Dall’etica al potere, fino alla depressione e l’ideologia. Francesco D’Isa fa un po’ di domande a Franco “Bifo” Berardi, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Futurabilità.
In copertina: Tano Festa, “Obelisco, 1963”, oggi all’asta da Pananti Casa d’Aste
Non so parlare con i morti, ma anche comunicare con i vivi è complesso. Quando ero uno studente di filosofia, ad esempio, ogniqualvolta leggevo un testo particolarmente interessante ero colto dall’impeto di discuterne alcuni aspetti col suo creatore. Non potendo contattare Nietzsche o Wittgenstein, non mi negavo una chance coi viventi, per lo più delle star della filosofia novantaguenarie, che puntualmente (e giustamente) mi ignoravano. Col tempo non ho perso il vizietto, anche se, assieme alla qualità e alla brevità delle mie domande, è aumentata anche la percentuale delle risposte. Così, quando mi è stata offerta la possibilità di intervistare Franco «Bifo» Berardi in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Futurabilità, mi sono un po’ sfogato e l’ho riempito di domande, enigmi e persino un trabocchetto alla domanda uno (scusa Bifo, e grazie); ecco quel che ne è venuto fuori.
Francesco D’Isa: «Prima di formulare qualunque domanda, lode o critica a Futurabilità, ho dovuto affrontare una resistenza interna. Era questa: quando si parla di filosofi con una posizione politica ben delineata (da sè o da altri, poco importa), tutto quel che si dice viene anzitutto interpretato come uno schieramento, cosa che può falsare la genuinità dell’analisi. È vero che ogni pensiero è anche politico e che a ogni credenza metafisica corrisponde un’etica, consapevole o meno; ma sebbene le interpretazioni siano flessibili, certe cose fanno più resistenza, come scriveva Eco. Da cui la domanda: è possibile che la propria posizione etica influenzi quella metafisica più del viceversa?
Per rispondere ti propongo un esperimento mentale. Se, per ipotesi, giungessi a una convinzione filosofica inoppugnabile che va fortemente contro la tua etica attuale, quale delle due abbandoneresti? Faccio un esempio; anch’io, come te, non sono di fede cristiana. Supponiamo che si scopra con assoluta certezza che il Dio dei cattolici esiste davvero. Saremmo tenuti ad accogliere tutto quello che rifiutiamo dell’etica cattolica, come (per dirne una) la posizione ostile nei confronti dell’omosessualità?»
Franco Berardi: Sono convinto che il pensiero segua direzioni che sono eticamente motivate. L’etica non discende per me da considerazioni metafisiche, al contrario le costruzioni filosofiche hanno un fondamento etico, si fondano su un atteggiamento verso il mondo, su un’aspettativa di vita.
La ragione per cui non credo in dio non discende da una visione filosofica che mi ha convinto dell’inesistenza di un essere supremo con la barba. L’esistenza di dio chiuderebbe il mio universo etico e mi imporrebbe di accettare un ordine indiscutibile di verità. A meno che con dio non si intenda la “comunità degli ornati” come dice Pavel Florenskij, in quel caso ammetto che dio c’è, ma non mi piacciono molto gli effetti che sta producendo nel mondo. Dunque d’accordo, l’immaginazione filosofica si fonda su un’intenzione etica. Ma dove trova fondamento la scelta etica stessa? Si tratta di un’astratta coerenza con leggi etiche universali? Non credo. La mia idea di etica è molto dipendente dalla dimensione estetica, intesa come dimensione del sentire. Sentire la presenza dell’altro godere o soffrire in sintonia o in dis-sintonia con l’altro. Questo è il piano su cui l’etica si fonda. Se la sensibilità estetica ed erotica si ottunde, allora scompare ogni fondamento per la solidarietà, per la scelta etica.
Veniamo a Futurabilità. Nel libro sviluppi la trattazione su tre assi: possibilità, potenza e potere. Di queste categorie, quella che più si discosta dall’uso comune del termine è il potere, che definisci come una forza essenzialmente negativa:
-->Chiamo potere le selezioni (e le esclusioni) che sono implicite nella struttura del presente come una prescrizione: il potere è la selezione e l’imposizione di una possibilità tra molte, e al tempo stesso è l’esclusione (e invisibilizzazione) di molte altre possibilità. Questa selezione può essere descritta come Gestalt (forma strutturante) e agisce come un paradigma.
La funzione attiva che in genere attribuiamo al termine potere, invece, la deleghi alla potenza. La natura delimitante del potere, inoltre, nell’epoca contemporanea vive un’ulteriore mutazione, perché gli sviluppi tecnologici, uniti alla struttura del capitalismo, la trasformano in una sorta di funzione automatica, extra-umana e fuori controllo. Ho capito bene? Credi che l’evoluzione delle IA possa amplificare questo meccanismo, che abbiamo avviato senza saperne dominare gli effetti?
Hai capito benissimo. Come tu dici credo che il potere sia essenzialmente una forma di riduzione, di negazione della molteplicità. Il potere è una griglia sull’universo del possibile che impedisce di vedere una parte di quell’universo, e trasforma quella parte che vediamo in una Gestalt, in una forma generatrice di forme. Una trappola.
D’altronde questa visione del potere non è mia personale stranezza, la condivide tutto il filone del pensiero anarchico con il quale come puoi immaginare mi sento largamente in sintonia.

La “tempesta di merda” con cui si apre il libro non è una novità; già in passato le tecnologie dell’informazione hanno innescato degli eventi per via della semplice interazione con la psicologia individuale e di gruppo. Per fare un esempio, la caccia alle streghe è stata probabilmente un effetto collaterale della diffusione della stampa e delle incisioni popolari. In ambito economico, l’importanza delle informazioni negli scambi commerciali è ben documentata già dal 1300 e a cambiare, più della struttura del sistema, è la velocità con cui si attua. In questo caso credi che una differenza quantitativa porti inevitabilmente a una differenza qualitativa?
Non sono d’accordo con l’inizio della domanda. Insisto che la tempesta di merda è una novità. È vero come tu dici che le innovazioni tecnologiche della comunicazione hanno sempre prodotto dei mutamenti nelle modalità del pensiero, e particolarmente dell’opinione pubblica. Il caso delle tecnologie di stampa lo dimostra: la diffusione del testo scritto rese possibile una diffusione della critica come facoltà cognitiva di massa. Ma in quel caso si verifica il contrario di una tempesta: dalla diffusione della scrittura a stampa, dalla riproduzione tipografica della parola discese nei secoli moderni un ordinamento logico del pensiero collettivo.
È anche vero che questo ha reso possibile la formazione di flussi irrazionali nel pensiero, come mostra il rapporto tra immagini demoniache popolarizzate e caccia alle streghe. Ma l’effetto complessivo della scrittura e della diffusione a stampa della scrittura è quello di un ordinamento del mondo, di una uniformazione delle attese. Il contrario accade per effetto della moltiplicazione elettronica dell’informazione. E penso senz’altro che una trasformazione quantitativa della velocità, dell’intensità e della pervasività della produzione semiotica produce effetti di sovraccarico mentale che ridefiniscono le modalità cognitive di ricezione. Il sovraccarico blocca la critica, oltre un certo livello di intensità. È questa la tempesta di merda.
La tempesta di merda è il passaggio verso un’altra velocità della mente umana? Può darsi, ma per il momento è una condizione di azzeramento della capacità di ordinamento della mente collettiva.
Oltre al contenuto del testo, ho apprezzato la scelta di uno stile di scrittura filosofico non standardizzato. Nel caso specifico, intrecciare dei dettagli biografici alla trattazione aiuta sia a vivificare che a delimitare l’ambito del saggio, perché ne esplicita il contesto esistenziale. Questo mi porta al tema della depressione. Tu scrivi «in questo libro sull’impotenza voglio parlare di me stesso e della mia disperazione, o piuttosto della mia visione ormai priva di speranza» e nel libro emerge più volte il ruolo ansiogeno e depressivo della società capitalista, una suggestione simile a quella di Mark Fisher in Realismo capitalista. Così come è sbagliato escludere la società dalle cause delle malattie mentali, però, lo è anche ignorare le sue cause biologiche e biografiche. La società è deprimente o sono depresso e dunque la vedo tale? Non è un confine di facile demarcazione, perché laddove vivere in una distopia senza dubbio deprime, si può desiderare il suicidio anche se si è il sindaco di Utopia. Non trovi che sia più corretto parlare di gestione più o meno efficace della malattia mentale? Ci sono patologie che nella società attuale si curano con maggiore efficacia (ad esempio l’epilessia), mentre altre cadono in un contesto che ne ostacola la cura. Più che alla depressione penso alla schizofrenia, la cui gestione era forse migliore nelle società tribali che in quella attuale, perché conferiva un ruolo al malato (lo sciamano) che non ha un corrispettivo nella società contemporanea. La depressione è una lente che consente di mettere a fuoco dei problemi che altri non vedono, ma può essere anche deformante? Filosoficamente, ad esempio, le stesse premesse teoriche possono gettare nello sconforto uno Schopenhauer e portare all’illuminazione un Buddha.
Troppe domande in una domanda sola. E tutte difficilissime.
La società è deprimente o sono depresso e dunque la vedo tale? Mi chiedi. Rispondo che la società è deprimente perché produce dei vissuti di depressione. Cosa altro è la società se non il luogo di intersezione di flussi psichici? Come si formano questi flussi psichici se non nella interazione sociale? L’espressione “gestione della malattia mentale” non mi piace molto, anche l’espressione “malattia mentale” non mi piace molto. La sofferenza non è indice di “malattia”, non lo è necessariamente. Può essere al contrario indice di una percezione acuta della decomposizione, del venir meno, dell’essere per la morte. Certo, la psicopatologia sociale non deve dimenticare mai che l’agente psichico è singolare, e che l’elaborazione psichica è un percorso singolare. Entro le stesse condizioni tecno-sociali due persone diverse possono elaborare emotivamente l’ambiente in maniere differenti, anche opposte. Ma lo spirito del tempo si forma nell’incontro e nella fusione di flussi psichici e di flussi mediatici, e lo sguardo sociologico (e anche quello politico) deve comprendere la direzione di questi flussi, il loro divenire, il loro comporsi e dissolversi.
Questo mi fa pensare alle tue bastonate a Heidegger, Schopenhauer e Nietzsche. Non ti nego che mi sono molto divertito quando definisci il primo «[…] un piccolo uomo dagli orizzonti limitati, un codardo di scarsa sensibilità che trasformò la paura in un fondamento concettuale», ma non è rischioso liquidare così degli autori che hanno fatto la storia della filosofia? O si tratta di un tratto del tuo stile di scrittura? D’altra parte converrai che non si è mai “d’accordo” con un filosofo: se lo fossimo dovremmo smettere sia di leggere che di fare filosofia, perché saremmo arrivati al traguardo. Mi domando se non valga anche per i filosofi quel che scrivi di Houellebecq: «non chiedo agli scrittori di confermare le mie idee: gli chiedo di aiutarmi a vedere il mondo con lo sguardo di qualcun altro, dato che il mondo è il punto di intersezione dinamica tra innumerevoli sguardi differenti.
Certo che vale per i filosofi quel che vale per Houellebecq. È quello che dicono Deleuze e Guattari quando parlano dei concetti come scatole di arnesi. Quanto al modo in cui scrivo di Heidegger e compagnia non è mia intenzione liquidare gli autori che hanno fatto la storia della filosofia, come dici tu. Cerco di conoscere il vissuto dei pensatori, perché questo mi aiuta a capire meglio la loro visione. Negli ultimi anni ho cominciato a leggere libri che prima schifavo un po’ perché li consideravo superficiali: le biografie dei pensatori, possibilmente scritte da filosofi, non da giornalisti. Questa estate ho letto il grosso volume di Wolfram Eilenberger Il tempo degli stregoni. Parla di quattro filosofi importanti (Heidegger, Cassirer, Benjamin e Wittgenstein) nella scena della Germania degli anni dieci e venti. Ho capito delle cose su Wittgenstein che mi erano completamente sfuggite leggendo i suoi libri e quelli di Paolo Virno. I libri di biografia filosofica di Irvin Yalom, che è uno psicoanalista e un narratore, mi hanno divertito e mi sono serviti a capire delle cose che prima mi erano sfuggite e erano rimaste un po’ sullo sfondo. La cura Schopenhauer mi ha permesso di capire quanto importante è il rapporto con la madre nel pensiero del povero Arthur.
Sempre sulla depressione: la retorica pessimista, sebbene sia fondata su analisi convincenti, non rischia di avvantaggiare la retorica del populismo e delle destre estreme, che, sebbene ingannevole, è più consolante e dunque accattivante? È possibile una retorica che chiami all’azione senza mentire né semplificare?
Pensiamo che sia meglio far finta di niente? Pensiamo che accantonando la depressione dal campo del discorso politico o filosofico la depressione non produca i suoi effetti solo perché la ignoriamo? L’esplosione del cosiddetto populismo, che io definirei ossessione identitaria, è un effetto della depressione, non della “retorica del pessimismo”. Pensiamo agli ultimi anni, quelli che seguono all’estate greca. La politica dell’Unione europea nei confronti del popolo greco, dopo il referendum di luglio, è stato un comportamento orientato all’umiliazione. Il subconscio degli europei ha registrato la gogna pubblica dei greci come una lezione umiliante che deve servire per tutti. L’umiliazione ha generato senso di impotenza e desiderio di vendetta. Da quel momento la vendetta è diventato l’unico orizzonte del desiderio collettivo. vendicarsi dei governi liberal-democratici che ci ha dissanguato e soprattutto umiliato. E la vendetta non vuole sentire ragioni. A chi si vuole vendicare non importa se Trump gli rovinerà la vita, che tanto quella è già bell’e che rovinata. Importa solo che Trump sappia umiliare gli umiliatori. È il suo mestiere. Questa è la depressione che domina il nostro tempo.
Una domanda sul desiderio, che pongo in modo volutamente ingenuo: il desiderio è buono, cattivo o neutro? Nel libro scrivi che:
La generazione senile d’Europa può essere il soggetto di una rivoluzione culturale che prepari quella parte dell’umanità che ha goduto del privilegio coloniale a una redistribuzione della ricchezza e delle risorse. Una simile rivoluzione culturale dovrebbe partire da una critica del culto energetico della giovinezza che pervade la cultura moderna. L’ideologia della crescita illimitata e della competizione aggressiva è stata il pilastro dello sviluppo capitalista: ha nutrito le correnti romantiche e nazionaliste che hanno mobilitato aggressivamente la società occidentale moderna.
Alla radice dell’ideologia di una «crescita illimitata» si può anche ritrovare l’idea di una società basata sulla soddisfazione del desiderio. Quest’ultimo, che è intrinsecamente inesauribile, assunto a sistema non può che portare al collasso e alla frustrazione. Il desiderio, inoltre, è il frutto un’imposizione più che una libertà: dalla genetica alla cultura, rifiutarlo o correggerlo richiede degli sforzi immani – anche perché attraverso lo stesso desiderio plasmiamo gran parte degli strumenti con cui in seguito vorremmo valutarlo. Più che (od oltre che) alla liberazione del desiderio, non dovremmo impegnarci a una liberazione dal desiderio?
Liberazione dal desiderio? Lo ha già detto Lama Tzongapa e molti altri monaci sapienti. Ma non mi convince, non si può ridurre il desiderio all’attaccamento. Dell’attaccamento occorre liberarsi, della tensione acquisitiva occorre liberarsi, ma del desiderio non si può. Il desiderio non è volontà di acquisizione, ma energia proiettiva. Non c’è energia sociale senza desiderio, e il campo del desiderio non rimane mai vuoto, a livello sociale. C’è sempre qualche flusso che lo riempie, che lo anima, che lo attrae. L’errore filosofico che abbiamo compiuto negli anni ’70 (credo) fu quello di attribuire al desiderio una potenza unicamente positiva. Più tardi mi parve di capire che il desiderio non è l’attrattore buono, la forza di liberazione. Il desiderio non è una forza ma un campo di battaglia, un campo di interferenza di flussi differenti.
Tu scrivi che:
[…] l’applicazione delle capacità intellettuali al processo lavorativo causa un aumento della produttività, e quindi rende possibile una riduzione del tempo di lavoro necessario per la produzione di beni necessari alla sopravvivenza sociale. Anche se la popolazione cresce (come è accaduto durante gli ultimi quarant’anni) così come crescono le esigenze fisiche e culturali della popolazione mondiale, l’incremento della produttività dovuto all’automazione è di gran lunga sufficiente per una riduzione del tempo di lavoro necessario di ogni produttore. […] Il codice capitalista trasforma l’espansione dell’utile in accumulazione finanziaria e impoverimento della vita quotidiana. La prescrizione della crescita come modello culturale agisce sulla produzione sociale come una trappola semiotica che provoca una distorsione, trasformando la ricchezza possibile in effettiva miseria.
Se ho ben capito, sostieni che la produttività è in aumento per via dei progressi tecnologici e culturali, mentre il benessere è in calo, perché la società non favorisce una redistribuzione equa dell’utile, ma il suo accumulo nelle mani di pochi. La riflessione è fondata sulla verdicità di un dato non immediatamente intuitivo, ovvero che l’aumento della popolazione e delle sue esigenze sarebbe soddisfatto tranquillamente dall’incremento della produttività dovuto all’automazione. A che fonti ti rifai per sostenerlo?
Gli incrementi di produttività resi possibili dalle tecnologie automatiche sono largamente superiori all’incremento del fabbisogno di beni di consumo. Nell’ultima parte del libro fornisco un po’ di dati e un po’ di fonti che dimostrano come la produttività per addetto si sia moltiplicata in molti campi della produzione globale. C’è sicuramente un problema legato alla distribuzione delle risorse, e questo non è un problema facile per la politica, perché implica una riduzione del sovra-consumo della popolazione del nord del mondo. Gli effetti della colonizzazione sono destinati a produrre sommovimenti disastrosi, e una redistribuzione egualitaria non è nemmeno pensabile nelle attuali condizioni culturali e politiche. Una delle ragioni del riemergere del razzismo e del nazionalismo è proprio l’incapacità di fare i conti con l’eredità del colonialismo, che è la premessa per poter iniziare un processo di riequilibrio delle risorse. L’internazionalismo dei movimenti comunisti del secolo passato cercò di affrontare questo problema, almeno teoricamente: l’alleanza tra operai industriali del Nord del mondo con le masse contadine e povere dei paesi oppressi, il progetto maoista conteneva un’intuizione strategica di cui oggi è perduto il senso. Il concetto di egualitarismo e quello di internazionalismo, non sembrano godere di grande seguito ai nostri giorni. Ma senza internazionalismo e senza egualitarismo io vedo soltanto un secolo di guerra e di orrore.
Questo libro è stato pubblicato prima all’estero che in Italia, nonostante tu abbia una storia editoriale di tutto rispetto anche in patria. Come mai? Nonostante la fama internazionale hai difficoltà a pubblicare in Italia?
Le cose sono più complicate, a questo proposito. A partire dal 2008 ho pubblicato con editori americani qualche libro tradotto dall’italiano. Ma a un certo punto ho deciso di scrivere in inglese. Quando ho iniziato a scrivere Heroes ero in America, e ci ho passato un periodo piuttosto lungo. Quando avvenne il fattaccio di Aurora Colorado, con quel ragazzo dai capelli arancione che uccise una trentina di persone alla prima di Batman, mi misi a leggere i giornali e i notiziari online, e a raccogliere materiali per scrivere qualcosa, che poi crebbe fino a divenire un libro. Tutto il materiale che stavo montando era in inglese e mi venne naturale lavorare in quella lingua. Alla fine mi accorsi che mi piaceva, che scrivevo con più allegria (anche se si trattava di una materia niente affatto allegra).
Il mio inglese è un po’ bizzarro, ha bisogno di un editor di ferro. Però funziona meglio dell’italiano per andare dritti sulle cose, evitando il barocco hegeliano e anti-hegeliano che necessariamente mi porto dietro quando scrivo in italiano. In Italia non ho mai pubblicato con i grandi editori, quando mi è capitato di farlo è stata un’esperienza un po’ ammosciante. I miei editori italiani non pagano grandi anticipi diciamo così, mentre gli editori in lingua inglese pagano anticipi decenti, e il pubblico che compra i miei libri è molto più vasto all’estero di quello che avevo in Italia.
Capirai, il pubblico italiano si assottiglia per una ragione ovvia. Centoquarantaseimila giovani sono emigrati dall’Italia nel 2017, e questa tendenza dura da un po’. I miei lettori italiani si sono trasferiti a Londra Berlino e Barcellona, leggono libri nella lingua di adozione, li incontro più spesso all’estero che in Italia. Voglio infine osservare di sfuggita che mentre gli emigranti italiani sono stati centoquarantaseimila nell’anno passato, gli stranieri entrati in Italia nello stesso periodo sono stati centoventimila.
Complessa, interessante e ben articolata. Complimenti.
Maria