: “Change”.

Oggi in occidente sta succedendo (anzi è successa) una cosa particolare, le categorie si sono invertite e chi vuole “cambiare” si ritrova a destra, mentre chi vuole “mantenere lo status quo”, spesso, è a sinistra. Come nel caso della Brexit, dove per cambiare la destra ha votato per uscire dall’Europa, o nel caso del voto a Trump, dove per cambiare si è tentato di bloccare l’immigrazione. Nello stesso modo bisogna leggere la crescita dei populismi in altri paesi, come la Francia e l’Italia, dove i voti alle nuove destre sono dati con l’intenzione di cambiare uscendo dall’euro, dall’Unione Europea o da alcuni suoi trattati.

L’urgenza politica è quella di cambiare, liberarsi di controlli, influenze, migrazioni, monete o decisioni di altri: ci si ribella a qualcosa o a qualcuno, per sperare che, decidendo senza restrizioni, si possa migliorare la propria situazione. Ma c’è un problema: si può cambiare anche in peggio.

La crescita dei populismi, tra le altre cose, ci dice che sempre più persone applicano questa equivalenza tra cambiamento e miglioramento come una formula sempre vera. Molti danno per scontato ciò che hanno perché non è percepito come un reale cambiamento rispetto alle proprie aspettative. L’approvazione della legge sul testamento biologico, per esempio, è stata vista dai sostenitori di questo tipo di battaglie come un traguardo ma non come una vittoria. Nemmeno l’approvazione della legge sulle unioni civili è stata un trionfo per chi la sosteneva, perché, per dirne una, non è stata inclusa la possibilità di adozione da parte delle coppie dello stesso sesso.

Da un lato è comprensibile che istanze rivendicate da anni e ridimensionate dalla cosiddetta “realpolitik” perdano di fascino. Dall’altro però questo genera pessimismo. Abbiamo un bicchiere riempito a metà che viene costantemente visto esclusivamente come mezzo vuoto. L’onestà intellettuale imporrebbe di descrivere i fatti per come li si osserva: un bicchiere a metà è anche mezzo pieno, ma la fretta del miglioramento, quella funzionale al cambiamento e che abbiamo ormai interiorizzato, ci spinge a non accontentarci dello status quo (a cui una volta che si è associati corrisponde un’automatica perdita di appeal elettorale).

 

La questione percettiva: siamo più attratti dagli eventi negativi

C’è un secondo motivo per cui il pessimismo vive giorni felici e ha a che fare con la comunicazione. Tutti noi, senza eccezioni, siamo attratti maggiormente da eventi negativi più che da eventi positivi, ad esempio: se passeggiando per la strada notiamo un tamponamento tra due auto, il nostro corpo avrà una reazione di “attivazione” dell’attenzione attraverso il battito cardiaco, la messa in circolo dell’adrenalina e così via. Se invece vediamo le macchine procedere normalmente, ripartendo ordinatamente al semaforo, non ci faremo caso e questa differenza avrà una grande influenza sui nostri ricordi. A fine giornata ricorderemo molto bene il tamponamento, ma non avremo memoria di un evento positivo. Chi ha studiato questo fenomeno psicologico lo spiega dicendo che l’infelicità per aver perso cinquanta euro è maggiore della felicità per averli trovati. È una questione istintiva: la nostra percezione del mondo è filtrata dall’istinto che ci impegna a sorvegliare ciò che ci circonda con circospezione e timore. Non sapere cosa ci circonda mette ansia e paura, non importa se non ci sono avvisaglie di pericoli reali, è sufficiente trovarsi al buio in un luogo sconosciuto per entrare automaticamente in una modalità chiamata, non a caso Fight–or–flight (combatti o fuggi). Da questa percezione “istintiva” di ciò che ci circonda deriva la struttura dei telegiornali, dei siti di notizie e delle priorità che diamo alle notizie stesse. Se due sindaci di due città ugualmente importanti, eletti con lo stesso grado di popolarità, subiscono due sorti differenti: uno muore e l’altro vince un importante premio politico, in prima pagina avremo la morte del primo e non il premio del secondo. Quando guardiamo un giornale accediamo a una selezione pessimista degli eventi che non rappresenta un campione statistico di ciò che accade realmente. Ma è difficile convincerci a dar retta alla statistica, per lo stesso motivo di prima: il cervello è attratto dalla negatività, dalla violenza e dal pericolo. Quindi non è attraente leggere che gli omicidi in Italia stanno progressivamente diminuendo di anno in anno, mentre invece è lo è sviscerare ogni minimo dettaglio di un singolo omicidio.

Chi lavora nell’informazione conosce bene questo meccanismo e purtroppo non si fa troppi problemi a sfruttarlo. Le notizie a tema violenza vengono lette di più e con più attenzione e sono quindi proposte con più insistenza (insieme a quelle sul sesso, l’altro tema usato come esca per attrarre la curiosità umana). I media, per dirla in parole povere, soffiano sul fuoco dei drammi per convenienza. Se esistono delle paure, più o meno razziste, dovute a un fenomeno migratorio, i media avranno interesse a sottolineare reati di cui il colpevole è un migrante, perché saranno le notizie che verranno lette e condivise di più.

La differenza di percezione delle notizie si basa, come ho scritto poco fa, sulla paura e sui meccanismi di individuazione del pericolo. In qualche modo l’istinto ci porta a confermare le nostre paure e a individuare un nemico (l’Europa e i migranti, nelle elezioni italiane appena concluse). Il fatto che molti media fanno leva su questo meccanismo nel raccontare ciò che accade, contribuisce però a creare l’idea di un mondo in declino, violento, pericoloso, dominato dal “degrado” (una delle parole più usate nel raccontare le città italiane, che in realtà sono relativamente sicure).

A questa catena di false credenze se ne aggiunge un’altra, a peggiorare il quadro: grazie ai social e all’avanzamento tecnologico i media sono sempre più presenti nelle nostre vite, le informazioni circolano di più, con maggiore velocità e raggiungono più segmenti della popolazione. Questo ha come effetto immediato un aumento delle informazioni negative, che accentua una percezione del mondo pessimista e scorretta.

Così succede che mia nonna, nonostante abbia vissuto durante una guerra mondiale, sostenga che oggi succedono cose immonde e terribili, mentre un tempo non era così. Il punto è semplice, lei in passato non aveva informazioni sui lager, né video e dirette sulle trincee e sulle torture, ciò che ha visto sono i bombardamenti su Cagliari, niente di più. Mentre oggi si trova a ricevere molte informazioni riguardanti guerre distanti da lei, come quella siriana.

 

L’empatia: sopportiamo sempre meno la visione del male

Terzo e ultimo motivo per cui oggi il pessimismo ha vita facile: l’aumento dell’empatia. Viviamo in tempi complessi, difficili da inquadrare, ma tutti i dati ci dicono che questo nostro mondo è in costante miglioramento: sono in calo le violenze sessuali, le morti per malnutrizione, le guerre e le carestie. Sembra controintuitivo (per via, di nuovo, di come funziona l’informazione), ma è tutto vero e ben documentato, per esempio, da un famoso professore di Harvard nel suo ultimo libro (di quello precedente ne avevo scritto qui). Nonostante questo miglioramento sia reale, l’empatia ci impedisce di dargli credito, nonostante eventi di dimensioni storiche come la crescita economica e di qualità della vita di interi continenti come quello asiatico. Il cortocircuito causato dall’empatia avviene perché se da una parte la nostra crescente sensibilità ci aiuta con vari aspetti del nostro vivere quotidiano, alza anche l’asticella delle nostre pretese. Insomma, da un lato l’empatia ci permette di evitare le violenze, dall’altra contribuisce a rendere sempre più insopportabile la vista delle violenze stesse, rendendo più attraenti le notizie su questi temi. Per esempio, le notizie sullo sfruttamento e la sofferenza animale sono nate proprio insieme alla sensibilità (almeno quella occidentale) verso gli animali stessi: da una parte dunque abbiamo cominciato a preoccuparci per gli animali (magari diventando vegetariani) dall’altra arrivano sui media sempre più notizie sulle violenze sugli animali, dando l’impressione che tali violenze siano in aumento e non in diminuzione.

Viviamo in un’era complessa e veloce, dove il problema non è l’accesso alle informazioni, ma la capacità di gestirle, leggerle e comprenderle. Qui sta il nodo centrale dell’ascesa dei populismi, che altro non sono che proposte per semplificare ciò che ci circonda, col serio rischio di trasformare idee approssimative e stereotipiche in proposte di legge. Ma se i problemi del mondo non sono semplici, neanche le soluzioni possono esserlo, con buona pace dei populisti.


Enrico Pitzianti, Cagliari 1988, si occupa di estetica e arte. È redattore de L’Indiscreto. Collabora con Il Foglio, Esquire Italia e cheFare.

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