Se l’ironia è rivoluzionaria, la meta-ironia può essere solo reazionaria e nichilista?
di Simone Sauza
“L’ironia sta diventando una piaga sociale”
Questa affermazione non viene da uno scrittore o da un sociologo telegenico. A parlare è Vasco Brondi (aka Luci della centrale elettrica), in uno dei pezzi meno riusciti del disco Terra. Ma in che senso l’ironia è una “piaga” “sociale”? Significa che la diffusione di un linguaggio ironico sta disgregando il nostro stare assieme come collettività? Il pezzo si chiude con l’alternativa “moltitudine o solitudine”, echeggiante il luxemburghiano Sozialismus oder Barbarei. Ironia, moltitudine, solitudine: ebbene sì, Vasco Brondi sta parlando di postmoderno. In effetti, il linguaggio del dibattito pubblico è sempre più dominato da meta-linguaggi ironici, battutismo, meme, pagine Facebook sarcastiche: un tipo di strutture retoriche che comincia ad essere assimilato anche dal linguaggio della politica. Un punto di non ritorno di un processo iniziato con le battute di Andreotti e che passa inevitabilmente nel luccicante mondo del berlusconismo, fino agli hashtag (#ciaone, #staisereno) dell’universo post-Leopolda. Un fenomeno che si manifesta ormai come un imperativo. Il dibattito o è ironico o non è; la seriosità, in un perverso twist epocale, rende ridicoli. Ma andiamo con ordine: come si è arrivati a questa supposta ironizzazione del linguaggio che permea la cultura postmoderna? E questo dilagare dell’ironia – come alcuni sostengono – neutralizza la lotta politica o ha forse una portata politica in sé?
Ironia come ragion televisiva
La storia dell’ironia è quella di uno slittamento concettuale. Una storia nobile iniziata come linguaggio “anti-sistema”, che parte almeno dalla strategia socratica di dissimulare ignoranza per – si direbbe oggi – asfaltare gli avversari, all’ironia freudiana come strategia per “dire” l’interdetto, una dissimulazione per rompere il muro del tabù. In mezzo, c’è poi tutta una frangia di agitatori culturali d’antan come Luigi Pulci fino all’ironia illuminista degli ideologues. In questo macroinsieme l’ironia aveva una funzione chiara: smascherare l’ideologia, mettere in questione il Potere attraverso la dissimulazione. Fatti i dovuti distinguo, questo tipo di ironia – che chiamerò di primo livello, in quanto basata su un primo livello del rimando semantico – è la forma ironica durata fino a novecento inoltrato. Poi qualcosa è cambiato.
È mutato innanzitutto il modo di produzione capitalista. Un cambiamento che ha i suoi effetti sovrastrutturali sulla forma mentis dell’epoca. Nella seconda metà del novecento comincia a esaurirsi il capitalismo fordista incentrato sulla catena di montaggio e, con esso, quella che abbiamo imparato a chiamare modernità. Un processo storico che culmina nell’esplosione del lavoro immateriale cognitivo, fino all’assestamento del cosiddetto platform capitalism: sharing economy, e-commerce, prosuming (l’indistinzione tra produttore e consumatore portata dal digitale, in cui, ad esempio, le attività degli utenti sui social network producono contenuti che contribuiscono al profitto dell’azienda). Il Capitale diventa una piattaforma che mette a valore non più la forza del lavoratore, ma la sua “anima” e la sua capacità di creare cooperazione collettiva (sentimenti, abilità relazionali e sociali, linguaggio, vale a dire il marxiano “general intellect”). Dopo la modernità comincia una nuova fase del capitalismo. All’uomo nuovo vengono richieste skills sempre più attinenti alla sfera comunicativa, anche laddove il lavoro sia di tipo impiegatizio. Ma con la fine della modernità decade anche una percezione lineare della storia e del tempo tipicamente illuminista. La cosiddetta post-modernità non si presenta tanto come una fase successiva della storia, quanto come l’arrestarsi stesso del tempo storico. Basti pensare alla pletora di ritorni-a, di revival, tanto in ambito politico che musicale o letterario, a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. L’esplosione del digitale, con la possibilità sconfinata di archiviare dati, non ha fatto altro che acuire questa a-temporalità, questo presente infinito che può guardare soltanto indietro ricombinando e assemblando quanto immagazzinato nella sua memoria senza poter creare ex nihilo.
Questo mutamento assume i contorni di un enorme decostruzione della concezione del “futuro” così come era stata conosciuta. Un cambiamento evidente già nella cultura pop del cinema e della letteratura, dove si passa da una visione futuristica progressista, incentrata cioè sull’immaginazione ottimista di nuove tecnologie che danno luogo a nuovi e migliori possibilità del vivere associato (gadget che avrebbero migliorato la nostra vita, robot-maggiordomi, macchine volanti), a una visione cupa, senza speranza, spesso poco “fanta”-scientifica, più che altro un worst-case scenario ancorato alla deriva del presente attuale. Ecco allora che buona parte di questa fantascienza “antifantascientifica” trabocca di virus, disastri ambientali, distopie politiche (prendete libri come la Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer, film come I figli degli uomini o serie TV come The Handmaid’s Tale). Proprio quest’attacco all’immaginario, quest’incapacità di pensare un futuro alternativo, ha portato a un paradosso. Se la postmodernità si presenta come fine del tempo lineare, ed essendo il tempo – inteso come “accadere” delle cose – incessante, qualcosa dovrà comunque succedere nel mondo sociale e culturale: quello che succede è un infinito gioco di riproposizione, riproduzione, modificazione del già visto. La postmodernità altro non è che questo enorme gioco-labirinto del ricombinare, citare, del cut-up, organizzato come logica culturale. Il postmoderno sconnette, decontestualizza, frammenta la realtà. Anche per questo rifiuta la linearità storica. La realtà può essere solo assemblata (mai definitivamente), creando forme apparentemente sempre nuove, in un gioco infinito di citazioni e ibridazione che, però, non può mai avere fine. Ma questo enorme “gioco” avviene paradossalmente all’interno di un sistema (il capitalismo nella sua fase tarda) che ha inglobato tutto: e questo tutto va inteso nella maniera più letterale possibile. “La postmodernità è il capitalismo senza più residui e opposizioni”, scrive Fredric Jameson nel celebre Postmodernismo. La logica culturale del tardo-capitalismo. Le proteste antisistema, i simboli anticapitalisti, la letteratura anticapitalista, persino le battaglie per i diritti civili possono diventare elementi inglobati dal sistema stesso in una sorta di logica auto-immunitaria. Le pratiche e i rituali del vecchio mondo diventano nella postmodernità oggetti estetici: il volto di Che Guevara, Mao serializzato da Andy Warhol, ma anche l’assimilazione di un pezzo delle lotte LGBTQ all’interno di formazioni politiche conservatrici. In questo modo, il paradigma dominante alla fine della modernità viene fatto apparire come insuperabile. Per questo un autore come Mark Fisher può parlare di un “realismo capitalista”, cioè dell’idea che ha colonizzato l’immaginario sociale attuale per cui non esiste alcuna alternativa a questo modo di produzione. Il “realismo capitalista” svuota di senso la nozione di futuro come orizzonte aperto di possibilità. È la fine del pensiero utopico. E questo proprio mentre Fisher parla dell’epoca, quella postmoderna, che ha massimamente frammentato l’idea di Reale.
Ma c’è anche dell’altro. La TV passa dalla sua esistenza materiale di oggetto d’arredamento futuristico a modo di essere; da tecnologia a forma culturale. A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, in special modo negli Stati Uniti, il linguaggio televisivo, la sua intera estetica, si satura di autoreferenzialità: emerge la metafiction (penso ad esempio a Moonlighting con Bruce Willis, in parte a Seinfeld o agli innumerevoli programmi sconosciuti in Italia come il Garry Shandling’s Show), esplodono le citazioni e i rimandi tra show televisivi diversi (inutile citare i vari Letterman, Jay Leno e così via fino alla geniale meta-ironia di un programma dei tardi ‘90 come Celebrity Deathmatch); ma tutto questo è visibile anche nell’animazione per adulti come ne I Simpson prima, e, al massimo grado, ne I Griffin poi, dove il gioco ipertestuale con i personaggi e gli oggetti della cultura pop costituiscono l’essenza dell’ironia dello show. Senza contare la natura multilivello del medium televisivo in sé: immagini poste accanto a suoni, guardate da spettatori consapevoli della finzionalità degli attori e dei format televisivi. Un gigantesco maelstrom ironico bidimensionale. Ecco, decenni di fruizione televisiva hanno fatto sì che questo “logos” permeasse il modo di pensare e di interagire della gente. E questo proprio in un momento di morte della TV classica propriamente detta. Come se, esaurendosi come mezzo, la TV ci avesse lasciato in eredità il suo paradigma di razionalità. Pensiamo attraverso le griglie logiche dei format televisivi; ognuno vuole diventare lo showrunner della propria vita.
Lotta (ironica) per il riconoscimento
Questo nuovo corso dell’ironia – che chiamerò d’ora in avanti “metaironia” – si basa su una dinamica precisa: il riconoscimento. Il postmodernismo, come avanguardia artistica, tanto in TV che al di fuori di essa, negli anni ’80 ha giocato sempre più con le immagini, i testi e tutti i segmenti culturali possibili del pop. In questo mondo post-illuminista in cui i fondamenti ultimi, il senso dell’autorità e delle istituzioni vengono relativizzati, non abbiamo più nessuna virtù da attestare pubblicamente, come invece avveniva, ad esempio, nel microcosmo borghese descritto da Thomas Mann ne I Buddenbrook: se prima lo spazio pubblico si presentava come la dimensione in cui i soggetti esibivano i propri valori (decoro, rispettabilità, operosità), ora la comunità non è più tenuta insieme da un sistema valoriale condiviso e non scritto. I legami ora sembrano composti dalle immagini in cui siamo immersi nel quotidiano. Una dinamica che permette di riconoscerci, attivare delle identità, come, a un livello più superficiale, avviene ad esempio nella fanbase di una serie TV. Nel saggio E unibus pluram. Gli scrittori americani e la televisione, David Foster Wallace scrive:
Gli americani cominciano a sembrare uniti non tanto da una serie di valori comuni, quanto da immagini comuni: ciò di cui siamo testimoni è diventato quello che ci lega.
-->David Foster Wallace sta parlando di quel momento della storia della TV in cui i programmi hanno assunto questa posa autoreferenziale, della TV che parla di se stessa, di pezzi degli show televisivi che citano e richiamano altri pezzi di show televisivi e in cui lo spettatore è appagato dal capire i vari richiami. Ma è una dinamica che è forse ancora più vicina e compiuta nella nostra epoca dei social. Molti di questi meccanismi funzionano grazie alla dinamica del riconoscimento – dinamica alla base del concetto di inside joke – che permette di formare una micro comunità, al cui interno si creano nuovi livelli di ironia in una moltiplicazione potenzialmente infinita. Prendiamo due esempi noti a chi frequenta i meandri più hipster e avanzati dell’internet italiano. Un caso è quello dello Sgargabonzi, ormai conosciuto come quello che lo storico della letteratura italiana Claudio Giunta ha definito su Internazionale “Il miglior scrittore comico italiano”. Si tratta dello Sgargabonzi, una pagina Facebook (l’autore scrive anche per magazine online e fa spettacoli dal vivo) incentrata fondamentalmente sulla mimesi dei linguaggi usati dall’utente medio sui social. La pagina funziona come cassa di risonanza del conformismo e della banalità media nell’uso dei social network. Dallo status convinto di aver sparato la critica definitiva alla “Politica politicante™”, la propria “fiocinata” arguta, con tanto di uso di smile “;)”, all’attestazione di stima per il cantautore/intellettuale santificato dalla cultura ufficiale (De André, Pasolini, Carmelo Bene), al refrain (con annesse variazioni sul tormentone estivo del momento). Ma su questa base viene poi innestato molto altro; come, ad esempio, l’uso postmoderno dei riferimenti ossessivi all’oggettistica e ai brand del mercato dei consumi nazionalpopolare: Saclà, Bofrost, Sammontana Italia, le cialde Kimbo, il Più&Più Yomo; così come ai casi di cronaca nera italiani più celebri. Un Don DeLillo con lo humor di Nino Frassica, o viceversa. A tutto questo si aggiungono il non-sense e le ulteriori stratificazioni di senso composte dalle interazioni con pagine Facebook mainstream, dove lo Sgargabonzi tagga e interpella (senza risposta) i vari Fedez, Tommaso Paradiso, Gabbani, in un’auto-mimesi in cui lo Sgargabonzi stesso è parte dello star system. In questo piccolo parterre fictionale virtuale – e qui siamo a un tale meta-livello da far impazzire un Roland Barthes qualunque – rientra, ad esempio, lo stesso Claudio Giunta (puntualmente taggato insieme allo scrittore Christian Raimo, che però interagiscono ai tag, alimentando la proliferazione dei livelli di ironia). Lo spettatore-tipo dello Sgargabonzi deve conoscere sia i “personaggi”, sia le dinamiche, sia i linguaggi usati dagli stessi (es. il mondo della sinistra di Raimo). Se escludiamo parte dei testi scritti e recitati, che seguono a volte una comicità più conforme, il lettore ignaro delle coordinate di questo sistema-mondo è tagliato fuori dal potenziale ironico. Non ride. Il post, depotenziato dei livelli di ironia sedimentati, risulta incomprensibile, non attiva quel legame di cui parlava Foster Wallace. Un post potrebbe essere un semplice “Rileggendo (tutto) Pessoa”, oppure:
Sarò, al solito, molto chiaro. Se l’onorevole Carlo Calenda non è un OTTIMO politico, questa qua non è una pagina ma una caffettiera E mo’ cari hater fate ballare la vostra scimmietta, che mi prendo i popcorn”.
La risata, più che dal testo in sé, viene in gran parte da questo riconoscimento ironico delle coordinate (coordinate che possono essere anche la semplice consapevolezza dei linguaggi usati sui social network). La conoscenza del lettore è parte integrante della metaironia, in un circuito autistico e privato che disegna delle vere e proprie comunità. Questo tipo di gioco linguistico si muove sempre sul filo dell’ambiguità. Un’ambiguità che può generare dei misunderstanding pericolosi. Come nel caso del suicidio di Tiziana Cantone, la “vittima del web” più tristemente celebre della nostra epoca internettiana. Lo Sgargabonzi scrive un pezzo sulla rivista online Pixarthinking dal titolo CHE RIDERE. “Sono venuto a saperlo da varie segnalazioni sulla mia pagina Facebook – riporta l’articolo – di lettori stupiti dal fatto che non avessi dedicato nemmeno uno status a questa vicenda”. Il pezzo, scritto in tono serio e riflessivo, stigmatizza il becero umorismo proliferato sulla vicenda. Ma a questo punto si crea un cortocircuito grottesco nella fanbase, divisa tra chi elogia la bellezza dell’articolo – in pratica lo Sgargabonzi che toglie la maschera comica per ricordare che ci sono dei limiti all’umorismo nero, che può esistere solo se accompagnato da una particolare sensibilità – e chi pensa di essere ancora lost in a metalevel, postando l’articolo accompagnato da un commento come: “Lo Sgargabonzi scrive di Tiziana Cantone! Bravoh! Ah ah ah! SCOPRI L’ARTICOLO CHE STA COMMUOVENDO IL WEB!” (sic).
Un altro caso è quello di Bispensiero, altra pagina Facebook che ha un taglio politico che allo Sgargabonzi manca. L’universo di Bispensiero si muove più sul cut-up e la ricombinazione di testi e immagini (con alcuni bersagli ormai classici della pagina): un Adinolfi abnorme che si libra come uno Zeppelin, l’immagine di Maria Elena Boschi decontestualizzata e ricontestualizzata con altri codici pop (Matrix, Slavoj Žižek, la Vaporwave) fino a diventare l’oggetto post-pop “MEB”. Quello che avviene è una sorta di mitologizzazione: Adinolfi e la Boschi diventano archetipi della nostra coscienza collettiva (il primo mostrificato, la seconda deizzata), ma senza un orizzonte di senso esauribile in un significato preciso. A margine, la metaironia di Bispensiero sembra mirare a far esplodere delle contraddizioni. Ma l’ambiguità e lo stile postmoderno della pagina hanno fatto discutere tra chi sostiene che si tratti di una pratica discorsiva di destra, dati i continui riferimenti dissacranti a temi totemici della sinistra, e chi sostiene la neutralità dell’umorismo ricombinatorio. Il fatto è che qui l’ambiguità e i cortocircuiti vengono generati con intenzionalità e consapevolezza. La sfuggevolezza metaironica funziona efficacemente per fare a pezzi il mondo di una certa sinistra. La metaironia – ecco allora una prima tesi – invece di essere un linguaggio a-politico o addirittura anti-politico, presenta invece un alto potenziale politico. L’inside joke – ecco una seconda tesi – è già da sempre comunitarizzazione 4.0. È una prima forma base di politica.
Fantasmi
L’ironia e il postmoderno hanno in comune la disseminazione del senso. Nell’ironia si sosta sempre su un secondo (triplo, quarto…) livello del discorso; si è sempre all’interno delle coordinate di un meta-linguaggio, tale per cui tutto ciò che viene detto può essere dis-detto a piacimento. Il significato, nel linguaggio ironico, non è mai presente, ma sempre smarrito nel gioco intertestuale. Con ironia si può dire tutto senza mai rendere l’io responsabile, proprio perché questo io, questa identità a cui far rendere conto, è semplicemente indefinibile. Il critico letterario Paul De Man – in Blindness and Insight: Essays in the Rhetoric of Contemporary Criticism – parlava di uno sdoppiamento dell’Io nell’atto ironico. Ma si potrebbe parlare piuttosto di frammentazione dell’io (un disorientamento nella catena meta-meta-meta…). La posa metaironica domina sulla persona concreta, che ha giudizi e punti di vista sul mondo che lo circonda. Detto più prosaicamente: la domanda che sorge sempre di fronte alla metaironia è: ma qual è il pensiero reale dell’autore? Una domanda impensabile per l’ironia classica sopravvissuta fino alla modernità, dove essa invece era proprio strumento della verità, dello smascheramento, contro le mistificazioni e le ideologie dominanti. Postmoderno e ironia hanno il merito di decostruire quello che Theodor Adorno, in riferimento agli heideggerismi, chiamava il gergo dell’autenticità; un linguaggio che parla per “essenze”, e che sottobanco santifica forme di repressione e poteri dominanti, come nei fascismi. La coscienza spezzata dell’uomo metaironico ha poi come corollario quello che Peter Sloterdijk, nel suo bestseller filosofico del 1983 Critica della ragion cinica, ha chiamato cinismo moderno, distinguendolo dal kinismo della filosofia pratica greco antica. Là dove il kinismo antico metteva realmente in questione il potere attraverso un inno all’autarchia del singolo, alla sua serenità, praticante una filosofia della buona vita, il cinismo moderno è emerso come un nichilismo per fighetti. Bret Easton Ellis per gli echo boomer declassati. Un assetto mentale degli individui del tardocapitalismo, «una falsa coscienza illuminata» funzionale ad affrontare anestetizzati lo stress quotidiano.
Prima abbiamo descritto il postmoderno e la sua logica culturale ironica in termini di reiterabilità, riproducibilità, ricombinabilità dei contenuti sempre più pervasiva. Questo cambiamento nei “giochi linguistici” non nasce dal nulla, ma da determinate pre-condizioni storiche che Michel Foucault chiamerebbe episteme: vale a dire un certo corso dello sviluppo tecnologico, una certa relazione dei discorsi scientifici e culturali di una data epoca. Tre esempi che chiamano in causa tre storie della cultura diverse: il sampling (musica), youtube (video), i meme (immagine). A partire dal metà anni ’70, per esplodere poi negli anni ’80, in ambito musicale le nuove tecnologie di campionamento cominciano a cambiare radicalmente l’approccio degli artisti. Non più creazione, ma produzione. Un gioco spettrale di attingimento da uno smisurato archivio di suoni, se non spesso proprio di appropriazione culturale, come nel caso dell’hip hop britannico e del rapporto con la cultura black. Scrive Simon Reynolds:
Il sampling richiede l’utilizzo di registrazioni per produrre nuove registrazioni: è l’arte musicale di coordinare e mettere insieme i fantasmi
Cresce il gusto per il pastiche e l’ironia che questi nuovi approcci permettono. Penso ad esempio ad un gruppo come i Residents, che fondono un primitivismo ironico e retrofuturistico con la ricerca ossessiva di segmenti sonori da deformare e riassemblare. Un fil rouge che arriva fino alla Vaporwave di artisti come Daniel Lopatin, oppure al folk spettrale e ipnagogico di Ariel Pink. Un mosaico fantasmagorico, per l’appunto: atteggiamento sintetizzato concettualmente dal quel misto di musica concreta e hauntology della Ghost Box Record di Julian House. Un happening retrofuturista in cui saccheggiare il passato: colonne sonore, passaggi di brani musicali, psichedelia varia. La cultura perde la sua monoliticità e si attesta come materiale plasmabile all’infinito.
Nel 2005 nasce YouTube. L’estetica contemporanea fatta di pastiche, citazionismo, ironia e frammentazione trova uno strumento potentissimo che amplia le potenzialità di queste caratteristiche. YouTube fa proliferare il sovraccarico dei dati e la mania di archiviazione che caratterizza la nostra epoca. Nulla viene più dimenticato, nulla si perde. YouTube manda in soffitta la nozione di memoria storica, cardine del processo di formazione di qualsiasi “cultura”. La memoria storica, infatti, si basa sulla selezione, sulla creazione di un canone, sullo scarto; di questo non c’è più bisogno. Su YouTube può esserci potenzialmente tutto: da musica e film sconosciuti perduti negli oceani del tempo agli spot pubblicitari. Tutto può tornare di moda, essere rivalutato. Tutto può essere riassemblato e ricontestualizzato. Ma YouTube favorisce anche una fruizione non unitaria del materiale culturale. La manipolabilità del player – il poterlo mandare avanti e indietro, bloccarlo su punti a piacimento – stimola la preferenza verso i frammenti rispetto che ad una fruizione del contenuto per intero. Il frammento è il cardine di quest’ontologia spettrale che innerva il postmoderno, dove al Tutto si fa solo cenno, dove esso si dà sempre in una dialettica di presenza e assenza: vedo e rivedo solo la scena (parte) di un film (tutto). Ogni oggetto culturale (film, canzoni, spot, eccetera) lascia delle tracce. Il mondo culturale diventa un processo di riproduzione e assemblamento di queste tracce. L’altro aspetto è quello dei meme, a cui già si è fatto cenno parlando delle pagine Facebook, e che rappresenta l’aspetto più politico dell’affaire “metaironia”.
L’ironia come problema politico: dall’Alt-right alla sinistra memetica
Ma che che cos’è un meme? Il meme non è un semplice contenuto che diventa virale. Non sono le immagini con i disegnini fatti male apposta (i rage comics), non è un’immagine con una battuta. Il meme, tecnicamente, è un contenuto internet trasmesso attraverso gli utenti che si evolve e si modifica durante questo fluire. Le analogie con quanto detto finora sulla metaironia sono evidenti. C’è la comunità, persino la tradizione; vale a dire un “patrimonio” che si trasmette da persona a persona, con tanto di contrapposizione tra elite e profani, che ritradotto nel gergo tecnico sono gli autist contrapposti ai normie. Ma soprattutto c’è il gioco postmoderno dell’assemblamento, di un contenuto frammentato che lievita nel suo essere ricombinato e stratificato dalla comunità. Il caso più noto è quello di Pepe the Frog. Un personaggio di un fumetto del 2005 creato da Matt Furie, suo malgrado diventato in poco tempo, come ha titolato il Corriere della Sera, “il meme virale che diventa simbolo d’odio”.
“Ecco cosa faremo domani. Dobbiamo pensare a un buon hashtag da usare e dobbiamo avere tutti i nostri meme pronti all’uso”. Queste sono parole di Mike Cernovich, tra i nomi chiave dell’Alt-right, un movimento politico di estrema destra alternativo al tradizionale mondo neo-con, che è stato fondamentale nell’ascesa di Donald Trump. Il contesto della dichiarazione è quello della campagna elettorale per il tycoon. L’Alt-right potrebbe essere semplificata come un movimento neoreazionario da tastiera, il cui obiettivo è controllare lo storytelling dei social network. Quello che Angela Nagle – autrice del fondamentale Kill All Normies: Online culture wars from 4chan and tumblr to Trump and the alt right – ha definito “una strana avanguardia di gamers adolescenti, postatori di svastiche sotto pseudonimo amanti degli anime giapponesi, ironici conservatori da South Park, simpaticoni antifemministi, molestatori e troll creatori di meme il cui humor nero e amore per la trasgressione in sé rende difficile discernere quali posizioni politiche sono sostenute davvero e quali soltanto ‘for the lulz’ ”.
Identitarismo, ironia sul femminismo, misoginia e maschilismo delle vecchie pubblicità statunitensi: l’Alt-right tenta di egemonizzare l’internetsfera con contenuti ripescati direttamente dagli anni ’40/50. Chi ha dimestichezza con il mondo di Internet sa bene quanto siti come 4chan siano stati l’incubatrice di una nuova destra che parla i linguaggi dei millennial e lavora sull’elemento più sensibile della coscienza politica: l’immaginario.
Il meme è la particella minima dell’estetica internettiana capace di veicolare contemporaneamente stati d’animo e una pulsione alla prassi politica riconfigurata nell’era digitale – ad esempio attraverso la creazione e condivisione sui social. Qualcosa che negli Stati Uniti ha funzionato molto più che siti di fact-checking e raffinate analisi sul New Yorker. La propaganda politica si è adattata a un mondo in cui l’attenzione media dei cittadini è calata sensibilmente e l’informazione viaggia senza mediazioni, via social network.
Poco fa abbiamo parlato di decostruzione del futuro: ecco, l’Alt-right mette in opera uno degli effetti collaterali di questa de-temporalizzazione. Contenuti reazionari si fondono con le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi. Estasi e pericolo del retrofuturismo al tempo stesso. È qui che si incontrano l’estetica vaporwave (che musicalmente è stata definita non a caso “the whitest music ever”, ormai colonna sonora di quest’area politica), la Rete e l’immaginario trumpiano “grab her by the pussy”. Un immaginario fascista che ha un’influenza fortissima sul tessuto sociale. Un esempio? Alexandre Bissonnette, il 27enne che a gennaio aveva compiuto un massacro in un centro culturale islamico in Canada, si era radicalizzato anche attraverso l’immaginario dell’Alt-right e il trolling su internet. La posa adolescenziale dell’Alt-right, questa componente cyberbullistica intrinseca, è il tratto che si porta dietro a causa della sua genesi. Essa nasce come anticorpo all’intrusione di un politicamente corretto oppressivo – fino al punto di diventare caricaturale. Quel particolare ingabbiamento del linguaggio che, in termini psicoanalitici, fa lo stesso effetto di un genitore che si intromette nelle scelte private e comportamentali degli adolescenti. Internet era uno spazio libero, il politicamente corretto della sinistra virtuale dei cosiddetti Social Justice Warriors (SWJ) lo ha rovinato, rendendolo “noioso” e “insensato”. Questa è la sintesi. L’alt-right nasce quindi da una pulsione liberatoria.
È immaginabile una politicizzazione della meta-ironia anche a sinistra? Nell’ambiente Alt-right circola un mantra: “the Left can’t meme”. Ma, a dire il vero, questo è un processo già in atto nel mondo anglosassone. La Tumblr-left del politically correct ha cominciato a creare malumori anche nel magico mondo del progressismo. Non solo per un discorso di opportunità (il fanatismo pol.corr. non è stata una strategia efficace, anche perché sotto all’isterismo linguistico raramente si è intravisto un reale programma politico pratico, fattuale, socio-economico), ma anche perché spesso i social justice warrior rivolgono la loro acredine e le loro critiche anche a persone ascrivibili alla loro stessa area progressista, in una gara delirante a chi è più “corretto”. Un caos da cui è cominciata a emergere una sinistra in rete (che ci piacerebbe chiamare una volta per tutte sinistra memetica) anti-Alt-right, ma al tempo stesso anche in netta rottura con il linguaggio liberal, i SJW e la retorica politicamente corretta. Un fenomeno che è stato descritto come alt-left o dirtbag left. Il bagaglio virtual-politico è lo stesso dell’Alt-right: irrivererenza, metaironia e meme. Da un lato, l’emergere di un tale movimento ha degli aspetti inquietanti: l’appiattirsi sulla semplificazione del linguaggio politico sembra l’ennesimo segno dei tempi, vale a dire di un progressivo livellamento verso il basso della cultura. Dall’altra, questa alt-left risponde ad un’esigenza di ritorno alla forma primigenia della politica, quella del conflitto. Un ritorno che ha come corollario la conseguente uscita dall’universo liberal delle buone maniere e dei dibattiti accademici infiniti, particolarmente cari all’era Obama e al mondo del longform journalism. Questo conflitto, ovviamente, non si articola più attraverso i bagni di sangue della storia moderna e contemporanea, ma quantomeno attraverso lo scontro tra diverse e inconciliabili visioni della società da far prevalere sul terreno dell’egemonia dell’immaginario. Su un piano più eminentemente pratico, se l’Alt-right si è incarnata nel conservatorismo trumpiano, questa sinistra sembra avere come orizzonte politico quello dell’emergente populismo di sinistra (nel senso non dispregiativo di Laclau-Mouffe): come nei casi di Bernie Sanders e Jeremy Corbyn.
Senza contare che la prassi politica non è affatto neutralizzata dal campo metaironico. Non si tratta di questioni tra nerd in cameretta, come a prima vista potrebbe sembrare. I social media, paradossalmente, possono spingere all’azione, fare comunità. Come quando 4chan ha scovato una bandiera anti-Trump issata dall’attore Shia LaBeouf nel mezzo di una landa desolata del Tennessee, e l’ha sostituita con un cappellino del tycoon e una t-shirt di Pepe the Frog (una storia vera). A questo punto si aprono due considerazioni. Da un lato, l’aspetto pericoloso: una sinistra memetica accetterebbe così un terreno intriso di risentimento piccolo-borghese, animato da reazioni emotive e che situa il dibattito in un orizzonte di immediatezza refrattario a qualsiasi etica del discorso di stampo progressista. Dall’altro, la sua possibilità più grande: sfruttare la potenza fluida della metaironia per fare a pezzi e sostituire un modo di fare comunicazione e slogan ancora fermo al movimentismo degli anni 70, come se non fosse mai esistita una cultura cyberpunk antagonista. L’alt-left come un mondo di memers che sostiene occultamente campagne elettorali (il leader laburista Corbyn è già il politico più memizzato degli ultimi anni) o movimenti extrasistema che instillano contenuti inconsci e instaurano legami socio-virtuali. Saremmo ben lontani dal meme come “merda del prosuming”, come scrive Raffaele Alberto Ventura ne La teoria della classe disagiata. D’altronde, se una frase di Marcuse come “l’immaginazione al potere” nel contesto del ’68 è potuta diventare un elemento di massa, pronunciata e risignificata a piacimento da qualsiasi politico di tutto l’arco parlamentare italiano, perché un “meme di sinistra” non può infettare come un virus l’immaginario comune?
Colonizzare l’immaginario = inibire parole chiave
Nel nostro Paese, la meta-ironia è veicolata in gran parte da pagine Facebook che non sono per forza creatrici di meme. Qui la metaironia è ancora per lo più testuale, poco visuale. Ma anche in tale forma la metaironia conserva le caratteristiche rinvenute fino a questo punto: è immediata, non-argomentabile, non dialettica (non richiede nessun confronto, cala dall’alto, può essere accettata o rifiutata).
Questa metaironia, trasposta in ambito politico, oltre a veicolare contenuti in maniera eccezionale, può anche neutralizzare le parole chiave del dibattito. Un caso emblematico fu quello della pagina Facebook Colpa del neoliberismo. Una pagina di post ironici sull’abuso del termine neoliberismo come causa-di-tutti-i-mali-del-mondo nelle analisi dell’universo della sinistra più o meno radicale. Il problema è sorto quando il successo della pagina – diventata intanto rubrica sull’edizione cartacea de Il Foglio- è andata di pari passo con un proliferare di commenti secchi sulle situazioni ataviche di disagio nei vari scenari italiani (un esempio a caso, Roma e i mezzi pubblici) con lo stigma ironico del “Tutta colpa del neoliberismo?”. Il termine neoliberismo come panacea di tutte le spiegazioni si rovescia nel contrario: il neoliberismo come sistema intoccabile dalla critica. Tanto che in molti articoli – anche di area dichiaratamente antagonista – si è cominciato a usare una surreale parsimonia nell’utilizzo del termine; addirittura, spesso, mettendo una parentesi esplicativa per far capire al lettore che chi scrive è consapevole della faccenda, “sì, ecco, ora non postatemi su Colpa del neoliberismo”. Tra meme e metaironia si muove anche la pagina Gli Eurocrati, che conta oltre 80mila like, e che si è poi scoperto essere portata avanti da stagisti del Partito Democratico a Bruxelles. Una viralità dei contenuti che rende la prospettiva di un futuro fatto di campagne elettorali a colpi di meme non così irreale, soprattutto tenendo conto del fatto che per le prossime generazioni di nativi digitali creare un meme potrà diventare banale come mandare un sms.
[…] questo proposito, Simone Sauza, dalle colonne de L’Indiscreto, opera una disamina dell’ironia come mezzo di decostruzione del significato in rete e delle […]
Riguardo l’aspetto più “teorico” dell’articolo, vale a dire il postmoderno identificato come un gigantesco archivio indifferenziato, e la relativa scomparsa di una memoria storica che funzioni come narrazione individuante, mi vien da dire che la relazione con il “tutto” (che poi null’altro sarebbe che l’archivio) è necessariamente mediata dall’algoritmo. E’ all’algoritmo che demandiamo il nostro rapportarci al “sacro”: l’algoritmo è a tutti gli effetti il prete della contemporaneità: l’interpretante. E’ lui infatti a tradurre le nostre richieste e le nostre identità, è lui che interloquisce con questo grande Altro che non è più una catena significante, ma per l’appunto un archivio.
In questo senso le riflessioni di Ruovroy sulla governamentalità algoritmica sono molto significative: anzitutto per la capacità di mettere a fuoco il problema in maniera “chiara e distinta”, in secondo luogo per porre tutta una serie di questioni che ad uno sguardo più superficiale possono agevolmente sfuggire. La questione è soprattutto cosa significa affidare il ruolo dell’interpretante ad un congegno macchinico che reca dentro di sé, in maniera immancabile, tutto il portato dell’ideologia di cui è figlio: in base a quali criteri Google sceglie cosa mostrarci? In base a quali parametri Amazon sceglie cosa consigliarci? E’ chiaro che la questione, da un punto di vista pratico, sfiora soltanto l’oggetto dell’articolo, ma, provando a ricongiungere i discorsi: come si lega la logica dell’archivio (con il suo maestro di cerimonie, l’algoritmo) con la pratica proto-dadaista della memificazione, e più in generale dell’ironia come collante di brandelli di testi raccattati nei meandri dell’Archivio? Qual è il rapporto che lega il memer dell’alt-right all’algoritmo di Facebook: se entrambi costruiscono narrazioni, è possibile immaginare uno in contrapposizione all’altro? In questo senso si potrebbe inquadrare l’insofferenza nei confronti del politically correct come una insofferenza nei confronti delle logiche che sono alla base della programmazione algoritmica? In questo caso tutto quanto descritto nell’articolo sarebbe una risposta, per quanto perversa, ad una concretizzazione dell’ideologia sotto forma di formula matematica. Mi sa che è lungo come commento.