Polveri Innamorate: Paradiso VIII

Oggi su L’indiscreto commentiamo il canto VII del paradiso dantesco. Questo articolo fa parte del nostro “CCC”, cioè il progetto di Commento Collettivo alla Commedia de L’indiscreto curato da Edoardo Rialti.


IN COPERTINA, Gustave Moreau, il rapimento di Ganymède

di Giorgiomaria Cornelio


Con il contributo di 


 

«Tuto è corpo d’amore»

Franco Scataglini, So’ rimaso la spina

Di essere asceso al terzo cielo, Dante pare non avvedersene all’inizio di questo ottavo canto del Paradiso, eccetto per una minima variazione nell’aspetto di Beatrice. L’amata, infatti, non si fa bella, ma «più bella»: un’eccedenza, come se l’aria improvvisamente s’incipriasse di polvere luminosa. Avviene, in fondo, quel mutamento di percezione che da sempre apparenta l’amante con ogni storia d’amore, come pure con ogni invasamento amoroso quando quest’ultimo finisce per tiranneggiarci o appannarci completamente,  «folle amore»    lo sa bene Francesca da Rimini, la cui narrazione domina un altro celebre canto dell’Inferno, per molti versi speculare a questo ottavo, venusiano.

Vorticano, le anime del terzo cielo, «più e men correnti», e Dante le vede «come in fiamma favilla» – come nel fuoco una scintilla, marcando così il sempitèrno corrispondersi di escandescenza e rotazione, di cui è immediato esempio lo stropicciarsi dell’occhio. Racconta l’umanista Giulio Camillo che San Tommaso, «volendo provar» l’intelletto agente «essere in noi», dà testimonianza «della potenza nostra visiva, et di quel raggio di fuoco, che dentro a noi risponde all’occhio, il quale noi assai sovente fregandoci alcun de gli occhi col dito veggiamo internamente in similitudine di fiamma in rota»; mentre Aristotele dice che, «quando con difficultà affisiamo gli occhi ne gli occhi altrui, quel lume dà signification di futuro prencipe», al punto che per Camillo «alcuni antichi hanno lasciato scritto gli occhi di Iesu Christo essere stati così fatti» (L’idea del theatro). La corrispondenza tra bruciare e ruotare, ma anche tra cecità e visione, sguardo e destino s’estende nel tempo, abbraccia con moto alterno le più svariate declinazioni; di tutto questo scriverà Dylan Thomas in Vision And Prayer, dietro un muro sottile come un osso di scricciolo, e «con l’occhio reso cieco dal turbamento in vicinanza dell’approdo al porto di meraviglie che recano celate l’origine e le nascite» (Rubina Giorgi).

Fatto cieco non dal turbamento ma dall’esposizione alla troppa letizia è lo stesso Dante quando Carlo Martello, staccatosi dalla frotta delle anime venusiane, si rivolge al poeta tutto avvolto di una gioia che, risplendendogli attorno, lo cela, «quasi animal di sua seta fasciato». Sventuratissimo erede al trono d’Ungheria, quella terra «che ‘l Danubio riga» e sulla quale non regnerà mai davvero, Carlo Martello  – figlio dello Zoppo e fratello di Roberto d’Angiò – incontra Dante a Firenze nel 1294, un anno primo della sua prematura scomparsa. Nel terzo cielo, dove è collocato, «marcato nel seme», secondo una magnifica espressione di Vittorio Sermonti, «dalle radiazioni della stella Venere», egli si muove sopravvestito di una luce che ne attesta la gioiosa beatitudine; beatitudine in alcun modo attenebrata dal peccato. È – insomma – una lucerna che non s’estingue, ma anzi divampa. Sappiamo che nel Vangelo di Matteo, Gesù, durante il Discorso della montagna, dopo aver messo in guardia i suoi discepoli e la gran folla dal fare mostra delle proprie opere di fede, si rivolge a chi lo ascolta con queste parole sullo splendore esibito dalla persona autenticamente pura: «la lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso». Se seguiamo quanto riportato da Elemire Zolla ne Le meraviglie della natura, Giovanni Crisostomo, Dottore della Chiesa e gran teologo antico, avrebbe commentato così il sopracitato passo del discorso: «la mente con cui si discerne Dio e la purezza che le consente di discernerLo, sono una lucerna: la lampada del corpo è l’occhio dello spirito; il corpo luminoso è quello esente dagli effetti del peccato». Quanto più il corpo è straniero ai traviamenti, tanto più esso è sfavillante.

Varrebbe la pena ricordare, visto il nostro transitare in amoroso cielo, che proprio a partire dalla disamina del Discorso della montagna ci è stata tramandata una delle più belle definizioni d’amore che la letteratura filosofica abbia prodotto. Gesù, sempre rivolgendosi alla folla in ascolto e ai discepoli, dichiara di essere venuto non ad abolire la Legge, ma a darle compimento. Sono molteplici i discorsi sulle leggi che il Cristo riporta, mettendole al contempo in tensione con loro stesse, in una specie di torsione che insiste per dileguare: non uccidere, non commettere adulterio, non spergiurare, ama il tuo prossimo, odia il tuo nemico… «ma io vi dico: amate i vostri nemici». L’amore supera la legge senza doverla abolire. Quello che Gesù attua, infatti, è – secondo gli Scritti teologici giovanili di Hegel – «un tentativo, compiuto per mezzo di parecchi esempi sulle leggi,  di sottrarre a queste l’elemento legale»; Gesù «predica un qualcosa che è superiore all’ubbidienza alle leggi e che le rende superflue»: l’amore, ovvero ciò che in nessun modo può essere comandato, poiché in esso v’è «un’unione dell’inclinazione con la legge, così che quest’ultima perde la sua forma in quanto legge». L’amore – ed è qui che la definizione diventa inarrivabile – «sottostà così poco al dovere e al diritto, che il suo trionfo è proprio quello di non avere il dominio su nulla».

L’assenza di tirannia, il superamento di ogni inimicizia o sottomisione distingue quest’amore da un altro, folle, sfrontato e devastatore di vite, che abbiamo conosciuto nei canti infernali, e che non può aver posto tra gli spiriti amanti del terzo cielo, dove Dante pone Carlo Martello. Lo avevamo lasciato nell’atto di narrare al poeta la sua troppo breve vicenda terrena, vicenda peraltro assai virtuosa, a differenza di quella del fratello Roberto d’Angiò, re di Napoli, verso il quale Carlo ha parole di monito e che, con la sua avara condotta, rischia di gravare ulteriormente su un regno già parecchio accidentato: «ché veramente proveder bisogna / per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca / carcata più d’incarco non si pogna». Ma come è possibile che la sua avarizia possa discendere da antenati generosi, ovvero – con un’antitesi inchiodata nel linguaggio – che una tale natura «di larga parca discese»?  Se lo chiede Dante porgendo a Carlo un quesito per molti versi centrale in questo canto: «a dubitar m’hai mosso / com’esser può, di dolce seme, amaro».

È qui che il loro discorrere diventa una trattazione sui diversi offici cui siamo chiamati in terra: ciò che oggi nomineremo, forse in malo modo, vocazione, e che altro non è che  un’altra modalità di incipriare lo sguardo. Spiega Carlo Martello che uno nasce legislatore, come Solone, uno sacerdote, come Melchisedèch, e un altro inventore come Dedalo – quello che, «volando per l’aere», il figlio, Icaro, «perse»; una tale varietà, necessaria al vivere civile, non s’incatena però alla famiglia, non è da questa assolutamente determinata, poiché la circular natura, «ch’è suggello a la cera mortal», non distingue «l’un da l’altro ostello», ovvero non fa distinzioni tra famiglie. Dante ci dice che la provvidenza vince l’hillmaniana superstizionale parentale, con le sue strette regole d’appartenenza, i suoi giochi già fatti, e la diritta, predisposta malandanza: figli di una specie cattiva. Se ciò non avvenisse, se tutto fosse deciso a partire dai genitori che ci mettono al mondo, i generati cadrebbero nella tirannia dell’identico, e non vi sarebbe alcuna libertà.

Riattraversare questo canto ci consente di rifiutare, con ancora più ostinazione, le schiaccianti fantasie parentali, i miti ad esse congiunti, le forze che frenano il proprio cammino.  Possiamo provare a dubitare non solo, come suggerito da Jean-Jacques Kupiec, dell’«attuale paradigma deterministico della biologia» (La concezione anarchica del vivente), ma anche del determinismo immaginativo, dell’idea che la nostra immagine sarà per sempre formata sullo stampo delle fantasticherie genitoriali. Carlo Martello mette in guardia dal potere castrante della famiglia, quando essa oppone all’inclinazione individuale un destino discorde: «sempre natura, se fortuna trova /  discorde a sé, com’ogne altra semente / fuor di sua region, fa mala prova».

Nel momento in cui viene tranciata, la ricerca rischia di tramutarsi in sciagurato invasamento. Questo perché ogni vera vocazione,  esattamente come l’amore, fa vedere diversamente. La pittrice e il condottiero non percepiscono forse il mondo in maniera dissimile? Non ne fanno un diverso uso? La vocazione modifica la percezione, crea l’immagine dell’attorno, predisponendo un ambiente diverso per ogni persona. Scrive Alain Berthoz, rifacendosi agli studi di Jakob von Uexküll, che si può chiamare vicarianza d’uso la capacità degli organismi viventi di disporre dello spazio in cui vivono in funzione delle finalità e dei “limiti” del loro umwelt: «lo stesso oggetto può essere impiegato per un certo numero di processi, intenzioni, usi. […] L’oggetto non si sdoppia, né viene sostituito, ma è percepito e usato in modo vicariante per finalità differenti».

Così, in questo cielo venusiano dove tutto vortica, amore e inclinazione continuano a incipriare lo sguardo. Sono nebbie luminose; polveri innamorate.


Il canto, integrale

Canto VIII, nel quale si manifestano alcune questioni per Carlo giovane, re d’Ungheria, il quale si mostroe nel circulo di Venere; e qui comincia la terza parte di questa cantica.

Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;

ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;

e da costei ond’ io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.

Io non m’accorsi del salire in ella;
ma d’esservi entro mi fé assai fede
la donna mia ch’i’ vidi far più bella.

E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’ una è ferma e altra va e riede,

vid’ io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.

Di fredda nube non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
che non paressero impediti e lenti

a chi avesse quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
pria cominciato in li alti Serafini;

e dentro a quei che più innanzi appariro
sonava ’Osanna’ sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza disiro.

Indi si fece l’un più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
al tuo piacer, perché di noi ti gioi.

Noi ci volgiam coi principi celesti
d’un giro e d’un girare e d’una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti:

’Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’;
e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete».

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,

rivolsersi a la luce che promessa
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa.

E quanta e quale vid’ io lei far piùe
per allegrezza nova che s’accrebbe,
quando parlai, a l’allegrezze sue!

Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.

La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.

Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.

Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava,

e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.

Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.

E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,

se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;

ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
carcata più d’incarco non si pogna.

La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».

«Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,

per te si veggia come la vegg’ io,
grata m’è più; e anco quest’ ho caro
perché ’l discerni rimirando in Dio.

Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’ esser può, di dolce seme, amaro».

Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.

Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.

E non pur le nature provedute
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:

per che quantunque quest’ arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.

Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;

e ciò esser non può, se li ’ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.

Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».

Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».

«E puot’ elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».

Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:

per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.

La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.

Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.

Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
se non vincesse il proveder divino.

Or quel che t’era dietro t’è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t’ammanti.

Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.

E se ’l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.

Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone;

onde la traccia vostra è fuor di strada».


A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


Giorgiomaria Cornelio (1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”Edizioni Volatili”, e redattore di “Nazione Indiana”. Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020),  presentata in  numerosi festival e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”, “Il tascabile” e altri. Per  Luca Sossella Editore, ha pubblicato “La consegna delle braci”.

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