Uno studio degli effetti sociali della pornografia, attraverso la serie televisiva Damages.
(Questo testo è un adattamento tratto da un articolo precedentemente uscito su Im@go (Anno V, n.8), sotto licenza Creative Commons Attribution 4.0).
di Antonio Rafele
Introduzione
Sul piano dei costumi, la fruizione pornografica ha legami indiretti ma profondi con i modi di vita della “società stretta”. Di questa trama la serie televisiva Damages è una rappresentazione recente e tra le più efficaci. La prima parte è un’indagine sul rapporto tra piacere e memoria individuale nel consumo di pornografia; la seconda parte è un’interpretazione di alcuni momenti della prima stagione, “Il caso Frobisher”, della serie. La scrittura procede con l’incastro di rimandi interni tra le due parti. Alcuni termini chiave – piacere, colpa, limiti, schermo, società, abitudine, masturbazione – creano un legame indiretto tra la pratica solitaria e gli effetti sociali della pornografia. La tessitura della trama risiede nella sfaccettatura della valenza riflessiva di questi termini, che, come nodi di una rete, restituiscono un’immagine problematica della materia pornografica.
1. Dettagli
Le esposizioni universali inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre
W. Benjamin, I passages di Parigi, 1922-40
Quella sensazione indefinibile è quasi istantanea, e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate a leggere, vi restano in mano le parole sole e secche
Leopardi, Zibaldone, 1821
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Xhamster, Xvideos, Youporn. Appena entrati, come in una Esposizione si susseguono “infiniti” contenitori, al cui interno prevalgono per il “passante” i dettagli e le sfumature. Vintage, French, Mature, Homemade, Hairy, Doctor Adventures: non di film si tratta, infatti, ma di frammenti. Frammenti che solo in apparenza “mostrano tutto”; in realtà, come lembi, richiedono un intervento attivo del fruitore. Il punto di incontro avviene in una minuta variazione: un colore, un contrasto, uno sguardo, un abito, una parte di corpo, una situazione, una conversazione, che al contatto con la vista scatenano il ricordo di una scena vissuta, di un desiderio provato per strada o in un’altra circostanza. La memoria si insinua in un punto, trovando in esso l’aggancio che trasforma il video in una scena intima e familiare. Di colpo quel ricordo diviene materia viva e senziente, ottundendo le difese vigili. Sopravviene il buio (anche alla luce del giorno), e la vista, la cui attenzione concorre all’emergere di questo stato allucinatorio, assume una nuova funzione. Frequenti “sbirciate ad occhi chiusi” determinano una simultanea presenza e assenza della vista, mentre il fruitore ha l’impressione di stabilire un rapporto organico con il video. Per brevi istanti, nello scorrere del piacere verso la propria fine, tempo dell’immaginazione e pratica elementare dei sensi convivono in una perfetta coincidenza di sogno e reale. Giunti al culmine, la scena si spegne e l’immagine si spoglia dei pregressi incanti. Così il fruitore completa l’immagine, fino a sperimentare una “piccola morte”. Ma, al “risveglio”, conserva, e ordina retrospettivamente, un punto erotico attivo.
Il consumo di pornografia traccia una linea di continuità con le prime intuizioni romantiche sull’opera come medium “aperto” sul lettore:
Dal canto mio, preferisco cominciare prendendo in considerazione un effetto. […] [L]a prima cosa che mi chiedo è: “Fra gli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui il cuore, l’intelletto, o (più ingenerale) l’anima sono suscettibili, quale debbo scegliere in questa occasione?” […] [N]on mi sarà imputato a mancanza di buone maniere se mostrerò il modus operandi col quale sono state costruite alcune delle mie opere. Scelgo The Raven, che è la più nota (Poe, 1995: 26-27, passim).
L’opera è sin da principio un medium che “incastra” il lettore dentro un sofisticato meccanismo linguistico e narrativo. Non solo quei contenuti di The Raven (immagini, miti, metafore e topos) sono puri segni del linguaggio, e non hanno valore o consistenza al di qua del testo, ma il lettore è divenuto un’immagine del testo, e viceversa l’opera una protesi del lettore.
Io per esprimere l’effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte non so trovare similitudine ed esempio più adatto di un alito passeggero di venticello fresco nell’estate odorifero e ricreante, che tutto in un momento vi ristora in certo modo e v’apre come il respiro e il cuore con una certa allegria, ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere, ovvero analizzarne la qualità, e distinguere perché vi sentiate così refrigerato già quello spiro è passato, conforme appunto avviene in Anacreonte, che e quella sensazione indefinibile è quasi istantanea, e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate a leggere, vi restano in mano parole sole e secche, quell’arietta per così dire, è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la sensazione che v’hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi (Leopardi, 1991: 42).
Rispetto al modello umanistico del canone e della memoria, dove il valore dell’opera è intrinseco al testo, nella teoria romantica, la durata dell’opera coincide con l’attimo del consumo (Benjamin, 1982). L’esperienza della fruizione ripete il tempo e il ritmo della moda: un addentrarsi, quasi un essere rapiti, nel vortice del testo, a cui succede la sensazione desolata della fine, della morte.
Se al centro vi si trovano le immagini del lettore, le narrazioni e i racconti, intesi come sistemi compiuti di senso, vengono sospinti ai margini:
Serialità e eutanasia. Per quanto intenda estremizzarlo, il mio punto di vista non è poi troppo distante dalla svolta che i media studies hanno compiuto ormai vari decenni fa dimostrando che l’impatto tra pubblico e media televisivi, e cioè gli effetti di questi sulle persone e sui gruppi, dipendevano non tanto dai contenuti trasmessi quanto piuttosto dall’uso dei veicoli di trasmissione in sé e per sé.
Le considerazioni di Abruzzese evocano questi splendidi momenti del Dialogo della Moda e della Morte:
Moda: Ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, e più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole (Leopardi, 2012: 43).
“Dove la vita è più morta che viva”, per il succedersi cangiante e velocissimo delle cose, e per l’indebolimento che ne consegue delle capacità sensoriali, lo choc è il modo – che soltanto la tecnica e la sua incessante diversificazione rendono possibile – di rianimare e tenere in vita un “cadavere”. I racconti vengono costruiti sugli effetti e sugli choc che procurano in chi guarda, in una sintesi perfetta tra stile, tecnica e consumo. Non è azzardato considerare, in questa ricostruzione, i videogiochi come il modello ultimo della fruizione, una sorta di compimento storico del percorso iniziato con i primi romantici: il fruitore vi si addentra, e colpito dalle sequenze (che è un vero e proprio saltare o indietreggiare dalla postazione), per interi archi temporali si allinea al testo (una sorta di immagine sovrapposta) in una compresenza inverosimile di azione e reazione. Terminato il “passaggio”, succede la sensazione desolata della fine, della morte; ciò non esclude che i miti e i simboli possano rivivere nel ricordo del fruitore, ma soltanto come tracce e dettagli del presente, immagini dello spettatore. Se il mito si riduce ad attrarre e incastrare il fruitore in un vortice di sequenze, e non più a trasmettere un particolare sapere, esso non possiede dunque la forma del mito antico, la simultanea affermazione di “realtà e natura”, ma diviene un’immagine vivente, transeunte, della storia.
Tale esperienza della fruizione si istituisce oggi con il medium pornografico, e con esso si ripete espandendosi per interne gemmazioni. Gallerie di immagini vivide e “già spente”, che tuttavia stratificano nella mente del fruitore un repertorio di “stralci” e “minuzie”, stimolando ulteriori ricordi, occasioni. A volte si tratta di residui della visione o di scene realmente vissute, in altri casi di desideri legati alla scenografia, al modo di compiere l’atto sessuale, al volto e al corpo dei protagonisti. Rivivendo al presente momenti del passato, che può essere l’esperienza vissuta ma anche il passato della fruizione, il fruitore impara a riconoscere quei segni visivi che, secondo la giornata e l’offerta, attivano uno dei punti erotici del corredo mentale e privato. Così il fruitore scrive e riscrive la propria storia erotica.
Una sessualità espansa, dunque. Una nuova dipendenza dell’io, ma anche una codifica dei gusti e un’intensificazione quotidiana. Anche quando si tende a ripetere ossessivamente la medesima scena, intervengono minute variazioni che accrescono il controllo del corpo e dei desideri. La reattività quotidiana – la sollecitazione dei sensi come anche la forza dell’immaginazione – è il lascito principale dell’esperienza pornografica: come una traccia, un’impronta, persiste nello sguardo e nelle fantasie dell’io lungo l’incedere della vita quotidiana.
Al contempo quella galleria online apparirà come un insieme di materiali morti, in cui risiede tuttavia la “miccia esplosiva” del ricordo e della fantasticheria del fruitore. Apparirà dunque come un archivio quotidianamente in espansione al cui centro si trova l’utente e la sua personalissima costellazione. Il contrario pertanto del genere letterario o cinematografico in cui la pornografia era confinata (Di Folco, 2006). Ora, come le reti, di cui è strumento ma anche momento essenziale, la pornografia simula la vita quotidiana: il tempo ordinario e l’epifania dello straordinario. Sogni e allucinazioni deviano dal corso omogeneo del tempo, offrendo, nello scarto che producono, un’immagine del “vissuto”. A questi “salti” il consumo del porno abitua il fruitore, modulando la forma e il ritmo della sua esperienza estetica.
La pratica del porno, svolta generalmente in solitudine, fa tuttavia esistere una comunità. In parte nel racconto e nella condivisione con gli amici, con chi ricostruisce le medesime abitudini. In parte nel video amatoriale, dove un solo sguardo tra protagonisti e spettatori basta all’intesa: a riconoscere il medesimo destino nel dettaglio e nel piacere. Il piacere, e con esso la cognizione del dolore6, stratificano in filigrana una società, un microcosmo che, improntato ai modi e ai ritmi del desiderio, mostra i segni più avanzati della vita sociale. Nelle pratiche più elementari, il fruitore vive sulla propria “pelle” le conseguenze del piacere: il suo rapido passare appare come un’immagine attuale di forme sociali dominanti: il successo, l’opinione, l’amor proprio e la società stretta. Forme (“gangli vitali”) che mettono al centro delle relazioni la carne e il desiderio, vanificando come inutili e artificiose le mediazioni ideologiche o morali.
L’accumulo di “piccole e reiterate morti” è anche un’esperienza del vuoto:
L’occhio, affondato nel sesso dove doveva trovare la verità che si sottraeva alla luce della ragione, in realtà non vede nulla, soltanto il proprio stesso vuoto: una verità che è silenzio in quanto lancinante, distruttiva congiunzione di organico e inorganico […] parrebbe, in altri termini, un occhio tanto vivo da essere morto, tanto percettivo da testimoniare soltanto la morte (Abruzzese, 2015: 76).
Al termine, quella sensazione “vi sfugge”, non la “sentite più”, e vi restano in mano “le parole sole e secche”. Con l’istituirsi della coscienza, l’angoscia del vuoto, ma anche la sensazione di accedere potenzialmente alla fruizione illimitata di nuove illusioni, costituiscono la più alta condizione conoscitiva. Ironia, desiderio e coscienza si congiungono in un solo punto: il fatto che le circostanze siano illusorie, non toglie che esse siano essenziali9. Ogni volta il fruitore si “stringe” ai dettagli e alle circostanze, perché riconosce in esse il solo schermo che impedisce la vista della nuda realtà.
2. Le rovine di New York
Rimasto solo, fece qualche passo verso le alture del cimitero e vide Parigi, lanciò su quell’alveare ronzante uno sguardo che già sembrava volerne assorbire il miele, e pronunciò queste parole grandiose: “A noi due adesso!”
Balzac, Le Père Goriot, 1842
Una galleria di immagini in chiaroscuro compone la trama della sigla di apertura: sullo sfondo si susseguono i diversi momenti della vita newyorchese (gli incroci, gli stimoli, le luci e i flussi), mentre al centro si installa la vicenda giudiziaria (il tribunale e le statue classicheggianti poste a difesa e simbolo della giustizia). Lo spettatore entra nel vivo del racconto in una sequenza collocata al termine dello spot: le mani intrise di sangue detengono nascoste dietro la schiena – un retro che indica lo sfondo autentico della giustizia, ma anche le forme di potere che contraddistinguono le relazioni cittadine – le “chiavi” del racconto. Sono le mani di Patty Hewes, da cui dipendono le trasformazioni della vicenda narrativa: le scene, i dialoghi e le evoluzioni psicologiche.
L’immagine contrasta con la trasparenza del colore (la lucida trasparenza del bianco è ancora distinguibile, anche se in parte offuscata dalla patina crepuscolare che avvolge i momenti della sequenza) ma anche con l’immobilità (la fissità della scultura contrasta con la storia e l’uso quotidiano: le mani vive e insanguinate) delle statue poste a difesa del tribunale. La dea della Giustizia è solo una parvenza, un’opinione come le altre; tuttavia, in assenza della colpa o di altre mediazioni morali, è tutto ciò che resta: non solo frappone uno schermo – una soglia, un limite psicologico, come anche le armi e la violenza – tra i membri della società, ma consente ai più audaci di perseguire le strategie necessarie al raggiungimento del successo personale (che è l’unico fine). Giustizia e virtù, nel caso di Damages, sono “maschere” e illusioni; tuttavia, come forze “naturali”, esse esercitano sui singoli una pressione insormontabile. Mi riferisco al timore di preservare la propria reputazione dinanzi allo sguardo degli altri e rispetto a quei costumi senza i quali si determinerebbe una disgregazione incontrollabile. La reputazione è anch’essa una parvenza, e lo dimostra la disperazione con cui Frobisher tenta di pubblicare, per salvaguardare la stima degli altri e dei familiari, un’autobiografia nel mezzo del processo. Mi riferisco anche alla tenacia con cui Patty si fregia di “buone intenzioni”; “buone” non per il valore morale che racchiudono, bensì per il consenso di cui godono presso i molti: tutte le opinioni sono “massimamente violente” e diventano efficaci sulla scorta delle circostanze di vita. La presunta superiorità morale serve a perseguire, protetti da una labile ma potentissima corazza, le strategie più efficaci ed efferate. Chi al contrario, come il compagno o la cognata della giovane avvocatessa, è mosso da buone intenzioni o da principi morali, è destinato ad una clamorosa sconfitta.
Patty: Se dovevo perdere i clienti, è meglio averli persi con te. Avrai molte opzioni adesso.
Tom: È un momento entusiasmante.
Patty: Stai decidendo se andare da Cutler o se metterti per conto tuo?
Tom: Si, esattamente.
Patty: Se vuoi parlare di strategie, discutere di alcune idee, sono tutta tua, senza condizioni.
Tom: Molto generosa.
Patty: Il caso ruota attorno a Gregory Malina. È legato a Frobisher in qualche modo. Scopri chi gli sta dando ordini.
Tom: Lo farò, lo farò.
Patty: Perché sei diventato avvocato, Tom?
Tom: Te l’ho già detto, per un sacco di motivi.
Patty: Io so esattamente perché l’ho fatto.
Tom: Per via di tuo padre.
Patty: Non me ne frega un cavolo di cambiare il mondo, ma detesto i prepotenti.
Tom: Mi dispiace per tutto quello che hai passato.
Patty: Mi ha reso quella che sono. Tu sei un ottimo numero due, Tom. Lo sei sempre stato. Mi hai sempre detto la verità, sarà difficile senza di te. Ma c’è differenza tra essere il numero uno ed essere il numero due. Tu sei un numero due, è il tuo talento e il tuo limite.
Tom: Sei venuta per dirmi questo?
Patty: No, sono venuta nell’interesse dei clienti. Voglio solo ciò che è meglio per loro. Portali da Cutler. Affogherai là fuori da solo, Tom. Non voglio che i clienti affoghino con te. Non puoi farcela, non sei pronto.
(Prima stagione, episodio cinque, dialogo tra Patty e Tom Shayes)
Patty riconquista i clienti e il fidato collaboratore. La difesa dei più deboli è lo schermo dietro cui abilmente si nasconde. In realtà, è vittima di un desiderio infantile: opporsi ai più forti e vederli infine “sanguinare”. Ma, più ancora, desidera un caso pieno di insidie – adrenalina, piacere, masturbazione – per confermare a se stessa e agli altri l’intelligenza e la furbizia che contraddistinguono il suo modo d’essere. Il caso giudiziario è dunque una nuova potente distrazione, ma anche il momento in cui si “riaccende” l’amor proprio, l’egoismo.
Senza la protezione della giustizia, come dell’apparente rispetto delle regole, il mondo a cui appartiene e dichiara fedeltà, Patty non potrebbe agire in modo così incisivo, libera da ogni freno. Frobisher, che fa parte della cerchia dei broker e dei finanzieri, deve invece costruire e difendere una reputazione precaria, non potendo ostentare le armi (e i vessilli) di un’opinione pubblica e istituzionale; per questo è vulnerabile, e conserva, fino all’incontro con Patty, ancora un senso intimo dei limiti e della colpa. Se per un verso l’opinione esercita sui molti una pressione invalicabile mediante il potere dell’imitazione, dall’altro i più talentuosi (e collocati in alto) si guardano bene dall’incrinare la parvenza – illibata, anche se museale – di alcune opinioni. La sfrontatezza con cui i protagonisti indugiano e agiscono (pensieri, scelte e azioni), si giustifica sulla stabilità – una “naturalità” che equivale a reiterare, conservare – delle opinioni condivise, nel cui retro è possibile condurre i piani più crudeli e spietati. Ciò vale per la giustizia, ma anche per il ruolo e la vocazione personale: “tu sei un numero due, è il tuo talento e il tuo limite”. Nelle scene che precedono il dialogo citato, Tom è assalito da allucinazioni che confermano quell’immagine da “numero due” che le circostanze e lui stesso, per debolezza e abitudine, hanno concorso a creare. L’opinione rivela un effetto assai più intimo di quello che sembra: è un abito di cui è impossibile privarsi, che genera turbe, angosce e allucinazioni quando viene urtato o messo in discussione; solo chi dispone di talento e smisurato egoismo può muoversi con qualche successo nella gabbia di queste “maschere” – una “seconda pelle” che, insinuatasi sin nelle più remote profondità dell’io, viene percepita come una “seconda natura”14 – che sono forse tra le più efficaci forme di potere sulla persona, per quanto sfuggenti e labili possano apparire. Se l’opinione “inchioda” i più deboli, è altrettanto vero che anche i più furbi finiscono col tempo per assumere una sola funzione (quella dei furbi, appunto), divenendo essi stessi, seppur in modo molto diverso, vittima dell’opinione e dello sguardo altrui. Del rapporto tra opinione e reputazione esistono nel racconto ulteriori livelli e sfaccettature, di cui si scriverà tra poco.
Soggiogato da un’avvocatessa che ama soltanto dissanguare le prede opulente, Frobisher incontra il detective Messer, che offre segretamente servizio anche ai privati. Come Patty, Messer è, per via dell’appartenenza professionale, privo di ogni remora:
Frobisher: Cosa possiamo fare per tenerla tranquilla?
Messer: Le offra più soldi.
Frobisher: No, non posso. Se il giudice lo scoprisse, potrebbe accusarmi di subornazione di testimone.
Messer: C’è sempre una soluzione.
Frobisher: Che tipo di soluzione?
Messer: Una definitiva.
Frobisher: Cosa? Oh Dio, no! Qui stiamo parlando di una vita umana, quella è una ragazza innocente, non ha fatto nulla, era solo al posto sbagliato nel momento sbagliato. Messer: A volte è sufficiente.
Frobisher: Fai sul serio, non è così? Stai davvero proponendo…
Messer: Senta, signor Frobisher, lei è coperto ed ha le risorse. La cosa è più semplice di quanto pensi.
Frobisher: Si, certo che lo è. Quando diventi abbastanza potente, prima o poi ti viene presentata ogni opzione possibile. Un giorno stai vivendo tranquillamente la tua vita, e il giorno dopo si presenta un uomo alla tua porta che ti offre la decisione finale.
Messer: Si tratta solo di questo, di un’altra decisione.
Frobisher: No, no. Imbocchi quella strada e poi cosa diventi? Non si torna più indietro. No, no, no.
Messer: Pensi alla sua famiglia.
Frobisher: Non dirmi quello…
Messer: Questo caso finirà per distruggere la vita di qualcuno. Perché deve essere la sua?
(Prima stagione, episodio due, dialogo tra Frobisher e Messer I)
Nel dialogo si fa riferimento a Katie Connor, cognata della giovane avvocatessa, e temibile testimone. La parentela tra le due giovani donne è il motivo per cui Patty ha assunto Ellen.
Pochi istanti dopo, con l’aggravarsi del pericolo, per il timore che Patty è riuscita a insinuare, Frobisher valica il confine e prende la decisione “definitiva”. Ma, curiosamente, ciò avviene al termine di un atto sessuale consumato come se si trattasse di una masturbazione davanti a un video:
Frobisher: (al telefono) Procedi.
Messer: Si, signore.
(Prima stagione, episodio due, dialogo tra Frobisher e Messer II)
Pur essendo una pratica solitaria, perché fa rivivere in vitro esperienze più ampie, la masturbazione acquista un valore liminare: la disgregazione dei confini e il superamento definitivo della colpa. Al “termine” si stralcia il velo che avvolge di una presunta e falsa “naturalità” le convenzioni, le abitudini. Al contrario diviene schiacciante il piacere individuale, con i soli limiti esterni della reputazione e delle opinioni, che sono però anch’essi labili e transitori: illusioni ad uso e consumo degli ambiziosi.
Infranto l’ultimo tabù, che il potente meccanismo della colpa o del “dover essere” ancora esercitava, Frobisher diviene sempre più simile a Patty. Lei prende solo i casi che la divertono, e lui perde ogni inibizione, entrando a far parte del medesimo gioco. Uno stato in cui una doppia temporalità si impossessa dell’individuo: l’appartenenza a una maschera e al contempo la capacità di sottrarsi ai lacci e alle catene che essa, in determinate circostanze, impone. Stando ai personaggi, questo è il massimo grado di libertà di cui si può godere. Ma è anche l’origine dei pericoli che incombono sulla tenuta sociale? Non proprio, dal momento che occorre distinguere due società parallele, anche se tra esse comunicanti. La società stretta, i cui membri incarnano questo stato psicologico avanzato, e la società di tutti gli altri, che si governa – oppressa dal bisogno e dalla necessità – mediante la legge e, fintanto che reggono alcune opinioni condivise, la colpa17. La prima società è resa possibile dal denaro e dal lusso, i vettori delle trasformazioni psicologiche più sofisticate: il denaro permette quell’autonomia necessaria a privilegiare nelle relazioni gli interessi personali, e permette dunque la realizzazione di uno stile di vita che si giustifica sulle opinioni e lo sguardo altrui. Senza lusso non si dà società stretta, ma solo l’illusione di farne parte, dal momento che le pratiche, e con esse il potere, si infrangono di fronte alla necessità.
La società stretta, che si staglia come un bagliore su uno sfondo oscuro, è il regno della comunicazione, del linguaggio. Ovvero, del tempo dedicato alle rappresentazioni e all’immaginazione, che costruiscono relazioni a distanza. Ma anche delle buone maniere, che identificano una medesima comunità. È emblematica la cena in casa di Patty con Ellen e il fidanzato: lui perde ingenuamente il controllo, rivelando quel che pensa; in questo modo diviene estraneo all’ambiente, e sfuma ogni possibilità di perseguire l’obiettivo che ha a cuore: sottrarre Katie dalla gogna di Patty. Le buone maniere creano una apparente centralità dell’altro, un’attenzione al dolore e alla sofferenza che possono trafiggere la persona (“Frobisher: Stiamo parlando di una vita umana”). Ma è un equilibrio precario, valido fintanto che le mire personali e le circostanze lo consentono. Nei momenti di disequilibro, tuttavia, il singolo si sottrae alla moltitudine di chi osserva (i familiari o i media), spingendosi anche se segretamente nei territori infausti del “brutto” e del “mostruoso”: la solitudine e il tremore di Patty, nel mentre il tentato omicidio di Ellen si consuma all’interno del suo appartamento newyorchese. Patty è il possibile punto di arrivo di una dinamica interna al piacere, l’infrangersi dello schermo protettivo costituito dalla moltitudine, a cui succede il vuoto e il “deserto”.
La società stretta è l’immagine più avanzata della vita sociale; al contempo è anche la presa di coscienza di una potenza della “carne” da cui non è dato sottrarsi.
La felicità variabile di pochi servi-padroni del desiderio è pagata dall’infelicità psicofisica di moltissimi servi. Ai quali – forse neppure più servi poiché il padrone non sa più che farsene di essi – al massimo è concesso il divertimento dei consumi, la bolla di simulacri prodotta dalla modernità industriale e metropolitana. La macchina finanziaria, presa nelle sue spirali, è indotta sempre più a considerare tutto questo carne da macello: materia necessaria alla propria sopravvivenza. Sangue che fa denaro e denaro che fa sangue. In questi territori si alimenta anche la pornografia on line. Ma mentre la violenza della finanza sembra dimenticare il mondo che vi si consuma, ammassando corpi come in un tritacarne, come in un polverizzatore, in un forno crematorio, la pornografia gode della fragranza delle sue pratiche dal vivo, in corpore vili: della sua paradossale, tragica congiunzione tra impossibilità dell’individuo e impossibilità del società. Della sua natura remota eppure sempre di nuovo tangibile, attingibile (Abruzzese, 2015: 78).
Gli “altri” sono pedine nelle mani di Frobisher e Patty, una massa di esclusi e diseredati, “carne da macello”. Tuttavia, le due realtà hanno un fondo comune, che è dato dalla superiorità dei bisogni, siano essi necessità o desideri. Il piacere è un bisogno secondario, che nasce dalla soddisfazione dei bisogni primi, ma viene percepito dai membri della società stretta come una “seconda natura” (Campbell, 1992: 50-83). Su questa polarità si costruisce il rapporto verticale tra le due dimensioni: la società stretta regna sulla seconda fungendo da vetrina, e dunque da massima attrazione per gli altri, la cui unica aspirazione – la causa della creatività che mettono in gioco, ma anche per estensione il motivo della dinamica che rende mobili i confini sociali – è accedere e far parte del circolo superiore.
La sigla di apertura è scandita da When I Am Through With You eseguita dal gruppo The VLA:
When I am through with you,
There won’t be anything left.
When I am through with you,
I’m on to all you have left.
When I am through with you,
When I am through with you,
There won’t be anything left.
Il verso può racchiudere l’immagine di Frobisher in rovina; ma può anche rappresentare l’immagine della maturità che Ellen ha conquistato. Perduta l’esuberanza e l’ingenuità giovanile, Ellen ha acquisito una sensibilità di grado maggiore: uno “sguardo dall’alto” che permette una “performance” scaltra ed efficace.
Anche se nel finale Ellen abbandona il “folle” circo, lo fa temporaneamente, per prendersi una pausa e crescere il figlio. Fuori dal gioco che Patty le ha insegnato, molto semplicemente non si è, non si gioca. Ellen ha conquistato una freddezza che è l’impronta di una morte ormai avvenuta, ma anche il segno di una sensibilità intensificata, spoglia dalle antiche e ingenue tensioni, emozioni.
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